Nicola Gervasini
martedì 31 marzo 2015
THE WHO
sabato 28 marzo 2015
BOB SEGER
giovedì 26 marzo 2015
BELLE BRIGADE
THE BELLE BRIGADE
JUST BECAUSE
Ato records
***
Se dovessi dire cosa ricordo con più piacere del
cofanetto-tributo a Bob Dylan uscito un paio di anni fa per Amnesty
International (Chimes of Freedom – The
Songs of Bob Dylan) non avrei dubbi nel citare la versione di No Time To Think dei Belle Brigade. Innanzitutto per la coraggiosa
scelta di un brano poco conosciuto e decantato, uno di quei lunghi e verbosi
tour de force dylaniani che non invogliano certo ad una rilettura. E poi perché
i fratelli Barbara e Ethan Gruska in
quel caso meglio di altri hanno saputo far loro il concetto di reinterpretare
un brano con rispetto dell’originale tirando comunque fuori qualcosa di nuovo.
Prima di allora dei Belle Brigade si era parlato nel mondo indie per quel loro
delizioso disco di esordio omonimo uscito nel 2011, con paragoni che arrivavano a qualcosa intorno agli “Everly
brothers indie”. Just Because è il
loro atteso seguito, e subito evidenzia come il duo abbia voglia di stupire con
molte variazioni sul tema, pur conservando l’impronta soft-pop delle proprie composizioni.
In certi momenti sembra quasi di sentire gli Iron & Wine di The Sheperd’s
Dog, per quel gusto di riempire di suoni e percussioni anche il brano più
minimale (Be Like Him), in altri invece
si lasciano andare in ritmi e melodie decisamente più esuberanti (How I See It, Not The One). Non
sorprende quindi che la Reprise si sia rifiutata di pubblicare il disco
nonostante avesse una opzione per la distribuzione, lasciando alla indipendente
ATO il coraggioso compito di dare luce a questi dieci piccoli bozzetti easy-indie
che hanno forse il difetto (o il pregio?) di essere difficilmente catalogabili.
Troppo leggeri per competere nel difficile e affollato mondo della folk-song
indipendente (When Everything Was What It
Was), troppo spensierati per incarnare il disagio dei nostri tempi (Everything for a Stone), troppo
complicati per produrre delle semplici
pop-song cantabili in macchina (Metropolis).
Al duo i complimenti per essere riusciti comunque a non sembrare mai banali o
già sentiti, ma alla fine non si può dire che tutto funzioni alla perfezione, e
una certa mancanza di idee chiare sul risultato da raggiungere la si sente.
Restano un pugno di canzonette godibili e intelligenti, che un domani
potrebbero anche diventare mature e sorprendenti se si ha la giusta pazienza
Nicola Gervasini
lunedì 23 marzo 2015
COVES
COVES
SOFT
FRIDAY
Nettwerk
***1/2
Quando si maneggia un disco di esordio pare
sempre quasi un obbligo fare nomi e riferimenti, inquadrare il gruppo in un
movimento rock e fare tanti auguri per il futuro. Nel caso dei londinesi Coves poi
la tentazione è forte, perché poi la voce della singer Beck Wood non può non
ricordare quella di Hope Sandoval dei Mazzy Star, perché il polistrumentista John
Ridgard, che con lei completa il duo, non può non essere uno che passato
l’adolescenza consumando i dischi dei Velvet Underground (anche se lui ama
citare i Jesus & Mary Chain). Però alla fine quello che esce da questo Soft Friday è qualcosa di unico, sebbene
assemblato con i pezzi di ricambio di tutta la storia del rock. Ce n’è per
tutti qui: suoni roots (Honeybee),
suoni new wave anni ottanta (Last Desire),
suoni indie-rock (Let The Sun Go),
persino un quasi- riff-rock con l’ottima Cast
A Shadow. Su tutto però giganteggia la voce lenta e eterea della Wood,
ancora lontana forse dalla magia della Sandoval, ma decisamente a suo agio
anche quando ritmi e suoni si alzano, come nella finale Wake Up, brano che chiude in crescendo un disco breve (39 minuti)
ma alquanto vario ed elaborato. E se la Wood non offre poi troppe variazioni
sul tema come vocalist, ci pensa John Ridgard a divertirsi con ogni tipo di
strumento, dai sintetizzatori all’armonica passando per chitarre,
drum-machines, loop e chi più ne ha, ne metta. Forse ancora malati di quella
voglia di stupire al prime colpo e comunque vagamente inquadrabili nel
movimento di revival di certi suoni degli eighties, i Coves rinfrescano una
tradizione dark (provate anche a leggere i testi decisamente nichilisti di
alcuni brani) aggiornandola con quanto è successo negli anni 2000 e forse anche
con qualche idea nuova. Non siamo ancora dalle parti del disco importante, ma
potremmo anche scommettere che di un musicista intelligente e a tutto tondo
come John Ridgard sentiremo ancora parlare, magari anche come produttore.
Nicola Gervasini
giovedì 19 marzo 2015
SPIKE
Spike
100% Pure Frankie
Miller
(Cargo,
2014)
File Under: Frankie Who?
L’idea è talmente folle che era impossibile non segnalarla:
fare un disco tributo a Frankie Miller,
ma non partendo dai suoi classici degli anni settanta (per quanto sfigato sia
stato come artista, ne ha fortunatamente avuti tanti), ma da una serie di inediti
che lo sfortunato eroe ha lasciato irrisolti e mai registrati nel corso dei
tanti anni di inattività dagli anni ottanta in poi. Per un simile strampalato
progetto ci voleva un altro folle del rock, il redivivo Spike, frontman ancora non del tutto consumato dall’alcool dei
Quireboys, talmente innamorato della musica di Frankie Miller da produrre forse
il suo lavoro migliore dai tempi del glorioso A Bit Of What You Fancy del 1990. Non avendo originali con cui
comparare questi brani, ci si fida della sua interpretazione, che non è né più
né meno quella di un buon disco dei Quireboys, con chitarre in primo piano e
blues&rock ad alto volume a spaccare le casse. Solo Bottle Of Whisky fu registrata da Miller, ed è quindi un rammarico
sapere che grandi pezzi rock come The
Brooklyn Bridge, Cocaine (realizzata anche come singolo) o Amsterdam Woman (duetto con Ian
Hunter) debbano vivere solo in queste versioni un po’ fracassone (chi
conosce i Quireboys ha bene in mente cosa intendo). Spike comunque ci mette
passione e devozione, anche se la sua voce da Bon Jovi con la raucedine non
sempre è quella giusta, e forse eccede nella faciloneria quando affronta le
ballate romantiche come I’m Losing You
o il duetto in chiave country con Bonnie Tyler di Fortune (bello scontro di voci rauche comunque). Puro 100% fun-rock dunque, con una pletora di grandi testimoni dell’epoca come ospiti (nientemeno
che Ron Wood alla chitarra in alcuni
brani e Simon Kirke e Andy Fraser dei Free
in sezione ritmica ), e immagino che il buon Frankie abbia apprezzato
l’omaggio, sperando che gli serva a ritrovare la voglia di registrare questi
brani. Che saranno classic-rock ormai completamente fuori dal tempo, ma
continuano ad essere un esempio di alta scuola che era giusto non perdere.
Nicola Gervasini
lunedì 16 marzo 2015
NEIL YOUNG
Ma solo Storytone ha il grande merito di essere davvero un disco nuovo nella sua discografia. Non che non si fosse già cimentato in un duello con un orchestra (basta pensare anche solo a There's a Word e A Man Needs A Maid su Harvest), ma qui Young ha sapientemente deciso di provare tutte le possibilità stilistiche offerte dalla presenza di una big band di ben 92 elementi, e scusate se abbiamo dimenticato qualcuno nel conto. Con risultati per forza di cose alterni, sorprendenti, spiazzanti, indigesti o esaltanti a seconda del vostro gusto personale. Ma quello che è importante è che il disco è vivo, le canzoni sono quelle giuste, e per gustarne appieno la buona finitura è importante procurarsi anche le raw-versions, forti di interpretazioni curate e sentite che fanno dimenticare la fastidiosa sciatteria di A Letter Home. Il vero Storytone, quello arrangiato, offre comunque spunti di gran valore: se Plastic Flowers con il suo piano è brano già sentito (proprio in Sleeps With Angels c'erano due episodi simili), la tensione da colonna sonora da thriller-movie del singolo Who's Gonna Stand Up? funziona bene, così come il blues elettrico tutto grandi fiati di I Want To Drive My Car o il numero swing alla Frank Sinatra di Say Hello To Chicago. A voi poi scegliere se accettare i melò solo archi di Glimmer o Tumbleweed, se il fatto che Like You Used To Do riporti alla mente i tempi di This Note's For You sia un fatto positivo o meno (il disco è prodotto dallo stesso team di allora, i Volume Dealers, che poi sarebbero lui e Niko Bolas), se è opportuno che lui con la sua voce si lanci nelle melodie ardite di I'm Glad I Found You. Notate invece che quando il nostro torna alla sua tipica ballata acustica, sofferta e sussurrata, sa ancora toccare le corde giuste (When I Watch You Sleeping e All These Dreams). Siamo d'accordo dunque, non sarà il suo capolavoro, ma a quasi settant'anni suonati quest'uomo ha saputo ancora sorprendermi con un buon prodotto e non con una inutile e dannosa provocazione come A Letter Home. E, in cuor mio, ammetto che da lui non me lo aspettavo più. |
JOHN MELLENCAMP
Ultimamente nelle schiere dei grandi dinosauri del rock
serpeggia un’idea: se il classic-rock è davvero arrivato ad un punto morto
della sua crescita creativa, allora la tradizione salverà tutti. E John
Mellecamp è uno di quelli che ormai da tre dischi ribadisce il concetto, facendo
di folk virtù. Se Life, Death, Love and
Freedom nel 2008 aveva fatto pieno centro abbandonando il connubio chitarre
rock / batterie pestate che caratterizzava il suono della maggior parte dei
suoi dischi del passato, No Better Than
This nel 2010 aveva forse estremizzato troppo il senso, beandosi dell’assenza
di suoni in maniera stancante. Plain Spoken (Republic) invece
rimette ordine nella nuova fase, e si presenta come il suo disco più calibrato
e completo da molti anni a questa parte. Meno temi sociali (ma Freedom Of Speech abusa in retorica in
questo senso), più introspezione (Tears
In Vain), per un album fatto di tormenti che, per ironia della sorte, ha in
copertina una foto scattata da Meg Ryan, fidanzata abbandonata proprio nei
giorni dell’uscita. Parla ormai da padre - per non dire da nonno - il vecchio
John, racconta la società americana attraverso i suoi patemi come un novello
Steinbeck del rock, e riesce pure ad essere credibile. Il piccolo bastardo e la
rabbia sono ormai storia passata, Mellencamp non salverà il rock, ma gli regala
le ultime storie che vale ancora la pena di ascoltare.
Nicola Gervasini
venerdì 13 marzo 2015
JESSE WINCHESTER
In genere si mitizza il primo album omonimo del 1970 perché registrato con la Band al gran completo e Todd Rundgren in regia, ma tutta la carriera di Winchester è stata caratterizzata da dischi eleganti e in prima linea nell'arte del buon songwriting. Gli mancava forse il tocco perfetto alla Gordon Lightfoot o la capacità di esprimere anche negli arrangiamenti i propri tormenti d'autore, e per questo la sua carriera resta abbastanza oscura, anche tra molti appassionati di genere. Nel 2009 si era rimesso in pista dopo un lungo silenzio con il discreto Love Filling Station, e A Reasonable Amount Of Trouble è il designato successore che Jesse ha fatto in tempo a registrare prima di lasciare queste lande desolate. Il titolo ironizza sulla sua malattia con una frase pronunciata da Sam Spades nel Falcone Maltese, e di fatto il disco può essere in qualche modo paragonato a The Wind di Warren Zevon, per quel senso di attaccamento alla vita che suscita l'idea di un artista che sa di star registrando il proprio canto del cigno. Corredato da una accorata presentazione di Jimmy Buffett, organizzatore anche del recente tribute-album in suo onore, l'album non si discosta molto dalla classica ricetta di Winchester, con brani in stile Band come She Makes It Easy Now e ballate soffici come Neither Here Nor There o Ghosts (ma quante pop-singer potrebbero cavarci una hit da questa melodia?), evidenziando però una coraggiosa allegria in scanzonate swing/soul-pop songs alla Burt Bacharach come l'iniziale All That We Have Is Now, Whispering Bells o Rhythm Of The Rain. Non potevano mancare puntate a quel gospel-country (A Little Louisiana) di cui è sempre stato maestro (e Lyle Lovett il suo più evidente discepolo), omaggi alla sua amata New Orleans (Never Forget To Boogie), lenti da festa scolastica degli anni 60 alla Aaron Neville (Devil Or Angel), e via così, fino alla fine, con episodi alla Gordon lightfoot (Don't Be Shy) e momenti riflessivi (Every Day I Get The Blues e Just So Much). Non ci ha lasciati con il suo capolavoro, ma con un buon modo per riscoprirlo sì. |
martedì 10 marzo 2015
MARIANNE FAITHFULL
Si parte con una decisamente roots Give My Love To London, nelle intenzioni del suo autore Steve Earle un atto d'amore per una città che lo ha ormai adottato, nella versione della Faithfull una dedica ai tanti amici sparsi in città e al loro tenace attaccamento alla vita. Si continua con una drammatica Sparrows Will Sings di Roger Waters, evocativa descrizione di disordini giovanili londinesi in puro stile dell'ex Pink Floyd, probabilmente il brano più vicino allo stile della Faithfull era Broken English. Collaboratore fisso del disco è Ed Harcourt, che scrive anche la baldanzosa True Lies e sparge pepe ad una melodrammatica Mother Wolf, mentre l'intesa con Anna Calviproduce uno dei momenti più riusciti dell'album in Falling Back, ma anche una non convincente riscrittura del classico degli Everly Brothers The Price Of Love, versione che si limita a rallentare quella ben più riuscita e famosa di Bryan Ferry, senza però trovare una nuova anima al brano. Gli arrangiamenti voluti dai produttori Dimitri Tikovoi (solitamente collaboratore di Ed Harcourt e dei Placebo) e Rob Ellis (PJ Harvey) sono spesso maestosi e altisonanti, con una leggera tendenza alla sovrapproduzione che sembra però essere marchio voluto del disco (ascoltate ad esempio la Late Victorian Holocaust di Nick Cave), anche se Tom McRae prima, con l'acustica Love More Or Less, e ancora Nick Cave con la piano-song Deep Water, offrono momenti scarni e riflessivi. Bella la versione di Going Home di Leonard Cohen (qui non si è azzardata a variare il testo), che vede tra l'altro l'intervento vocale di Brian Eno, e tutti a casa con lo standard I Get Along Without You Very Well di Hoagy Carmichael. Disco di eccezionale intensità e forse fin troppo pieno di idee e contenuti, Give My Love To London mantiene il buon nome della Faithfull nella serie A del rock. Ci ha messo anni ad entrarci, ma ora non ne esce davvero più. |
domenica 8 marzo 2015
JUSTIN TOWNES EARLE
JUSTIN TOWNES EARLE
SINGLE MOTHERS
Vagrant
***
Bisogna capirlo il povero Justin Townes Earle, non deve essere
facile portare quei due nomi con tanta leggerezza. Lui ci prova da anni, schierandosi
in quella frangia di figli d’arte che si sono dati ad una resa pop dello stile
paterno, in compagnia di gente come Adam Cohen, Teddy Tohmpson e, anche se
forse con risultati più alti e personali degli altri, Rufus Wainwright. Justin
Townes Earle non ha mai rinnegato l’origine nashvilliana del songwriting
paterno, e ha portato il nome di Townes Van Zandt con rispetto, sia per cotanto
mito, sia per la devozione del padre, che a quell’uomo è arrivato a dedicare un
figlio e un disco intero. Prendete ad esempio Picture In A Drawer, brano centrale del nuovo album: il tentativo
di ricreare una intensa ballatona che possa stare tra una Place To Fall di Van Zandt e una Goodbye del padre è evidente, quanto anche l’impossibilità di
poterli raggiungere. Non ce ne voglia il buon Justin, che fino ad oggi si è speso
con dischetti che si ricordano anche volentieri come Midnight At The Movies
del 2009 o Harlem River Blues del 2010, ma con questo Single Mothers riesce solo a confermare quanto non potrà mai essere
un nome di primo piano, ma solo un onesto gregario, bravo per quanto
raccomandato, ma pur sempre uno da serie B. Non che ci sia niente di sbagliato
in questo nuovo disco, solo che questa serie di malinconiche ballate, al solito
sospese tra country e indie-pop, solo raramente trovano lo spessore da grande
autore. Il nostro prode dedica l’album alle madri single e al loro coraggio
nell’affrontare la vita, forse un
messaggio trasversale al ben poco affidabile padre, ma in verità più un monito
a sé stesso a perseguire una condotta più saggia e meno autodistruttiva, visto
che anche lui è fresco sposo e anche il suo passato già parla di storie di
droga e notti in prigione. Bisogna aspettare dunque la terza traccia per
trovare perlomeno un po’ di sano divertimento nel country-bar-boogie di My Baby Drives, e la quarta per un
momento più intenso grazie a Today And A
Lonely Night, e magari il finale con It’s
Cold In The House e Burning Pictures
per un po’ di discreto songwriting. Disco caratterizzato da un suono scarno, che
punta tutto sulla pedal steel di Paul Niehaus
(Lambchop, Calexico), Single Mothers
è un disco che si ascolta con piacere, ma si dimenticherà anche in fretta. E a
papà e ai suoi amici questo non è mai successo.
Nicola
Gervasini
martedì 3 marzo 2015
LEONARD COHEN
domenica 1 marzo 2015
KEVIN LEE FLORENCE
KEVIN LEE FLORENCE
GIVEN
Fluff &
Gravy
***
Nicola Gervasini
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Swans
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