lunedì 13 aprile 2020

STEPHEN MALKMUS

Stephen Malkmus
Traditional Techniques
[Domino/ Matador 2020]
stephenmalkmus.com

 File Under: Oriental folksinger
di Nicola Gervasini (30/03/2020)

I segnali di venti di cambiamento c’erano già stati negli ultimi anni, prima con lo scioglimento (definitivo?) dei Jicks, che lo seguivano fedelmente ormai da più di quindici anni, poi con un disco solista in tutti i sensi come Groove Denied dello scorso anno, esercizio di studio da one-man-band alla Todd Rundgren che non lasciava certo presagire l’uscita di un album come Traditional Techniques. Che è di fatto figlio delle sessions del disco del 2018, Sparkle Hard, ma pensato fin da subito come un progetto di ricerca di nuove vie espressive. D’altronde è evidente che dopo anni in cui Stephen Malkmus è stato il primario promotore della canzone "indie" così come la si era definita negli anni Novanta, ora è arrivato per lui il momento di sperimentare altro. Giusta scelta, se è vero che la critica maggiore che veniva riferita ai suoi album solisti era quella di essersi un po’ impantanato in uno stile che non trovava modo di fare evolvere ulteriormente, se non con una svolta più mainstream che avrebbe di certo scontentato tutti.

Che qui spiri aria nuova lo si capisce fin dai sei minuti iniziali di ACC Kirtan, probabilmente quello che avrebbe voluto realizzare in vita Brian Jones se non fosse annegato in una piscina, una carrellata di musica lisergica tra sitar e bouzouki che ci porta fino alle slide desertiche e psichedeliche di Xian Man. Ma la soprese non finiscono qui, perché poi arriva una The Greatest Own In Legal History che, tra steel-guitars e acustiche che paiono scordate, insegue il Neil Young più sofferente dei tempi d’oro, così come indulge in sonorità da pura roots-music anche Cash Up. Ma con Shadowbanned e What Kind Of Person si ritorna subito in Oriente, continuando quel gioco di rimandi tra due tradizioni apparentemente agli antipodi che caratterizza tutto il lavoro, mentre Flowing Robes recupera l’incespicante ritmo di un bozzetto acustico di Syd Barrett, e Brainwashed è l’occasione per una jam acida tutto sommato riuscita. Chiude una Signal Western in cui il nostro sembra quasi fare il verso a Bonnie “Prince” Billy (d’altronde il chitarrista qui è Matt Sweeney, che con Will Oldham ha firmato anche un album) e una Amberjack che saluta in chiave dream-folk per un disco davvero bello soprattutto dal punto di vista della produzione.

Esiste comunque una bonus track nel finale intitolata Juliefuckingette (esclusa dalla tracklist in patria per evitare censure, visto il titolo, consiglio quindi di recuperare l’edizione giapponese della Beat Records che la prevede), che sembra invece rubata dalle outtakes dei Wilco, e che in qualche modo chiude il cerchio sui vari omaggi ad un certo mondo musicale che con tutta evidenza Malkmus voleva proporre con questo disco davvero atipico nella sua carriera, e forse proprio per questo necessario.

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