lunedì 30 giugno 2025

AJ CROCE

 

A.J. Croce

Heart Of The Eternal

(BMG Rights Management, 2025)

File Under: Play It Again, A.J.

L’esercito dei figli d’arte nel rock ha da sempre due categorie ben precise, e cioè quelli che in qualche modo ricalcano le strade paterne/materne semplicemente aggiornandole ai tempi, o chi invece si distacca del tutto, prendendo altri modelli stilistici. A.J. Croce, figlio del songwriter Jim Croce, è da anni un vero e proprio adepto di un suono a metà tra il Tom Waits degli anni 70 e il New Orleans sound di Dr. John, certo lontano dal cantautorato West Coast del padre. I suoi primi album negli anni 90 furono piuttosto apprezzati (se non li conoscete, recuperate subito That’s Me in The Bar, il migliore del lotto), poi nei primi 2000 anche lui sentì l’esigenza di provare a “normalizzare” il suo suono e il suo sound, e un po’ si era perso, ma già da qualche titolo degli ultimi quindici anni pare aver ritrovato la voglia di esprimersi col linguaggio al lui più congeniale. Per questo vi presentiamo questo Heart Of The Eternal, suo undicesimo album, un po’ come un nuovo capitolo di un libro già scritto, una sorta di prosecuzione del precedente album di inediti Just Like Medicine del 2017.

A fare la differenza è che qui a produrre c’è un altro nobile “figlio di”, uno Shooter Jennings che da qualche tempo sembra dare il meglio più come collaboratore che come primo nome, e che ammanta le canzoni di Croce con un suono più deciso e cristallino, sicuramente più in linea con le esigenze di riproduzione streaming odierne. Ma soprattutto è il primo vero album scritto di suo pugno uscito in seguito alla tragica morte della moglie, lutto che artisticamente aveva elaborato usando parole d’altri nel cover-record By Request del 2021, e aver lasciato passare qualche anno è stato sicuramente utile, perché i testi tengono conto sì del gran dolore patito, ma cercano anche una via positiva di ritrovata filosofia di vita e di amore, e di rasserenata coabitazione con i suoi lutti.

Insomma, fin dall’aggressivo giro di I Got A Feeling c’è voglia di vita e vitalità, voglia di avvolgersi nella calda e rassicurante coperta di un brano ovvio e stra-sentito (ma che non ci verrà mai a noia) come la baldanzosa On A Roll. Le cose si fanno serie con la soul-ballad Reunion, tra cori femminili e organi Hammond che sibilano come nella migliore tradizione, con il tango alla Calexico di Complications Of Love, con il blues di Hey Margarita e con la suadente The Best You Can. Il suo stile dei primi album torna a fare capolino in So Much Fun, e il momento quasi da crooner di All You Want. Tra gli ospiti troviamo la voce di John Oates e quella fascinosa di Margo Price nel finale tutto archi e cori di The Finest Line.  Tutto classicissimo e tutto prevedibilissimo, ma tutto anche fatto benissimo, a riprova che il ruolo che potrebbe avere A.J. Croce nel panorama musicale moderno sia quello di continuare ad essere un fiero “New Traditionalist”, senza tentazioni di cercare una modernità che proprio non gli si confà.

 

Nicola Gervasini

giovedì 26 giugno 2025

Ashleigh Flynn & the Riveters

 

Ashleigh Flynn & the Riveters

Good Morning, Sunshine

(2025, Blackbird Record Label)

File Under: Country Fun

 

Sono passati ormai 17 anni da quando su queste pagine vi consigliavamo l’album American Dream di una giovane cantautrice di nome Ashleigh Flynn, inizialmente presentata dalle sue cartelle stampa come una nuova Norah Jones, ma poi nel tempo sempre più adepta di un cantautorato ostinatamente e fieramente country-rock. La ragazza non ha forse più tenuto lo stesso livello da allora, fin quando poi ha deciso nel 2018 di uscire dalla solitudine e unire le forze con le Riveters, una “All-Female Americana & Rock Band”, come si autodefiniscono sul loro sito. E sappiamo bene quanto una band al femminile faccia storicamente scena nel panorama rock (chiedetelo anche a Dave Alvin ad esempio), e così la nuova combo (in totale 7 donne sul palco), dopo aver pubblicato un album d’esordio nel 2018, ha poi passato anni ad infiammare i palchi americani con set energici e più che coreografici.

Il titolo del loro secondo sforzo discografico in studio, Good Morning, Sunshine, esprime benissimo lo spirito:” fun fun fun” avrebbero detto i Beach Boys, per cui al bando ballate tristi e polemiche politiche, e via ad una celebrazione della vita da strada e da bar (l’apertura Drunk in Ojai lì ci porta fin da subito), in cui si da spazio alle musiciste e alla loro verve. In qualche modo oggi Ashleigh Flynn & the Riveters potremmo definirle come dei Commander Cody and His Lost Planet Airman in quota rosa (se non li ricordate, andate subito a studiare i loro dischi degli anni 70), per citare nomi classici, o delle Dixie Chicks più spensierate, per stare su esempi più recenti,  dove non si cerca tanto la proposta musicalmente originale, quanto il cocktail esplosivo di energia e suoni della tradizione.

In questo scenario Ashleigh Flynn forse perde un  po’ della sua personalità, ma ugualmente si cala bene nel ruolo di band-leader, cantando su toni altissimi e ricordando sempre più la Maria McKee dei tempi d’oro. Sul piatto girano pezzi di sapore rockabilly (Deep River Hollow), baldanzosi brani da line-dance come Eye of the Light, occhiate convinte al southern-rock come la title-track, e anche qualche momento più calmo come Love is An Ember, fino alla corale battuta di mani di Don’t Leave Me Lonesome. In questo mix di bluegrass, country e varie influenze di roots-music, la Flynn riesce a piazzare anche qualche testo impegnato sull’ecologia, e forse si potrebbe anche intuire un sottotesto sociale in brani danzerecci come Shake The Stranger, ma non è sulle parole che punta un disco nato per divertire e intrattenere durante un viaggio, durante una bevuta al bar, o semplicemente da suonare in casa in un giorno di festa. A Portland funziona benissimo, in Italia non so se fa lo stesso effetto, ma vale la pena provarci.

Nicola Gervasini

lunedì 23 giugno 2025

DEAN OWENS

 

Dean Owens

Spirit Ridge

(Continental Song City, 2025)

File Under: From Texas to Romagna

 

Nel 2008 proprio su queste pagine parlai del primo disco lanciato a livello internazionale di Dean Owens (Whiskey Heart), descrivendo uno scozzese fieramente innamorato dell’America, presentato sulle note di copertina dal connazionale Irvine Welsh come una sorta di esploratore di un immaginario che noi qui ovviamente ben conosciamo. Uno dei suoi primi dischi autoprodotti si intitolava Gas, Food & Lodging, e credo che questo basti per accendere qualche lampadina nei nostri riferimenti culturali.

Nonostante l’impegno del produttore e chitarrista Will Kimbrough, il disco non impressionò troppo (ai tempi davamo i voti  numerici, e si meritò un 6 di incoraggiamento), però il buon Owens ha continuato a studiare disco dopo disco, tonando nei nostri radar quando, decisosi per un trasferimento artistico in terra statunitense, ha cominciato a collaborare con gente come i Calexico per il già notevole Sinner's Shrine del 2022 e successiva saga di EP dedicati al confine messicano condensati nell’album El Tiradito (The Curse of Sinner's Shrine), a cui va aggiunto anche un side-project a tre mani sempre con Will Kimbrough e Neilson Hubbard (Pictures).

Insomma, Spirit Ridge è il classico disco in cui lo si aspetta un po’ al varco, perché ormai di esperienza ne ha tanta, e i buoni maestri non gli sono mancati, e infatti qui possiamo davvero a confermare che alla fine il “ragazzo” ce l’ha fatta a diventare un credibile cantore di frontiere yankee. E lo fa paradossalmente accasandosi nelle nostrane terre emiliane, sfruttando l’ormai consolidata esperienza di Don Antonio (alias Antonio Gramentieri) nel descrivere un certo immaginario musicale, contattato su consiglio proprio di John Convertino, che ha poi partecipato a queste sessions.

Potremmo quasi dire che Gramentieri ormai un disco del genere lo suona e produce ad occhi chiusi, e il suo tocco (e quello di alcuni suoi collaboratori, come ad esempio il chitarrista Luca Giovacchini) si sente al primo colpo nei riverberi dell’iniziale Eden Is Here o nel breve intermezzo mariachi di Spirito. A questo punto, se il risultato è garantito dal team, resta però da capire quanto Owens ci abbia messo di suo, e rispetto ad esempio al disco di 17 anni fa, in un brano tesissimo (e francamente bellissimo) come My Beloved Hills, è proprio la sua prova vocale che mostra una nuova maturità, che ribadisce come anche senza grandi e potenti mezzi vocali si possa comunque incidere su un brano.

Owens scrive tutti i brani con toni lenti e profondi, anche se c’è spazio anche per qualche episodio più veemente (l’epico dialogo tra chitarre e sezione d’archi di Light This World), e dopo un momento un po’ sperimentale (The Buzzard and the Crow), arriva l'uno-due da K.O. di Burn It All e Face The Storm, anima centrale del disco.

Dodici brani per 49 minuti, ma era difficile voler tagliare qualcosa, volendo lasciare spazio ai fiati di Michele Vignali e Francesco Bucci (arrangiati da Vanni Crociani) nella cavalcata di Wall Of Death, o per chiudere con i tre brani liricamente più intensi (A Divine Tragedy, Spirit Of Us e Tame The Lion). Un bel salto di qualità che porta quel 6 di un tempo ad un 8 pieno.

Nicola Gervasini

lunedì 16 giugno 2025

LUMINEERS

 

The Lumineers - Automatic

Dualtone, 2025

 

Per molti i Lumineers resteranno solo degli one-hit-wonder, cioè quei gruppi che verranno ricordati dal grand pubblico per un'unica canzone, ed è un destino decisamente curioso per una band del genere. Più che altro perché negli anni 2000 di band a due elementi (Wesley Schultz e Jeremiah Fraites ) dediti ad un americana-folk riletto con piglio indie, ne sono piene le cronache e le pagine delle riviste dedicate, ma un successo planetario come Ho Hey del 2012 pochi possono vantarlo. Il brano era una simpatica folk-song forte di un coretto impossibile da non memorizzare al primo colpo, e qui poi partono sempre quelle diatribe critiche sugli effettivi meriti di un tale successo e la relativa polemica “perché loro si, e altri no”.

La storia del rock è piena di paradossali ingiustizie, e nel novero conto anche quel riflusso di apprezzamenti che spesso chi azzecca il brano popolare deve subire nel proseguo della carriera. Insomma, i Lumineers ora li conoscono tutti, ma pochi poi sono stati disposti a prenderli sul serio anche nei loro dischi successivi. Non che il duo abbia sfornato poi indiscutibili capolavori, ma la sensazione è che la loro opera sia stata accolta con aria di sufficienza.

Per questo spero che almeno questo Automatic, quinto capitolo della loro saga, venga perlomeno preso per quello che è, un buonissimo disco di folk che sa essere a volte leggero, a volte impegnato, ma sicuramente non vacuo. Schultz e Fraites proseguono il loro discorso noncuranti degli antichi clamori, scrivono da soli 11 canzoni che suonano fresche e riuscite fin dal primo ascolto, e racchiudono tutto in 32 minuti che impediscono sbadigli e vanno dritti al punto. “Musica senza fronzoli“ si scriveva spesso un tempo quando le super produzioni spesso rappresentavano un problema, mentre qui i due fanno tutto da soli, con qualche intervento esterno sporadico (la viola di Megan Gould ad esempio), e sotto la guida del team produttivo formato da David Baron e l’ex Felice Brothers Simone Felice.

Il titolo del primo brano d’altronde la dice lunga, Same Old Song, e i due infatti sanno benissimo di non avere eventi sensazionali da offrire, ma rifugi sicuri di belle canzoni come la title-track o Plasticine, con toni soffici persino quando si cerca il testo tagliente (Asshole), e generalmente un mood che me li fa quasi avvicinare alla West Coast più suadente di Loggins & Messina o Seals and Crofts, nomi che certamente i due avranno imparato ad apprezzare. Automatic è un disco diretto, che solo nella finale So Long (unico brano sopra i 4 minuti) si prende anche il tempo per riflettere. Il folk dei Lumineers è lo stesso dei loro esordi, la notizia è che ora hanno smesso di cercare una nuova hit e semplicemente fanno quello che sanno ben fare.

VOTO 7

Nicola Gervasini

giovedì 12 giugno 2025

LUTHER RUSSELL

 

Luther Russell

Happiness For Beginners

2025, Curation Records

File Under: In the Jingle Jangle Morning

Per la serie “chi se li ricorda?”, Luther Russell fu cantante dei Freewheelers, band che negli anni ’90 partecipò al momento d’oro di tutta una scena di band americane che riscoprivano i suoni della tradizione, spesso appartenenti alla scuderia dell’American Recordings. Il loro secondo album si chiamava Waitin' for George, in riferimento al guru della label George Drakoulias, che produsse quel mix di suono sospeso tra i Traffic e Joe Cocker, un disco che credo che molti nostri lettori avranno comprato ai tempi. L’album però fu uno dei pochi flop commerciali della label, spingendo la band a sciogliersi. Da allora Russell ha portato avanti una carriera solista un po’ oscura, concedendosi anche qualche ruolo da produttore (ad esempio in Lost Son, ma anche in Winnemucca, dei Richmond Fontaine di Willy Vlautin), prima di approdare al settimo album con questo Happiness For Beginners. Il disco è figlio indiretto di un'altra sua importante avventura, i 3 album pubblicati dal 2016 ad oggi dei Those Pretty Wrongs, duo che aveva formato nientemeno con Jody Stephens, storico batterista dei Big Star, esperienza che già aveva portato il suo suono ad abbracciare altri lidi classici in ara country-rock/Byrds.

Il nuovo album di fatto nasce con una costante decisa, e cioè “Rickenbacker 12 corde ovunque”, in un gioco a cercare la perfetta jingle-jangle song certo non nuovo (chiedete a Sid Griffin dei Long Ryders come si fa a costruire gran parte di una carriera sul concetto), ma sempre ben accolto nei nostri lidi. Se avete però in mente i due dischi dei Freewheelers farete bene a dimenticarli, e non tanto per il diverso suono di rifermento, ma quanto perché Russell ha smesso completamente di cercare i toni rochi e “cockeriani” di un tempo, e ora canta con una voce più pulita, che addirittura rende brani come la tilte-track più vicino ai Buffalo Tom di Bill Janovitz, rendendosi quasi irriconoscibile rispetto al passato. Per il resto Happiness For Beginners è un piacevolissimo bigino del McGuinn-pensiero, che azzecca non pochi brani potentissimi da suonare in macchina come Downtown Girls e All The Ways.

Il gioco, a cui partecipano tra gli altri la fedele collaboratrice Sarabeth Tucek e Jason Falkner (vecchia conoscenza della scena anni americana di un tempo anche lui, con Jellyfish e Three O’Clock), è tutto qui, i dieci brani seguono la linea tracciata con qualche accelerazione (Sing A Song entra quasi in area Dinosaur Jr.) e qualche rallentamento (la lenta And Ever), con brani che si segnalano anche per buona scrittura (Your Reckless Heart) e altri magari più prevedibili (Right Way). Una bella sorpresa che non scrive nulla di nuovo ma rinnova l’idea che probabilmente senza i Byrds oggi noi saremmo qui a discorrere di ben altra musica.

 

Nicola Gervasini

lunedì 9 giugno 2025

Mark Pritchard e Thom Yorke

 

Mark Pritchard e Thom Yorke - Tall Tales

2025 – Warp Records

 

Pareva quasi solo un esperimento estemporaneo KId A dei Radiohead, uscito ormai 25 anni fa, eppure da allora il leader della band Thom Yorke non è più tornato indietro nel considerare l’elettronica, e non il sound guitar-oriented dei loro anni ’90, il fulcro sonoro delle sue creazioni. Trasformazione ancora più evidente nella sua ormai corposa carriera fuori dal gruppo, sia col side-project degli Smile, sia nei suoi album solisti, spesso legati a soundtracks per pellicole (quella per Suspiria del nostro Guadagnino resta la più famosa), oppure frutto di collaborazioni a due mani o di gruppo (penso al disco degli Atoms for Peace ad esempio). All’ultima categoria appartiene anche questo Tall Tales, lungo viaggio sonoro concepito col guru dell’ elettronica Mark Pritchard, artista che prima del 2013 ha pubblicato e prodotto molto materiale sotto svariati nickname (Global Communication è forse il più noto tra i tanti), prima di decidere di presentarsi sempre o comunque col suo vero nome.

 

Il disco è seguito anche da un film d’animazione creato da Jonathan Zawad, a testimonianza di una continua visione multimediale dell’artista, ma il progetto stavolta non nasce come soundtrack, ma come il risultato di un lungo scambio di idee e demo he i due hanno tenuto vivo nel corso degli ultimi quattro anni. Ci sono momenti strumentali (soprattutto in apertura e chiusura del disco), ma nel complesso Yorke torna qui a pensare la sua produzione in termini di canzoni, lavorando anche molto sulla sua vocalità e le sue possibili estensioni e interazioni con gli effetti elettronici. Ne nasce un album molto unitario nel suo mood ipnotico e decisamente oscuro (ma non direi depresso per una volta), in cui compaiono anche episodi quasi synth-pop come Gangsters o This Conversation is Missing Your Voice, o brani comunque in linea con il mondo Radiohead (The Spirit), fino a episodi più ipnotici come l’ecologista The White Cliffs.

 

Una buona scelta quella del duo di giocare non solo carte d’atmosfera come la title-track, ma anche episodi che potrebbero persino essere più radiofonici, come il ritmo quasi balcanico di Happy Days, o indiretti omaggi al rock classico, come l’incedere alla Velvet Underground di The Men Who Dance In Stags’ Heads. Disco costruito a distanza (i due non si sono quasi mai incontrati per registrarlo), Tell Tales pare un lavoro compiuto, che non ha più l’aria del progetto sperimentale, ma di una proposta ben definita, e che fa fare un ulteriore passo avanti alla ricerca musicale di Yorke. Mark Pritchard, che con Yorke aveva comunque già collaborato, dal canto suo conferma di essere un punto di riferimento del genere, con l’intelligenza di mettere la sua strumentazione e la sua perizia tecnologica al servizio delle canzoni, in cui compaiono non pochi contributi di altri suoni, come ad esempio il trombone che appare nel singolo Back in the Game.

VOTO: 7

NICOLA GERVASINI

venerdì 30 maggio 2025

BEIRUT

 

Beirut – A study of Losses

2024 Pompeii Recording Co & Beirut

Nel gran marasma di uscite discografiche moderne si finisce spesso ad essere incuriositi dal nome nuovo, e magari si danno inavvertitamente per scontati artisti ormai consolidati. E così Hadsel, il disco del 2023 di Zach Condon, alias Beirut, è stato secondo me ingiustamente ignorato da tante classifiche di fine anno, più per abbondanza di proposte, che per reali demeriti di un album nato nella vita solitaria della Norvegia.

Magari troverà più eco questo suo nuovo sforzo altrettanto interessante, A Study Of Losses, che più che nuovo album potremmo considerare un side-project sperimentale nato su commissione. L’occasione gli è stata data da un trio di acrobati e ballerini svedesi, I Kompani Giraff, che gli hanno chiesto di musicare una loro performance dallo stesso titolo, basando i testi sul bestseller dell’autrice tedesca Judith Schalansky Verzeichnis Einiger Verluste (tradotto in inglese come An Inventory of Losses, da cui l’edizione italiana Inventario di Alcune Cose Perdute edito da Nottetempo nel 2020). Il libro è una raccolta di dodici racconti, ognuno dedicato a qualcosa che si è ormai irrimediabilmente perso, sia esso un animale ormai estinto, o un’ isola sommersa dall’oceano (Tuanaki Atoll), fino ai versi perduti delle poesie di Saffo (Sappho’s Poems).

Registrato tra la Germania e la Norvegia, A Study Of Losses tiene fede al proprio titolo offrendo 18 bozzetti di sperimentazione di suoni tra elettronica, chitarre acustiche e archi, che probabilmente andrebbe gustata in parallelo alle performance circensi del trio di acrobati, ma che vive benissimo anche come opera a sé stante. Già Forest Encyclopedia mostra subito tutte le note e ben apprezzate doti vocali e melodiche del padrone di casa, anche se il disco alterna strumentali e brani cantati, e tra i secondi si mettono in evidenza Villa Sacchetti con la sua melodia quasi medioevale, dedicata alla villa romana progettata da Pietro da Cortona per i marchesi Sacchetti, ormai distrutta e ridotta ad un ammasso di ruderi lasciati all’incuria, ma immortalata dallo splendido dipinto di Gaspar van Wittel.

Con la quasi samba elettronica di Garbo's Face si passa a piangere la star scomparsa, che si era ritirata dalle scene per non mostrarsi invecchiata (“I know your hair goes grey, I see the color fade ,I see the time around your eyes” canta Beirut). Il clima generale è ovviamente malinconico e nebbioso, anche se Guericke's Unicorn si avventura in un synth-pop abbastanza scanzonato per ricordare l’Unicorno di Magdeburgo, animale di cui abbiamo solo un improbabile fossile, e la cui effettiva esistenza non è mai stata verificata o certificata, storia sicuramente più fantasiosa di quella cantata in The Caspian Tiger su una tigre effettivamente esistita. A parte gli archi e qualche intervento di basso e batteria, Beirut suona tutto in solitaria, aiutandosi con vari tipi di chitarre e tastiere, e con sovraregistrazioni vocali per ottenere anche effetti corali suggestivi come quelli di Ghost Train, o brani più ritmati come Mani’s 10 Books, dedicato al solo favoleggiato decimo libro del profeta fondatore del manicheismo, mentre Moon Voyager addirittura termina con una sezione fiati mariachi, pezzo che anticipa la chiusura con due brani dedicati ai mari lunari Mare Nectaris e Mare Tranquillitatis. Sforzo artistico notevole quello di Beirut, per un risultato magari non per tutti i palati, ma in ogni caso encomiabile.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

lunedì 7 aprile 2025

Elli de Mon

 

Elli de Mon

Raise

(2025, Rivertale Production)

File Under: Saints & Sinners

L’idea di canzoni che utilizzino un dialetto (se non proprio una vera lingua) regionale, anche su sonorità non per forza di musica tradizionali, è ormai vecchia, e l’elenco di nobili esempi, da Creuza de Ma in giù, è vasto. Anche il mondo del blues non si è fatto attendere nello sperimentarne l’effetto (singolare, ad esempio che l’unico disco interamente in napoletano registrato da Edoardo Bennato, con l’alias di Joe Sarnataro, fosse proprio in chiave chicago-blues), ma nel caso di Elli De Mon i distinguo sono parecchi.

Lei la conosciamo già da molti anni su queste pagine, sia come solitaria one-woman-band dedita ad un blues spigoloso e luciferino, sia, con il suo vero nome (Elisa de Munari), come autrice di libri, e rinnovo l’invito a leggere il suo interessantissimo Countin The Blues sulle blues-singer storiche. Doppia vita artistica che qui si riunisce in un album intitolato Raise (“radici” in vicentino), a cui fa eco anche un libro dallo stesso titolo realizzato con le illustrazioni di Luca Peverelli. Ma per l’album, stavolta, non solo ci troviamo davanti ad una proposta che esce ancor più del solito dai confini del blues usato nella sua abituale versione anglofona, ma qui Elli De Mon si inventa un suono che sa di Delta come anche di Laguna, anche se più precisamente il dialetto utilizzato è quello vicentino e non veneziano.

Anzi, l’album è una sorta di concept che scava nelle sue radici del paese di origine, Santorso, tra santi veri e miti pagani che costellano la storia di Orso (da non confondere con il più noto Sant’Orso della Val d’Aosta), un nobile del medioevo che, dopo aver ucciso la famiglia, fu condannato ad intraprendere un lungo cammino in cerca di una identità. Un simbolico percorso umano che è di ispirazione per una serie di canzoni che vanno davvero oltre il concetto di blues, invadendo il campo del mondo del dark-folk come anche di un roccioso stoner-rock alla Kyuss in alcuni casi, e creando così un genere tutto suo, a cui il dialetto si adatta persino meglio dell’italiano.

Le origini famigliari di Raise, la presentazione del personaggio principale di Orso e di Sinner (dove riaffiora un refrain in inglese), il viaggio che lo ha portato alla santità di Sumàn (il monte Summano sovrasta il paese di Santorso) sono tutti i primi tasselli della leggenda, che poi si fa quadro di vita di provincia in El Me Moro, dove su un ipnotico ritmo sospeso a metà tra The End dei Doors e All Tomorrows Parties dei Velvet Underground da  rientriamo nell’ambito del focolare domestico con una moglie che deve sopportare le angherie del marito che tona a casa ubriaco. La presa di coscienza di poter risorgere a nuova vita arriva in Babastrii (Pippistrelli), simboleggiata dall’acqua purificatrice di Giose (Gocce), e si finisce così con la rinascita (Sarò Tera) e la ninna nanna finale di Nana Bobò.

Elli suona tutto, aiutata da Marco Degli Esposti e Francesco Sicchieri alle chitarre e percussioni, e lasciandosi influenzare da suoni che uniscono rock anni 90, blues, temi orientali tradizionali veneti, e componendo un puzzle davvero originale, nonché un album che meriterebbe davvero di portarla davanti a platee anche più ampie.

 

Nicola Gervasini

 

martedì 1 aprile 2025

Bob Mosley

 

Bob Mosley

Bob Mosley

(Waner Bros/Reprise 1972/2024)

File Under: Soul Frisco

 

E’ il 1972, il country-rock sta esplodendo come genere buono per le radio FM anche al di fuori dei soliti circoli radiofonici di Nashville, e da qualche tempo è partita la corsa a seguire le orme tracciate a suo tempo dai successi commerciali di Sweetheart of the Rodeo dei Byrds o lo stesso Nashville Skyline di Bob Dylan, e non ultimi i Poco e i Flying Burrito Brothers. In questa eccitazione discografica, e in attesa che gli Eagles dimostrassero che il genere poteva persino avere vendite mostruose a livello mondiale, i californiani Moby Grape fallirono l’appuntamento col successo persino quando nel 1971 il loro ultimo album - un 20 Granite Creek sicuramente influenzato dal country-sound imperante - si rivelò un piccolo flop.

Ma il seme era tracciato, il rock psichedelico figlio di mille influenze dei loro dischi storici degli anni 60 si era adattato ai tempi, ma non con la dovuta furbizia commerciale evidentemente, e soprattutto poi nessuno dei componenti della band di San Francisco aveva più voglia di investire nel gruppo. Il cantante e bassista Bob Mosley esordì infatti subito con un disco omonimo che però seguiva la via di un soul-country (ci sono i Memphis Horns, ma c’è anche la pedal steel di Ed Black per capirci) decisamente avanti coi tempi, forse troppo, visto che a parte forse Thanks, mancavano le suadenti ballate country-rock che piacevano tanto agli ascoltatori in quel periodo. Il disco andò male e finì col tempo nella lista dei cult-record più ricercati dagli appassionati. E soprattutto, per Mosley, non ci fu una seconda chance per lungo tempo, complice anche pesanti problemi di schizofrenia che lo portarono sul lastrico.

Ma qui oggi arriva l’uomo della provvidenza che non ti aspetti, quel John DeNicola che immaginiamo economicamente bello tranquillo per aver scritto e prodotto la soundtrack di Dirty Dancing (una delle più vendute della storia) e scoperto i Maroon 5 tra le altre cose, insospettabile fan del disco che ha infatti deciso di rimixare e riprodurre. Da buon marpione del mainstream DeNicola nota che il disco aveva un potenziale enorme ma che l’ingegnere del suono aveva tenuto troppo bassa e poco evidente la sezione ritmica, rendendo così anche brani energici come The Joker o la riproposizione di Gypsy Wedding dei Moby Grape non adatte ad un airplay radiofonico.

Normalmente c’è sempre da storcere il naso per questo tipo di operazioni, personalmente penso che la storia, per quanto triste e sbagliata sia, non vada mai ritoccata, ma è indubbio che a confronto con l’unica versione CD mai pubblicata nel 2005 dalla Wounded Bird Records e con i vinili originali (mai ristampati dal 1972 a oggi), le differenze di pulizia e brillantezza di suono sono evidenti. Il disco così non è solo bello, ma suona anche benissimo anche senza essere degli accesi audiofili, la batteria è in primo piano come promesso, anche se forse ora le chitarre vanno un poco troppo sopra la sezione fiati in alcuni casi come Let The Music Play, ma l’intenzione di DeNicola era proprio esaltare il piglio rock. Per questo mi sento di perdonare il tipo di scelte prese nel remastering e consigliare questa nuova versione anche come primo ascolto. Tra l’altro DeNicola ha deciso di includere nei proventi della ristampa (immagino non faraonici, ma è il gesto che conta) anche lo stesso Mosley, oggi 81enne, anche se in verità aveva perso i diritti sull’opera da tempo. A voi l’occasione di scoprire grandi gemme perdute come il maestoso finale di So Many Troubles o Squaw Valley Nils

 

Nicola Gervasini

lunedì 24 marzo 2025

Benjamin Booker

 

Benjamin Booker  -  LOWER

2025 - Fire Next Time Records

 

Siamo un po’ sommersi e bombardati da una quantità spropositata di album e nuovi artisti da mettere alla prova, che alla fine si rischia di dimenticarsi un poco di quelli che già qualcosa lo avevano dimostrato. E’ il caso di Benjamin Booker, uno che con i due primi album (l’omonimo del 2014 e Witness del 2017) aveva portato una ventata di freschezza nella black music, con un suo personale mix di blues, rock e atteggiamento indie che aveva destato interesse e la sponsorship di Jack White. Anche dal vivo Booker fu di scena in parecchi festival in quegli anni, rubando spesso la scena a nomi più blasonati. Sono passati 8 anni e di lui quasi ci si stava dimenticando, ma questo LOWER (scritto tutto maiuscolo come anche i titoli delle canzoni) ha tutta l’aria di essere uno di quei lunghi parti artistici che lascerà più il segno.

La mossa a sorpresa è quella di affidarsi al produttore Kenny Segal, guru del mondo hip-hop che ha portato in dote un approccio completamente diverso, non so se definirlo moderno visto che poi il risultato, per quanto sperimentale, non è affatto nuovo. L’iniziale BLACK OPPS rende subito chiaro il concetto, con il suo riff hard-blues sommerso da voci filtrate e tastiere, o nell’ipnosi elettronica subito successiva di LWA IN THE TRAILER PARK. La tendenza è fare un gran mix di tante ispirazioni, persino quelle più “rootsy” che animano le chitarre di POMPEII STATUES, mentre SLOW DANCE IN A GAY BAR tiene fede al titolo con un suadentissimo dream-pop da struscio sulla pista della discoteca.

Ma la caratteristica da non dimenticare è anche quella dei testi fortemente polemici su società e politica americana, con lo zenith raggiunto in REBECCA LATIMER FELTON TAKES A BBC, brano decisamente sperimentale che sbertuccia una nota avvocata suprematista e nemica dichiarata della black-community, e se non capite il senso del titolo, provate a inserirlo nella ricerca di una qualsiasi sito pornografico e vi sarà tutta chiara l’ironia.

Il disco intrattiene bene, anche se poi a lungo andare, svelate le nuove carte, il gioco si fa più ripetitivo, ma si fanno ancora notare la quasi jazzy SAME KIND OF LONELY con il suo suggestivo video e i tanti samples usati per la base, e la finale HOPE FOR THE NIGHT TIME, mentre SHOW AND TELL si segnala come l’unico brano in continuità col suo passato anche nella produzione più acustica e tradizionale.

Quello che però piace del disco è che le atmosfere apparentemente glaciali create da Segal ben si sposano con i toni per nulla accomodanti di uno dei dischi più feroci dal punto di vista della lotta e orgoglio razziale che si sia sentito negli ultimi anni, con semplici slogan di rabbia e rivolta (SPEAKING WITH THE DEAD) che riportano ad un clima degno dei più riottosi anni 60. Un buon segno in un’era in cui da più parti si sottolinea quanto la musica abbia perso ornai totalmente la propria forza rivoluzionaria e la propria influenza sulla società. Non che il disco di Booker possa cambiare qualcosa dei tempi bui in cui è stato concepito, ma probabilmente il tentativo di fare un nuovo There’s a Riot Going On di Sly & the Family Stone per club, ad uso e consumo dei disc jockey, è perlomeno encomiabile.

NICOLA GERVASINI

VOTO: 7,5

mercoledì 19 marzo 2025

Lilly Hiatt

 

Lilly Hiatt

Forever

(New West, 2025)

File Under: My House is Very Beautiful at Night

L’anno scorso ha compiuto 40 anni Lilly Hiatt, e, in puro stile no-look/no-make-up alla Lucinda Williams, non fa nulla per nasconderli anche nelle foto incluse nel nuovo album Forever, il sesto di inediti di una carriera iniziata discograficamente nel 2012. Il padre John si è sempre tenuto un po’ disparte nei suoi dischi, quasi a non voler sembrare ingombrante, ma è evidente che l’evoluzione artistica della figlia la stia portando sempre più sui suoi territori. Significativo poi che la sua voce faccia capolino in un amorevole e paterno messaggio vocale al telefono posto nel finale della conclusiva Thought, un brano sui bei tempi andati della High School.

D’altronde Forever è un disco sull’essere famiglia, quella che lei, dopo anni di difficile recupero dall’alcolismo, è riuscita costruire con il marito (e qui produttore e chitarrista) Coley Hinson, che ha allestito uno studio casalingo per registrare 29 minuti di belle canzoni che parlano d’amore (Forever), di uomini a cui appoggiarsi (Man) e in generale di una nuova dimensione casalinga (la bella e suadente Evelyn’s House).

E’ un disco sul recupero di una sfera personale, e sul combattere e vincere i propri fantasmi personali (Ghost Ship), molti solo evocati o accennati ma segreti, altri più noti (la madre di Lilly si è suicidata quando lei aveva solo un anno, e già nel buon album Walking Proof del 2000 aveva raccontato delle sue dipendenze). Per questo il tono, sebbene raccontato tramite un sound di country molto elettrico (nella title-track vengono in mente le chitarre in libertà spesso usate da papà John), è abbastanza rilassata e risolta, e già Hidden Day in apertura avverte sul fatto che in questo caso andrà in onda un racconto diverso da quello a cui ci aveva abituati.

Ci sarebbe quasi da pensare un giorno ad uno speciale sui dischi che raccontano l’approdo in un porto sicuro e tranquillo da parte degli artisti dalla vita più disordinata (penso ad esempio al Lou Reed di My House in The Blue Mask), quasi un sottogenere narrativo che spesso viene avvertito come poco intrigante dal pubblico.  “Chi guarderebbe un film come questo dopo uno spettacolo rock n roll?” canta non a caso Lilly in Kwik-E-Mart quasi interrogandosi sul “who cares’” del suo uomo e della sua vita coniugale. Domanda lecita a cui rispondiamo “a noi”, che amiamo comunque le belle canzoni finemente scritte e ben suonate, anche da una artista che forse non ha poi fatto il grande salto di crescita di personalità che possa portarla in prima fila nel vasto mondo della canzone americana, ma che da qualche anno ha trovato perlomeno un suo filone narrativo e espressivo che merita attenzione.

Nicola Gervasini

AJ CROCE

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