lunedì 17 maggio 2021

ISRAEL NASH

 


Israel Nash

Topaz

(Israel Nash, 2021)

File Under: Wall of Nash

Dodici anni sono forse pochi per fare resoconti di una carriera, ma Topaz, il sesto album di Israel Nash, sembra già voler suggerire la fine di un percorso che abbiamo seguito fin dal suo esordio del 2009 (New York Town). Quello che ai tempi ci sembrò essere solo un buon clone di Ryan Adams, ci aveva poi ben impressionato con il passo successivo Barn Doors and Concrete Floors del 2011, in cui la produzione dell’ex Sonic Youth Steve Shelley aveva trovato un perfetto equilibrio tra la struttura classica delle sue canzoni e la necessità di dimostrare una personalità propria. Album tra i migliori del decennio scorso per quanto ci riguarda, al quale fece seguito un comunque convincete Israel Nash's Rain Plans nel 2013, in cui prendeva piede una certa voglia di ripercorrere le strade di Neil Young anche nella dilatazione dei tempi. Ma a quel punto Nash deve aver deciso di voler uscire dalla gabbia dell’immagine del cantautore post-classic rock, e così, tagliato anche il secondo cognome usato per firmare i suoi primi lavori (Gripka) quasi a voler ribadire una nuova identità, ha provato a far crescere la propria musica. Israel Nash's Silver Season del 2015 allargava gli orizzonti e i minutaggi strumentali nella direzione di uno rock lisergico che invadeva il campo di Jonathan Wilson o dei Chris Robinson Brotherhood, perdendo di vista però le canzoni, difetto che Lifted del 2018 ha provato a correggere, non trovando però la perfetta quadratura, nonostante gli abbia però portato i primi riconoscimenti anche al di fuori del mondo della roots-music.  Topaz, album che già era stato in parte anticipato da un ep, pare invece ritrovare la strada. Nash non è più il rauco cantautore degli esordi, e permane in  queste canzoni quello stile un po’ “dark” e levigato “alla War On Drugs” che ha fatto da padrone nelle produzioni indie più di successo di questi ultimi anni, ma la svolta arriva dall’inserimento di una sezione fiati nel grande magma strumentale ancora una volta proposto, che fin dalla iniziale Dividing Lines suona non tanto come elemento di continuità con la tradizione, quanto come un puro oggetto di disturbo, se non proprio di rottura. L’effetto all’inizio stordisce, perché le atmosfere da cantautore involuto di Closer o Howling Wind sembrerebbero richiedere essenzialità, e non certo l’effetto maestoso che una sezione fiati inevitabilmente porta ad un arrangiamento, ma questo è proprio quello che rende speciali questo pugno di canzoni. Nash ha prodotto tutto da solo in uno studio di registrazione in casa, in cui ha fatto stare a fatica i tanti musicisti coinvolti a registrare in diretta, con pochissime sovra-registrazioni in post-produzione, e ha fatto davvero le cose per bene, perché brani come Canyonheart, Stay o Southern Coasts non perdono di vista l’importanza della scrittura (i testi sono molto personali e pieni di dolore, anche se non si fa mancare qualche polemica di stampo politico come in Indiana) e della melodia, ma osano qualcosa in più in termini di arrangiamenti, con il risultato di una sorta di wall-of sound sospeso tra rock e gospel (non mancano anche i cori d’altronde…), che è in fondo solo l’estremizzazione di quello che già aveva accennato così brillantemente nel suo secondo album. È probabile che un giorno Nash sentirà nuovamente la necessità di quella semplicità del suo ancora oggi godibilissimo esordio, ma il suo percorso pare voler aggiungere un nuovo elemento ad ogni tappa senza mai voler rinunciare alle precedenti, e Topaz ci sembra essere il capitolo più riuscito di questa escalation verso una sua concezione di “rock totale” che potrebbe anche non essere finita qui.

Nicola Gervasini                              

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