venerdì 15 luglio 2022

BASIA BULAT

 

Basia Bulat - The Garden

(Secret City Records, 2022)

 


Esiste un sottogenere di prodotto discografico che ho deciso di definire “Ho una intera orchestra a disposizione, perché non ne approfitto per rifare i migliori brani del mio catalogo in versione orchestrale? Mi pare una buona idea!”. Poi, se volete, troviamo un acronimo alla definizione per mere questioni di brevità, ma il succo è quello, ed è una tentazione a cui non sono sfuggiti grandi e piccoli nomi, non ultimo recentemente anche Sir Paul Weller. Ora è il turno di Basia Bulat, autrice che arriva a questo appuntamento con solo cinque album all’attivo, e con una carriera che, dopo il botto iniziale di Oh, My Darling del 2007, ha vissuto fasi altalenanti, non sempre all’altezza delle grandi aspettative che aveva innescato. Di fatto lei è una bravissima artista che si muove con grande delicatezza nelle trame del folk e della canzone d’autore, potremmo dire la vera figlia del matrimonio artistico tra la sua connazionale Joni Mitchell e Sandy Denny. Uscita soddisfatta ma non del tutto rinfrancata dall’esperienza del suo ultimo sofferto album Are You in Love?, prodotto con il suo solito gusto un po’ barocco dal My Morning Jacket Jim James, Basia Bulat pubblica ora questo The Garden, sorta di personale Greatest Hits rivisitato in chiave sinfonica, in verità punto di arrivo di una serie di concerti in cui si è fatta accompagnare da ensamble classici con grandi applausi. Non è un vero live però questo, semmai un disco registrato in presa diretta da Mark Lawson (già ingegnere del suono degli Arcade Fire) con la sola aggiunta delle chitarre e del basso di Andrew Woods e Ben Whiteley. Il risultato è sicuramente affascinante, e concede alla Bulat anche la giusta occasione per dimostrare doti vocali non indifferenti, e magari non fa male a nessuno riascoltare alcune gemme del suo repertorio che la voracità produttiva di questi anni 2000 rischia di gettare nel dimenticatoio come Heart Of My Own, The Shore, Fables o la più tradizionale The Pilgriming Vine. Quello che purtroppo però non accade è il miracolo di sorpassare gli originali o affiancarsi come irrinunciabile alternativa, quello che riuscì ad esempio, con gran sorpresa di molti, ai Portishead ai tempi del loro splendido Roseland NYC Live. Più che altro nella fredda comunicazione di un disco ascoltato da lontano nel nostro vivere quotidiano (a casa, in treno, in ufficio, ovunque poi voi abbiate occasione di ascoltarlo), pare evidente che ci si perda qualcosa del calore comunicativo di una proposta così intensa nei suoni, ma nel suo complesso inevitabilmente omogenea e poco idonea a catturare l’attenzione di un orecchio distratto. Resta comunque un punto della situazione importante per lei, sperando possa essere preludio per quel salto di maturità anche le ultime prove discografiche avevano lasciato un po’ in sospeso. E mi raccomando, “play it low” e in silenzio.

Nicola Gervasini

VOTO: 7

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