venerdì 26 giugno 2020

MARK LANEGAN

Mark Lanegan
Straight Songs of Sorrow
[Heavenly Records 2020]
marklanegan.com

 File Under: Journey through the dark
di Nicola Gervasini (22/05/2020)

Il problema con Mark Lanegan – perché sì, abbiamo un problema – non è tanto la perdita di freschezza o il comprensibile calo di ispirazione, che si può tranquillamente perdonare ad un artista attivo ormai da almeno trentacinque anni con grandi onori, quanto che, paradossalmente, più fatica a trovare una nuova dimensione che convinca tutti, più pubblica dischi a raffica (da solo o con i progetti a più mani). Straight Songs Of Sorrow arriva solo a sei mesi di distanza da Somebody’s Knocking, e in ben sessanta minuti di musica (durata da CD anni 90), prova a fare un punto della situazione su quanto prodotto nelle ultime quindici stagioni. Convivono così fin dai primi brani l’elettronica, che ormai fa da padrone da molto tempo nelle sue produzioni (This Game OF LoveI Wouldn’t Want To Say), o la sua mai del tutto sopita vena da solitario folksinger (Apples From A Tree, impreziosita dal fingerpicking di Mark Morton dei Lamb Of God), ma il corpo del disco è costituito da una serie di brani in cui Lanegan fa semplicemente Lanegan, come i blues notturni di Ketamine o di Stockholm City Blues, che stanno dalle parti di Whiskey for the Holy Ghost come spirito.

Eppure l’uso delle tastiere comincia ad essere non più una sperimentazione, quanto una costante, ed è facile capire come gli arrangiamenti di Bleed All OverInternal Hourglass DiscussionChurchbell Ghosts, o l’intensa Skeleton Key, cercano volutamente un sound da anni 80 che inizia a suonare vecchio anche in veste di revival (voglio dire, sono ormai quindici anni che questi suoni sono tornati in auge, è stato anche un bene in tanti casi, ma ora magari passiamo oltre, no?). E va notato anche che, con l'andare del tempo, Mark punta sempre meno sulla sua voce, spesso relegata sullo sfondo, a volte proprio sovrastata dal contesto, quando invece nei suoi dischi più classici restava spesso in primo piano, caratterizzando il suono già da sola. E questo un po’ dispiace, perché si conferma quello che già un po’ infastidiva in Gargoyle del 2017, e cioè una certa piattezza e scarsa nitidezza della produzione.

Le note più liete arrivano invece dai testi, molto personali, in gran parte ispirati dall’autobiografia appena pubblicata (Sing Backwards And Weep, causa recente di un ben poco edificante “flame social” con Liam Gallagher degli Oasis), in cui Mark torna a scavare nel suo mondo fatto di ombre e di dolore come negli anni giovanili, senza neanche troppo atteggiarsi a vecchio saggio (anzi, mostrando limiti e difetti con grande schiettezza), finendo a fornirci una sincera presa di coscienza della propria persona. In questo senso nell’album troverete alcune delle cose migliori uscite dalla sua penna negli ultimi anni (Daylight In The Nocturnal HouseAt Zero Below, Ballad of A Dying Rover), figlie di una rinnovata voglia di porsi innanzitutto come un grande autore, a cui avremmo preferito facesse da contraltare una scelta musicale e produttiva più definita e chiara. Meno male che l’intervento di una lista di facoltosi collaboratori (John Paul Jones, Greg Dulli, Warren Ellis, Adrian Utley e la moglie Shelly Brien) porta indubbiamente nuova linfa vitale, il che rende l’album migliore dei suoi predecessori (e infine positivo nel suo complesso), ma consentitemi ancora qualche riserva sul fatto che non si possa anche pretendere di più.

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