martedì 15 luglio 2025

Robert Forster

 

Robert Forster

Strawberries

(2025, Tapete Records)

File Under : Strawberries fields forever

Tra i sopravvissuti all’incredibile e forse irripetibile calderone di grandi artisti usciti dalla scena australiana di fine anni settanta, l’ex Go.Betweens Robert Forster è forse uno di quelli più in credito con la fortuna (ma questa ormai è una banalità anche ricordarlo trattandosi di personaggi così di nicchia), ma anche uno di quelli che ancora sta tenendo un ritmo discografico qualitativamente altissimo. Se non conoscete la sua carriera solista, iniziata nel 1990 ancora in parallelo all’attività della band, recuperate lo splendido The Evangelist del 2008, ma in ogni caso anche i titoli più recenti valgono la pena. Questo Strawberries in particolare esce a poca distanza da The Candle and the Flame, disco piuttosto sofferto segnato dalla contemporanea morte della madre e dalla diagnosi di una grave malattia alla moglie Karin Bäumler, cercando però con tutta evidenza di esserne il capitolo di ritorno alla vita.

Ne esce di fatto un disco completamente diverso, non voglio dire “allegro” perché comunque questi racconti letterari, apparentemente meno autobiografici, sono pregni di disagi di varia natura, ma sicuramente positivo nel reagire alle avversità della vita. Ne è testimonianza anche il video che accompagna la title-track, che vede lui e una rigenerata moglie duettare nella loro cucina in una splendida pop-song, con tanto di fiati e citazioni dei Lovin Spoonful, video che testimonia la semplicità del personaggio e del suo messaggio artistico, ma anche la complessità delle sue trame da pop-rock d’altri tempi.  Ma è tutto il disco che vola altissimo fin dalla strana storia d’amore di Tell’It Back To Me, e passando per un numero da pub-rock degno del miglior Nick Lowe come Good To Cry, a quel lungo e splendido tour de force di folk-pop all’australiana (siamo in zona Paul Kelly quasi) che è Breakfast on The Train, Forster sembra aver trovato con questo disco (solo 8 brani, ma bastano) la chiusura del cerchio di una lunga carriera.

Nella seconda parte si viaggia un po’ più sul sicuro con brani che tornano a citare non poco il passato, come l’intro pianistica alla John Cale di Such A Shame, o come nelle atmosfere da rock anni 70 di All Of The Time. Ma è nel finale di Diamonds che le carte vengono rimescolate, introducendo un sax quasi free-jazz in un brano che ha ben altro spirito rispetto al clima più scanzonato del brano precedente (Foolish I Know), nel quale quasi veste i panni dell’elegante jazz-crooner. Un gran bel finale per un disco vario e alquanto ispirato, e soprattutto capace di usare l’ironia (leggetevi il testo di Foolish I Know) per tagliare quella soffocante patina di dolore che aveva reso non facilissimo da digerire il suo album precedente. E solo i grandi artisti hanno la capacità di cambiare registro rimanendo comunque sé stessi,  e di non perdere mai le proprie radici musicali fatte di pane e Kinks, ma da saperle riscrivere senza mai apparire sterilmente citazionista.

 

Nicola Gervasini

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