mercoledì 30 maggio 2018

ALL THE LUCK IN THE WORLD

All The Luck in the World
A Blind Arcade
[
All the Luck in the World 
2018]
alltheluckintheworldmusic.bandcamp.com
 File Under: Bio-Folk

di Nicola Gervasini (17/03/2017)

Capitano quei dischi dove, se non sei più che preparato sull'argomento, hai qualche difficoltà a capire quale sia il nome del gruppo e quale il titolo dell'album. Nominare una band All The Luck In The World è scelta bizzarra, e ci sarebbe da chiederne l'origine ai tre giovani cantautori irlandesi che nel 2014 riunirono le forze per un omonimo album d'esordio che li mise in evidenza nel mondo indie britannico. Neil Foot, Ben Connolly e Kelvin Barr erano tre studenti allora, e nelle camere universitarie nacque l'idea di unire le forze per una proposta che legasse la naïveté acustica del primo Bon Iver, la delicatezza delle melodie dei Magnetic Fields e un po' di tradizione folk. A Blind Arcade arriva dopo quattro anni in cui i tre amici hanno messo alla prova la tenuta della loro proposta sui palchi di mezza Europa, e continua la strada intrapresa nel primo album fin dalla simbolica copertina in stile fantasy.

E, come l'esordio, il nuovo disco soffre un po' della vena altalenante del trio, che si alterna alla voce e agli strumenti, con chitarre acustiche a far da padrone e pochi accorgimenti in sede di arrangiamenti. Landmarksunisce melodia e amore per la natura in una sorta di bio-folk a chilometro zero, ed è la dimostrazione che l'indie-folk può ancora dire molto nonostante non abbia più la carica innovativa degli anni zero, ma sono già episodi come Pages, con la sua melodia flebile, il suo arrangiamento minimal e un violoncello a creare atmosfera, che cominciano ad avere il fiato corto in uno studio di registrazione. L'album non è brevissimo (45 minuti), e visti i ritmi di alcuni episodi come la lunga Into The Ocean (che parte molto bene ma tergiversa troppo nel finale), la tensione cala parecchio, ma fortunatamente nel bucolico percorso offerto dagli All The Luck In The World si incontrano anche deliziosi bozzetti folk come Golden October e soprattutto Moon, con il suo bel crescendo d'archi.

A Blind Arcade potrebbe essere la colonna sonore ideale per un film da festival Sundance, come dimostra anche il video di Contrails, dove la telecamera segue un gruppo di ragazze che si divertono e malinconicamente scoprono di essere pronte al gran salto verso la vita adulta, con un senso di fatalità dato da un testo che narra di come nella vita gli incontri fondamentali avvengono sempre per caso. Il meglio arriva forse nel finale di Abhainn, con un brano più strutturato e, se vogliamo, "pensato" degli altri, che chiude bene un disco monolitico nel sound e vario nell'ispirazione. Sarà che forse arrivano davvero ultimi di una lunga lista di giovani freak moderni dediti al low-fi esistenziale, ma il secondo capitolo degli All The Luck In The World per ora attira attenzione ma non grandi applausi.

sabato 26 maggio 2018

JOHN OATES

John Oates & The Good Road Band
Arkansas
[
Ps Records/Thirty Tigers 
2018]
johnoates.com
 File Under: Going back to my roots

di Nicola Gervasini (05/03/2018)

New York, 1981: uffici della RCA Records. John Oates incontra Bob Buziak, presidente della RCA Records. Il gran capo trova il tempo per fermarsi a fare i complimenti ad uno degli artisti più di successo della sua scuderia con il duo Hall & Oates. "Salve John, complimenti per le vendite del vostro Private Eyes! Mi aspetto grandi cose dal vostro nuovo album, avete già qualche progetto?". "Certo Boss, pensavo di fare un disco solista senza Daryl, dedicato alla musica di Mississippi John Hurt". "Ah ma splendido! Chiamo subito Joe Galante, patron della RCA di Nashville, e ti metto a disposizione i migliori musicisti della città! Sarà un successo!". "Grazie Boss!". Ok, sto sognando ovviamente. Le cose, come sapete, non sono certo andate così.

Il duo Hall & Oates negli anni Ottanta continuò a produrre con successo dischi di sopraffino soul-pop per i quali ancora li ringraziamo, ma per sapere dei sogni di ritorno alle radici di John abbiamo dovuto aspettare gli anni della fine delle luci della ribalta e della dorata pensione di due musicisti con più nulla da dimostrare. E se Daryl Hall, vera prima voce del duo, ha continuato anche da solista a battere strade sporcate di soul bianco, John Oates, chitarrista e mente musicale, ha preferito dedicarsi alle passioni che hanno segnato la sua preparazione artistica. Arkansas è il suo quinto album solista dal 2002 ad oggi, ed è nato veramente come idea di un concept su Mississippi John Hurt, ma si è via via trasformato in un viaggio nella tradizione più a largo raggio. Niente che non sia già stato rivisitato ormai dopo anni di dischi-recupero, ma questi brani, registrati con l'ausilio di una band battezzata senza rischio di confusione sulle fonti di ispirazione The Good Road Band (Sam Bush al mandolino, Russ Pahl alla pedal steel, Guthrie Trapp alla chitarra, Steve Mackey al basso, Nathaniel Smith al violoncello, e Josh Day alla batteria), seguono un percorso che lo stesso Oates descrive come "Dixieland, immerso nel bluegrass, e condito con Delta Blues".

Si parte in un tripudio di acustiche e mandolini con Anytime, un successo del 1924 di Emmett Miller (ma fu scritta nel 1921 da Herbert "Happy" Lawson), per passare alla bella aria da West Coast anni 70 della title-track, che con il blues elettrico di Dig Back Deep, rappresenta l'unico brano autografo della raccolta. Dal progetto su Hurt arrivano My Creole Belle e Spike Driver Blues, mentre il corpo del disco è rappresentato dal lungo traditional virato a spiritual da campi di cotone Pallet Soft and Low, brano che lo stesso Mississippi John Hurt fece suo con il titolo di Make Me a Pallet On the Floor. Di dominio comune sono anche il classico Stack O Lee (antenata della ben più nota Stagger lee), Lord Send Me That'll Never Happen No More, mentre Miss the Mississippi and You è attribuita al compositore William Heagney.

Vocalmente Oates non ha grandi doti, ma la voce resa roca dall'età lo aiuta molto a calarsi nello spirito di questi brani, mentre che fosse chitarrista intelligente e di gusto non è una sorpresa. In definitiva 33 minuti sentiti e ben suonati di musica classica.

BILL RYDER-JONES

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