domenica 8 dicembre 2024

THE THE

 

The The
Ensoulment
[Earmusic 2024]

 Sulla rete: thethe.com

 File Under: this is the night


di Nicola Gervasini (21/09/2024)

Quasi 25 anni per un nuovo album di inediti sono tanti, e visto che Matt Johnson, in arte The The, non ha mai dichiarato nessun ritiro dalle scene (ogni tanto si faceva vivo con alcune colonne sonore, ufficialmente quattro in totale tra il 2010 e il 2020, ma andrebbero considerate le tante soundtracks non pubblicate usate per molti corti indipendenti), è lecito chiedersi come passasse le sue giornate se non pensando ad un ritorno alla grande. La ferita artistica di un album che non era piaciuto quasi a nessuno (NakedSelf) deve essere stata forte, anche se poi alcuni brani di quel disco sono stati recuperati e valorizzati nel live del 2021, che significativamente si intitolava The Comeback Special (citando Elvis Presley), facendo già presagire che i tempi erano forse maturi per un nuovo vero album.

Ensoulment, diciamolo subito, è quanto di meglio si potesse sperare da un artista che poteva anche essersi arrugginito col tempo. Invece la penna qui è felice, anzi, felicissima, in quello che è forse il disco più verboso della sua carriera, con lunghi titoli (un pezzo che si chiama Some Days I Drink My Coffee By The Grave Oh William Blake vince già dal titolo), e una serie di riflessioni sulla vita e sulla modernità di un uomo che evidentemente non ha mai smesso di osservare il mondo.

Il titolo d’altronde lascia intendere ad una sorta di rinascita, essendo “ensoulment” il termine (filosofico e religioso ovviamente) che definisce il momento in cui il nostro corpo si dota di un’anima alla nascita. Johnson spazia quindi su temi universali di etica, politica e anche personali (Cognitive Dissident è un omaggio allo scomparso fratello Andrew). Dove invece spazia decisamente meno è sotto il profilo musicale, visto che Ensoulment fa piazza pulita di tutta l’elettronica e le stramberie pop dei suoi album storici, per trincerarsi in uno smooth-pop a tinte notturne e soffuse da vero reduce degli anni ‘80. Il punto di (ri)partenza è dunque Dusk del 1992, anzi, più precisamente il brano This Is The Night, il cui mood jazzy viene qui sviluppato e riproposto più o meno per tutto il disco (sentite l’inizio davvero simile di Down By The Frozen River, brano che pare davvero una outtake di Dusk), con qualche classico giro blues in aggiunta

Il che fa di Ensoulment un album elegante e musicalmente maturo, anche se forse possiamo lamentare la mancanza sia di quel pizzico di follia che lo rendeva un degno rivale/sodale di gente come Julian Cope o Robyn Hitchcock nel disegnare mondi sonori del tutto personali, sia probabilmente il contraltare di una personalità musicale forte come era il Johnny Marr che imperversava in dischi come Mind Bomb e il citato Dusk. In ogni caso il lavoro del produttore Warne Livesey è di grandissimo livello, con suoni davvero splendidi, e la voce di Matt ha acquisito ancora più profondità, rendendo brani come Zen & The Art of DatingRisin’ Above The Need o Life After Life dei nuovi classici della sua carriera. Bentornato.

giovedì 5 dicembre 2024

Mercury Rev

 Più che una band, i Mercury Rev li considero quasi una istituzione di quel mondo alternativo anni ‘90 che per qualche momento ebbe anche la fortuna di assaporare un minimo successo (Deserter’s Song  del 1998 andò in classifica in USA e UK, in anni in cui andare in classifica significava davvero ancora qualcosa). Diventati negli anni 2000 una cult-band di quelle che mettono d’accordo tutti i critici e il pubblico più esigente, la creatura musicale di Jonathan Donahue e Sean “Grasshopper” Mackowiak (unici due membri fissi fin dall’esordio del 1991) fa ormai capolino con cadenze lente ma sempre ben studiate nel mondo musicale.

Born Horses (Bella Union) è il loro decimo album, ma anche il primo di originali dal 2015 ad oggi, sebbene l’intervallo con il cover-record dedicato alla stellina del country Bobbie Gentry (Bobbie Gentry’s The Delta Sweete Revisited) abbia rappresentato davvero uno splendido diversivo nella loro produzione, ben lontano dal manierismo della maggior parte dei tribute-record dei nostri anni.

Ci sono novità

Quello che però appare evidente con Born Horses  è che Donahue stavolta ha voluto ragionare non come un autore solitario, bensì come una vera propria band, incamerando in formazione dei nuovi membri (Jesse Chandler al piano e Marion Genser alle tastiere), ma, soprattutto, sviluppando un concept che unisce reminiscenze jazz e amore per la poesia e gli speaking d’autore, con in più quel marchio di fabbrica fatto di dream-pop suadente e notturno, che sa essere oscuro ma rassicurante al tempo stesso. Insomma Born Horses è un viaggio sonoro e lirico impegnativo ma appagante, con una prima parte quasi completamente lasciata allo spoken profondo di Donahue, ma, musicalmente molto più ricco di quello che può apparire ad un primo ascolto.

In qualche modo brani come Mood Swings o Patterns mi hanno quasi ricordato il lavoro degli Spain di Josh Haden, ma gli elementi jazzy potrebbero anche accompagnarsi alla recente uscita dei The The alias Matt Johnson, per dire quanto in fondo il disco è tutt’altro che fuori dal tempo.

Born Horses conferma i Mercury Rev come una band con ancora qualcosa da dire

Ma al di là delle sorprese negli arrangiamenti (con tanto di sax quasi anni 80), il disco mostra un autore ancora in grado di fare scuola, soprattutto nello straordinario finale di Everything I Thought I Had Lost e There’s Always Been A Bird In Me, brani scritti con il cuore in mano. Pur se in alcuni momenti si adagia forse troppo nei toni onirici ed evocativi (Ancient Love), la band è ancora capace di non perdere di vista la canzone e la sua melodia, come capita ad esempio in Your Hammer, My Heart. Un buon ritorno insomma, ancora presto forse dire quanto pesante nell’ambito della loro discografia, ma sicuramente una dichiarazione di salute artistica che li conferma una delle realtà indipendenti più importanti dei nostri anni.


martedì 26 novembre 2024

Steve Wynn

 

Steve Wynn
Make It Right
[Fire Records/ Goodfellas 2024]

 Sulla rete: stevewynn.net

 File Under: true stories


di Nicola Gervasini (02/09/2024)

Sembrava ormai essere stata messa in soffitta la carriera solista di Steve Wynn, ferma al 2010 e a quel Northern Aggression che non aveva poi scatenato troppe reazioni entusiaste. Poi la riuscitissima ripartenza dei Dream Syndicate e la constatazione che persino i dischi dei Baseball Project vendono meglio di quelli a suo nome, lo ha spinto a ritornare a una dimensione da band-leader, con esiti creativi più che incoraggianti. Per questo Make It Right arriva un po’ a sorpresa, ma la ragione di un ritorno al sentiero solitario è la contestuale pubblicazione di una autobiografia (I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True), in cui Steve si lascia andare a storie e aneddoti di una carriera ormai più che quarantennale.

E le canzoni di Make It Right sono nate proprio durante la stesura del libro, quasi che ogni tanto un ricordo abbia scatenato anche la voglia di scriverci il testo di una canzone. E sebbene esca a suo nome, è anche una occasione di riunire in studio parecchi amici e collaboratori storici come Stephen McCarthy, Scott McCaughey, Vicki Peterson delle Bangles, Jason Victor, Mike Mills dei R.E.M., fino a Chris Schlarb (Psychic Temple) e Emil Nikolaisen (Serena Maneesh), oltre all’immancabile compagna di vita Linda Pitmon. A produrre il tutto nessun nome giovane o alla moda, ma bensì il vecchio Eric “Roscoe” Ambel (fu chitarrista dei Del Lords), uno che in studio è ancora in grado di ricreare quel suono da rock carbonaro degli anni 80 senza apparire pateticamente stanco e sorpassato.

Non si tratta di passatismo spinto, quanto più della constatazione che alla fine il nome Steve Wynn è da sempre legato ad un suono ben preciso, fatto di chitarre acide, sporche, con i suoni dei garage delle band anni 60 nel motore, e una marca personale ormai riconoscibile in qualunque progetto abbia preso parte. Il disco andrebbe ascoltato quindi durante la lettura del libro (in UK e Usa è appena uscito, se volete invece leggerlo in italiano, la benemerita Jimenez ne ha già annunciato la pubblicazione per gennaio 2025), ma, anche senza, Make It Right riprende il suo discorso solista esattamente là dove lo aveva interrotto, ma con più varietà di elementi e stili.

Troviamo così steel-guitars a dare un tocco quasi country alla title-track o a You’re Halfway There, i fiati e cori che puntellano l’iniziale Santa Monica, i violini che addolciscono la ballata Madly, o ancora la tromba al sapore tex-mex di Cherry Avenue, tutto concorre a rendere più avvincente un album che conferma comunque lo stile-Wynn al 100%. Persino la drum-machine che affiora in What Were You Expecting, o una Then Again che lo riporta alle atmosfere intime e acustiche che furono di un album come Fluorescent non spostano di troppo la sensazione che Steve non abbia molto di nuovo da proporci, ma tantissimo ancora da raccontarci di una favola rock tra le più belle e artisticamente felici della musica americana.

Nel gran finale un po’ acido e lo-fi di Roosevelt Avenue c’è tutto quello spirito da musica da garage che permane intatto anche in un disco che rappresenta uno degli sforzi produttivi più studiati e attenti ai particolari della sua lunga carriera.

venerdì 15 novembre 2024

Nick Cave & The Bad Seeds

 

Nick Cave & The Bad Seeds
Wild God
[Pias/ Self 2024]

 Sulla rete: nickcave.com

 File Under: Slow train coming


di Nicola Gervasini (09/09/2024)

Quando vi dicono “ho una buona notizia e una cattiva” quale vorreste sapere per prima? Facciamo che decido io e per parlarvi di Wild God, un album di cui avrete ormai sentito parlare alla nausea (e magari avete già anche sentito l’album stesso, se siete sopravvissuti al tour de force di Ghosteen nel 2019), parto da una constatazione a posteriori decisamente positiva: Nick Cave ha ricominciato a scrivere canzoni. Che è un mestiere diverso dal riversare fiumi di parole in musica per raccontare la propria esperienza umana, mai così intensa nel bene e nel male come nei suoi ultimi quindici anni, ma è un difficile lavoro di costruzione e incastro di versi e melodie che il nostro pareva sempre più essersi dimenticato, o più semplicemente se ne era disinteressato.

E’ stato un processo di lento abbandono dell’aspetto musicale come elemento centrale nella sua arte, nato forse all’indomani dell’abbandono dei Bad Seeds da parte di Blixa Bargeld, che non era uno che pesava in termini di quantità, ma chi li ha visti in azione assieme sul palco si ricorderà di come Blixa sembrava essere di ispirazione a Nick anche solo con la sua presenza e il suo sguardo, quasi che lo controllasse dicendogli che “va bene fare canzoni verbosissime Nick, ma ricordarti che sei prima di tutto un musicista”. Ma soprattutto relegando sempre più i Bad Seeds non più a laboratorio di idee e talenti, bensì a semplice band di accompagnamento, in cui il solo Warren Ellis pare avere diritto di parola e può permettersi di rubare la scena al titolare, strabordando non poco con la sua presenza.

Wild God
 invece continua il percorso di racconto di viaggio umano personale di Cave, che ha smesso da tempo di inventarsi storie (come paiono lontane le Murder Ballads dal suo scrivere di oggi!), e pensa ormai solo a completare una lunga autobiografia spirituale. Qui siamo al momento della conversione, e stavolta perlomeno ce la racconta recuperando la voglia di scrivere anche melodie (Joy) e di riesumare magari la sua marca stilistica più amata (il giro di piano di Final Rescue Attempt per esempio), e tornando, se non ai tempi d’oro, perlomeno a quell’idea personale di soul dei tempi di Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus.

Ma c’è quella cattiva notizia: se il musicista è ritornato e gliene siamo grati, qualcosa ancora non gira del tutto a dovere. E non è tanto il discorso che non ha più l’ispirazione di un tempo, che tanto nessuno la pretenderebbe, quanto che il nostro pare avere un po’ le idee confuse su quale direzione prendere per affrontare la parte finale della sua carriera. E così Wild God si agita con arrangiamenti magniloquenti tra soluzioni varie, non certo sperimentali, se consideriamo che la scelta di buttarla sui gospel, con cori e controcanti da chiesa, per raccontare il suo stato spirituale, suona scontato al limite del banale (ma voi direte, pure Bob Dylan ci cascò, per cui…) e da lui forse ci aspetteremmo qualche provocazione in più, ma poi anche quando ritrova il suono dei Bad Seeds (soprattutto nella seconda parte del disco), al massimo vengono in mente i bozzetti minori di Nocturama, e non certo i classici.

Il problema è che se Nick Cave con questo album dimostra comunque di essere vivissimo (intendiamoci, la “faccetta gialla” è perché da lui pretendiamo di più, perché fosse un esordiente, saremmo al bacio accademico), molto meno lo dimostrano i suoi compagni di viaggio. E a questo punto mi chiedo se non sia il caso di abbandonare la sigla Bad Seeds al suo destino, perché ormai qui è tutto troppo personale e tutto troppo “suo” per poterlo condividere con partners non più in grado di aggiungere benzina ad un fuoco che resta comunque caldissimo.

venerdì 8 novembre 2024

CLAUDIO MILANO

 

I Sincopatici Ft. Claudio Milano – Decimo Cerchio

(Snowdonia, 2024)

NichelOdeon & borda – Quigyat

(Snowdonia, 2024)

Nemo, Milano, Clemente -  Frattura, Comparsa, Dissolvenza

(Autoprodotto, 2024)

 

Per presentare a chi non lo conoscesse il personaggio di Claudio Milano verrebbe la tentazione di fare mille premesse, distinguo e avvertenze, ma la tragedia per chi scrive di lui è che alla fine riuscire a cogliere tutto l’insieme delle sue esperienze e delle sue espressioni artistiche sta diventando sempre più impossibile. In più di vent’anni ha collezionato una lunga serie di pubblicazioni, spettacoli, progetti multimediali e collaborazioni tale che la lista diventerebbe illeggibile, ma è forse il modo di fotografare meglio la sua idea di arte come un continuo connubio di tradizione e sperimentazione. Non sorprende quindi che nel giro di pochi mesi di questo 2024 siano usciti ben 3 progetti in cui è coinvolto in prima persona, ma stavolta sembra che nei 3 album ci sia una sorta di filo conduttore in cui la voce, vista come strumento sia melodico che declamatorio e teatrale, è la protagonista principale.

 Lo è ad esempio nel progetto uscito a nome I Sincopatici Ft. Claudio Milano, una rilettura dell’Infermo Dantesco tra suoni spettrali e voci sofferte, nata in verità come esecuzione live per accompagnare la proiezione del film  L'Inferno" del 1911 (monumentale opera dei registi Francesco Bertolini, Giuseppe De Liguoro e Adolfo Padovan). Quella di offrire spettacoli con film muti accompagnati da una composizione scritta appositamente è una specialità chiamata Cineconcerto  dei Sincopatici, trio composto da Francesca Badalini (autrice delle musiche), Andrea Grumelli e Luca Casiraghi, che hanno invitato Milano a condire con i suoi viaggi vocali in svariate ottave il tutto. Risultato sicuramente suggestivo, con musiche pensate per 26 passi dell’opera con soluzioni molto interessanti tra elettronica e musica elettro-acustica, che ovviamente sarebbe stato bello godersi dal vivo (quella sul disco è la registrazione della performance tenutasi a Varese).

Il secondo progetto è invece uscito a nome NichelOdeon, che è uno dei nickname più usati da Milano, che condivide la paternità di Quigyat  con borda, alias di Teo Ravelli. Il disco riprende un recital tenutosi a Stradella nel 2023 (A.N.F.O.R.E. – A New Form Of European Recital), ma i due hanno poi lavorato di addizione anche in studio sfruttando il talento con l’elettronica di borda. 5 lunghi brani che sperimentano l’intreccio di suoni e voce scritti da Milano, eccezion fatta per una coraggiosa versione di  Los Pajaros Perdido di Astor Piazzolla, mentre la lunga title-track che apre il disco (con il sottotitolo di a Little Symphony For Frozen Soildiers, ma il titolo si riferisce alle aurore che per i popoli nordici sarebbero lo spirito dei bambini morti violentemente nel giorno del loro compleanno), scritta a due mani con Ravelli, vuole rappresentare gli orrori della guerra grazie ad una idea di resistenza culturale condotta attraverso la perfomance musicale e vocale. Disco sicuramente concettuale, ma con momenti musicali in cui la melodia, per quanto destrutturata alla maniera di Milano, torna a farsi evidente.

Il terzo e ultimo progetto è uscito in questo settembre 2024 ed è il più curioso. Il cd esce a nome di un trio di artisti, Claudio Milano ovviamente (comunque supportato ancora una volta da borda/Teo Ravelli, per l’occasione ribattezzati assieme RaMi), Alberto Nemo  e Niccolò “Whale” Clemente  , entrambi pianoforte e voce, tutti e tre impegnati a personificare con la loro esecuzione una riflessione sulla perdita della capacità dell’uomo moderno di trasmettere correttamente nel tempo il proprio sapere. Alberto Nemo  apre e chiude l’opera con Frattura con la sua voce tenorile e i suoi giri di pianoforte impersonificando “Il mistico”, mentre Clemente con vocalità baritonale si intromette in Comparsa come “uomo di scienza “. A MIlano è affidata la drammaturgia della parte più emotivamente forte della sceneggiatura (Dissolvenza, canto di violazione fisica che si risolve simbolicamente in un Pater Noster) , per un’opera in 4 tempi davvero affascinante, anche qui idealmente da gustarsi come perfomance teatrale. Le note di copertina ci dicono che la registrazione è avvenuta in un ormai scomparsa pompa di benzina di Prato che fu per un certo periodo trasformata in una galleria d’arte e luogo per piccoli spettacoli. Da notare anche il bel libretto che accompagna il CD,  che spiega molto meglio di quanto possa farlo una qualsiasi recensione il senso e il sentimento che muove queste esecuzioni che sfociano in una musica d’avanguardia che rappresenta un modo di espressione tutto sommato senza tempo e slegato da qualsiasi logica di rapporto di dipendenza musicista-spettatore.

In questi tre album c’è sempre un concetto alla base di tutto, e c’è una o più voci che lo esprimono con il dolore, il pathos e anche grande tecnica. Non chiedetevi che genere siano questi tre album, immergetevi ad occhi chiusi e ve lo sveleranno loro.

Nicola Gervasini

 

https://www.youtube.com/watch?v=grvZ5Icy6N8
https://www.youtube.com/watch?v=0sRkVkJ0GkU

 

https://claudiomilano.bandcamp.com/album/quigyat

venerdì 4 ottobre 2024

LOS CAMPESINOS!

 

Los Campesinos! – All Hell

2024, Heart Swells

Non mancava certo anche una dose di ironia nella scelta del nome dei Los Campesinos!, traducibile un po’ liberamente come ”i campagnoli”, visto che è questa un po’ la definizione che darebbe un qualsiasi londinese se gli chiedete cosa ne pensa degli abitanti del Galles. Loro vengono infatti da Cardiff, e nel 2008 il loro primo album Hold on Now, Youngster... pareva il preludio di una felice carriera da hit-makers. Sebbene la band abbia un seguito ormai consolidato nel corso di 15 anni circa di carriera, le cose non sono poi andate così, visto che gli album successivi non hanno incrementato le vendite, e fatto perdere un po’ di entusiasmo anche nella critica specializzata che li aveva promossi in partenza.

Alla band è sempre stata un po’ contestata la propria indole un po’ grezza e adolescenziale, sia nella produzione dei dischi, sempre molto più di pancia che di testa come approccio, sia nei testi, sempre ironici e irriverenti (basta anche solo leggere titoli degli album e delle canzoni), al limite della sboccata goliardia. All Hell è il loro settimo album, e arriva più di sette anni dopo Sick Scenes, che era stato accolto un po’ freddamente,  e porta importanti novità come l’autopromozione (dopo anni di contratto con la Wichita, il disco esce per la Heart Swells, fondata da loro stessi), ma soprattutto un cambio di marcia decisivo nella produzione, affidata all’arrangiatore Tom Bromley, che ha portato una decisa sgrossatura dei suoni a favore di un indie-pop più sofisticato del loro solito.

Ascoltate A Psychic Wound per credere, ma anche altri brani come Long Throes  e persino episodi più power-pop come To Hell in a Handjob risultano più studiati del solito. Non che la band abbia del tutto perso la naïveté per cui erano famosi, ma, dopo una lunga pausa, è chiaro l’intento di fare un passo più in là verso un pop più elaborato e adulto. Il risultato è incoraggiante, in patria già gridano al grande ritorno, e sicuramente All Hell segna una importante ripartenza di una band che necessitava una rinfrescata nella propria proposta, anche se ancora affiorano alcune sbavature, e i testi continuano a esprimere una sorta di filosofia dal basso, con metafore che coinvolgono sempre riferimenti ai video games, al calcio, all’alcoolismo, al wrestling e ovviamente al sesso, esattamente tutto quello di cui potrete discutere in un qualsiasi pub del Regno Unito sicuri di trovare veri esperti in materia.

Insomma, i Los Campesinos! continuano a parlare la lingua di un popolo non più giovanissimo e perso in una nuova idea di “No Future” (“A 37 anni senza figli e un lavoro sono un morto che cammina” cantano), e, soprattutto, di non appartenenza al mondo di oggi, con il continuo riferimento ad un “Loro “ lontano (il verso “Non comprano le birre che bevo/E non bevono le birre che compro” direi che esprime tutto), eppure musicalmente il disco si lega ad un sound più da brit-pop anni 90 in maniera convincente. Qualcuno potrebbe lamentarsi per la perdita di innocenza, ma All Hell è forse il disco che apre un futuro che non era troppo sicuro fino a qualche tempo fa .

 

Nicola Gervasini

VOTO: 7.5

lunedì 30 settembre 2024

SOUTHLANDS

 

Southlands
Still Play'n
[Appaloosa Records 2024]

 Sulla rete: facebook.com/SouthlandsRock

 File Under: no surrender


di Nicola Gervasini (26/08/2024)


Ci sono realtà della scena roots nostrana che durano ormai da parecchi anni, più o meno campandoci, o comunque inesorabili per pura passione. Facile citare i Mandolin' Brothers, che di decenni di attività ormai ne hanno più di quattro (e che qui presenziano come ospiti, non a caso), inevitabile ricordare i Cheap Wine, ma forse meno immediato è farsi venire in mente i Southlands, band che fin dal 2001 bazzica la suddetta scena, non cambiando mai di una virgola la propria proposta fatta di immaginario da heartland rock americano. L’occasione per fissarli bene in testa è sicuramente questo nuovo album Still Play’n, pubblicato dall’Appaloosa Records, un album che sicuramente li porta ad affiancarsi all’ormai consolidato buon livello raggiunto dai nomi che da anni vi proponiamo sulle nostre pagine.

La formazione dei Southlands ha avuto nel tempo qualche cambio di guardia, ma oggi si è ormai consolidata intorno alla chitarra di Roberto Semini e alla voce di Dario Savini, con Michele Romani e Riccardo Caldin nel motore ritmico, e la seconda chitarra di Fabrizio Sgorbini, anche se la vocalist Sara Cantatore può tranquillamente essere considerata un sesto membro aggiunto, vista la sua presenza determinante nell’album.

Dopo una breve intro con il brano Don’t Knock, il disco entra subito nel vivo con le chitarre in bella evidenza di It’s A Mess e By My Side, intervallate dalla prima ariosa ballad On The Border che da sola racchiude tutti gli elementi per una bella storia di fughe e fuorilegge da libro di Willy Vlautin. M
olto frizzante il duetto in puro rockabilly-sound con la Cantatore di Sweet ’49, che poi prende pieno possesso del microfono per un’altra bella ballata come The Way I FeelYou Are the Sun è un bel pezzo di pura Americana anni 90, cantato sempre a due voci, mentre la programmatica title-track racconta cosa spinge a continuare a battere le strade del rock degli attempati uomini di famiglia con figli e cani al seguito, probabilmente un piccolo inno alla normalizzazione dell’immaginario da rockstar nell’era dell’autoproduzione.

Con le sue 14 canzoni l’album va oltre la nuova moda di durate al limite dell’EP per venire incontro alle esigenze delle piattaforme streaming, perché qui si ragiona alla vecchia maniera, e ci si prende il tempo necessario a raccontare tutte le proprie storie. A voi scoprire poi le altre, come quella di Jim in Brilliant o la romantica Best Of You. Il gioco di voci e il tocco southern rock delle chitarre funzionano bene per tutto l’album, che si chiude con la corale Be My Countryside, a testimoniare quel senso di appartenenza ad una comunità che la nostra scena rock mantiene da tempo.

martedì 27 agosto 2024

BETH GIBBONS

 Il primo album solista di Beth Gibbons: Lives Outgrown.

Parla poco, ma quando parla fa parecchio rumore Beth Gibbons. Musa indiscussa della fiorente stagione del trip-hop degli anni 90, la Gibbons ha poi centellinato le uscite sia con la sua band (solo 3 album in studio più un eccezionale live con i Portishead), che da solista (un album a due mani con l’ex Talk Talk Rustin Man che è già entrato nel novero dei cult-record, e un esperimento sinfonico con tanto di orchestra). Insomma, a quasi 60 anni di età e con più di 35 anni di carriera, Lives Outgrown (Domino) è non solo il suo primo vero album solista, ma anche il suo quinto album di inediti in studio in carriera.


Suoni e atmosfere

Detta così fa impressione, ma la sua musica fa capire quanto la fretta e l’urgenza non siano esattamente la leva che la muove , quanto la ricerca di una musica che si adatti ad una sorta di spiritualità laica. La Gibbons ha avuto circa quindici anni per scrivere le canzoni, tutte di suo pugno con qualche sporadica correzione del batterista e produttore Lee Harris (anche lui ex Talk Talk). Non ci sono grandi sorprese in quello che la Gibbons ha elaborato, semplicemente ha cementato tutto il percorso di una vita in uno stile che riesce ad unire le lezioni di Sandy Denny e dei Cocteau Twins in un’unica soluzione. Dark-folk, chamber-folk, chiamatelo pure come volete, che tanto la sostanza è tutta sua. Pur avendo una voce che potrebbe richiamare almeno una decina di altre eteree vocalist della storia della nostra musica, il timbro di Beth appare subito inconfondibile, ma l’intelligenza di questo album è stata quella di non farsela bastare, chiedendo ad un produttore ben scafato come Jim Ford (Pet Shop Boys, Blur, Artic Monkeys) di dare qualche idea in più per dare vigore al tutto.


Beth Gibbons – Lives Outgrown: un disco importante

C’era il rischio molto alto di trovarci alle prese con un lungo trip lisergico, se non proprio soporifero, ma ci ritroviamo nello stereo un album dove i suoni e gli arrangiamenti rivelano ascolto dopo ascolto, con testi che parlano della propria vita di madre e di donna matura, quasi a rispondere con una sequenza da concept album alla domanda posta dal primo brano, Tell Me Who You Are Today.

Ma brani come Lost Changes o Rewind, con la loro per nulla semplice costruzione melodica, e le orchestrazioni degne del miglior Robert Kirby di Burden of Life e di altri brani, dimostrano che la Gibbons non ha sprecato il suo tempo perché il risultato giustifica il considerarla una di prima classe. Ma anche le chitarre e le percussioni giocano ogni volta una partita diversa in Oceans o in For Sale, fino al gran finale di Whispering Love. Con Lives Outgrown  Beth Gibbons pone una pietra importante nella sua parca ma sempre significativa produzione, e se anche dovremo aspettare altri quindici anni, ne varrà sicuramente la pena.


BLACK SNAKE MOAN

 

Black Snake Moan
Lost in Time
[Area Pirata 2024]

 Sulla rete: areapiratarec.bandcamp.com

 File Under: Lost in the desert


di Nicola Gervasini (24/05/2024)


Ogni volta che leggo il nome di Black Snake Moan non riesco a non pensare a un vecchio film dallo stesso titolo del 2006 del regista Craig Brewer (purtroppo successivamente colpevole del remake di Footloose e dell’inguardabile seguito de Il Principe Cerca Moglie), in cui una conturbante Christina Ricci cercava in un vecchio bluesman (un Samuel L. Jackson ispirato da Blind Lemon Jefferson) la salvezza dalla propria ninfomania, simbolicamente risolta nelle braccia della popstar Justin Timberlake. Non certo un film da cinefili, se non per le atmosfere che ben coglievano l’anima tormentata del blues di Jefferson, le stesse che mi vengono ispirate dalla musica di questo Lost In Time. Ed è proprio dalla canzone di Jefferson che prende anche il nome d’arte il musicista viterbese Marco Contestabile, che con questo nickname arriva a pubblicare il suo terzo album.

Lo attendevamo a questo appuntamento, dopo che lo scorso anno gli avevamo dedicato una intervista (a cura di Sara Fabrizi) utile a capire cosa spinge ancora un musicista nostrano ad abbracciare così fortemente una cultura lontana come quella americana. Lost In Time non delude affatto le attese, e anzi attesta la sua continua crescita musicale dopo i già interessanti Spiritual Awakening del 2017 e Phantasmagoria del 2019. Nove canzoni, trenta minuti scarsi, ma sufficienti a completare un viaggio lisergico che mi immagino, con buona dose di scontati luoghi comuni, come quello di un giovane hippie che sperimenta peyote in un deserto americano nel 1969.

Il titolo d’altronde dice già tutto, il suono creato da Blake Snake Moan ha perso ormai molto delle sue radici blues dei primi anni, quando si esibiva come one-man-band delle 12 battute, acquistando in sapori che uniscono melodie West Coast e sonorità da piena Summer of Love ‘67. Ancora una volta Contestabile fa tutto da solo, o quasi, giusto due interventi di tastiera di Gabriele Ripa in Come On Down Put Your Flowers e il pulsante basso e voce offerti da Roberto Dell'Era (Afterhours, The Winstons, Calibro35). Eppure dallo stereo esce un muro di chitarre e voci che pare di sentire impegnata una intera comune freak alla Incredible String Band, fin dalla breve Dirty Ground che introduce al viaggio, alle chitarre quasi da dark-era di Light The Incense all’organo psych-pop di Come On Down, o ancora alle mille ipnotiche percussioni che reggono Put Your Flowes o alle voci filtrate nella programmatica West Coast Song, qui tutto sa di antico, eppure fatto in casa con grande conoscenza della materia e capacità di trasformarla in canzoni più che convincenti.

Lo chiameremmo Desert Rock, anche se a Viterbo fortunatamente la siccità ancora non ne ha creato uno, ma d’altronde la musica serve a viaggiare con l’immaginazione, e quella di Black Snake Moan riesce particolarmente bene ad accompagnarci in questo “trip”.

JJ GREY & MOFRO

 

JJ Grey & Mofro

Olustee

(Alligator, 2024)

File Under: Swamp Music

 

Non sarebbe facile spiegare al pubblico italiano, anche quello più musicofilo, perché noi di Rootshighway abbiamo patito non poco per la lunga assenza discografica di JJ Grey & Mofro. Innanzitutto perché probabilmente dovremmo anche prima spiegare di chi diavolo stiamo parlando, perché sebbene il combo sia nato anche prima del 2000, ad oggi la sua popolarità è parecchio limitata agli ambiti della scena post-Jam-bands, categoria a cui subito furono associati fin dal primo album Blackwater (che ancora usciva con la semplice sigla Mofro). E dovremmo spiegare come mai se su quella scena abbiamo un po’ mollato il colpo anche noi in quanto ad attenzione, perché riteniamo abbia generalmente esaurito la propria carica creativa (sebbene in USA resti un fenomeno ancora più che vivo dal punto di vista dei riscontri di pubblico presente ai concerti), loro invece non hanno mai smesso di suscitare la nostra più piena ammirazione, se non proprio entusiasmo, E questo nonostante si portino nel DNA il difetto di fondo di molte jam-bands nate nei 90, e cioè una scarsa originalità nel fare un gran minestrone di generi e influenze. Non c’è infatti nulla di straordinariamente nuovo nel mix di southern–rock, soul e funky-music che hanno portato in alto nelle nostre classifiche dischi come Country Ghetto (2007) o This River (2013), sempre pubblicati per la storica etichetta di Chicago Alligator che li ha riaccolti in questa occasione, c’è però un suono splendido, positivamente condizionato dall’uso dei fiati, una voce adatta al genere, e un pugno di canzoni che, seppur non scevre di citazionismi e pesanti debiti col passato, suonano fresche e convincenti.

Dopo 9 anni di pausa da Ol Glory del 2015, Olustee (nome di un piccolo centro abitato dove nel 1864 venne combattuta una delle più sanguinarie e decisive battaglie della Guerra Civile Americana) paradossalmente sembra voler spiazzare con l’iniziale The Sea, maestosa soul-ballad immersa negli archi che paiono un ingrediente nuovo al loro menu, ma è solo un diversivo che significativamente verrà ripetuto col simile finale di Deeper Than Belief. Ma tra i due brani è festa di ritmi, suoni del sud, chitarre ancor più in evidenza del solito (da mettere in repeat la title-track per puro godimento d’udito), brani ancora più semplici e diretti persino negli ermetici titoli (Rooster, Wonderland, ecc..). Il cuore di Olustee è un disco che riparte esattamente da dove si erano fermati, con nuovi brani da mettere in una ideale compilation per un viaggio da “On the Road” (Seminole Wind, Top Of The World), e accorate soul-ballads col santino di Otis Redding nella tasca (On A Breeze, Starry Night, Waiting). Ma, soprattutto, con l’ennesimo rammarico di avere poche speranze di poter portare in Italia un gruppo così numeroso che non avrebbe senso ascoltare in forma ridotta, e oltretutto con scarse possibilità di conquistare tanti cuori tra i nostri conterranei che questa musica, siamo convinti a torto, la danno ormai per scontata. E’ proprio il caso di dirlo: bentornati.

 

Nicola Gervasini

mercoledì 14 agosto 2024

ANY OTHER

 

Any Other

Stillness, Stop: You Have a Right To Remember

(42 Records, 2024)

File Under: Stop & Think

Personaggio poliedrico e camaleontico come pochi altri quello di Any Other, nome d’arte che Adele Altro ha scelto per una sua interessantissima attività solista a lato di una intensissima carriera da turnista per altri artisti. Polistrumentista con gran attenzione alle svariate espressività degli strumenti in cui si cimenta (dalla chitarra al sax, passando per altri strumenti che la rendono una potenziale one-girl-band), Any Other si regala per i suoi 30 anni un terzo album che si attendeva non poco, dopo il coro di applausi riscosso ormai sei anni fa dal secondo Two, Geography. Il titolo Stillness, Stop: You Have a Right To Remember è dunque una sorta di esortazione a sé stessa a fare un primo punto della situazione della propria vita raggiunta una cifra tonda che ormai identifichiamo come il vero passaggio alla vita adulta. Per cui si mette ordine tra i ricordi e si lascia spazio a flashback mentali in queste sette canzoni, più uno strumentale (Indistinct Chatter) a chiudere. Non nascondiamo una certa delusione (anacronistica, ce ne rendiamo conto) non sulla qualità, che anzi spinge ancora più avanti la già alta asticella del suo predecessore, quanto sulla quantità, visto che il disco raggiunge a malapena la mezz’ora, ma lei stessa spiega che l’album arriva dopo anni di side-projects e impegni spesso per conto terzi, primo fra tutti quello che l’ha portata in tour con il duo Colapesce (qui presente nei cori di Second Thought) e Dimartino affrontando folle ben più ampie di quelle a cui si era abituata, ma rubandole non poche energie.

Per cui, sebbene la gestazione in sede di scrittura sia stata lunga, il disco è stato registrato e chiuso in breve tempo, assecondando una certa urgenza a scrivere una nuova pagina in questa sorta di suo diario di bordo personale che è diventata la sua carriera personale. Lo stile del disco è sempre più lanciato in un sound elettro-acustico con grande attenzione ai particolari, e se nella recensione che scrissi nel 2018 per Two. Geography già citavo Emma Tricca per pensare ad italiane anglofone che stavano crescendo di statura internazionale, qui la citerei pure come stile se ascoltate questo album di seguito al recente Asprin Sun di Emma, sebbene le due vengano da background musicali ben differenti. Sono pochi ma tutti significativi i brani, con particolare menzione a Need Of Affirmation con i suoi splendidi ricami chitarristici, l’intensa e melodica Zoe’s Seeds e la particolarmente ben prodotta Awful Thread con i suoi intrecci d’archi.  Prodotto a due mani con Marco Giudici, il disco va ascoltato attentamente e più volte per apprezzarne tutte le sfumature, come il particolare drumming che sostiene il piano dell’iniziale Stillness,Stop, o il sound rarefatto di If I Don’t Care. Si ha sempre un po’ la sensazione che parli più a sé stessa che a noi Any Other, ma se entrate senza troppo disturbare, la sua camera dei ricordi può diventare la vostra.

Nicola Gervasini

THE THE

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