domenica 21 dicembre 2025

Neko Case

 

Neko Case

Neon Grey Midnight Green

Anti-, 2025

File Under: Musician's life

Ammetto subito in apertura di recensione di avere un certo rapporto conflittuale con la musica, e in generale la carriera, di Neko Case. Cantautrice di matrice country all’esordio (ma prima c’erano state le esperienze con le punk-band Cub e Meow), la Case si è via via allontanata dalla grammatica classicista esibita nel 1997 in The Virginian, arrivando a produrre dischi davvero belli, quanto anche stimolanti dal punto di vista delle soluzioni nuove, come  Blacklisted o Fox Confessor Brings the Flood, ma dal controverso Middle Cyclone del 2009 (n verità il suo album più venduto) in poi ha secondo me faticato a trovare il giusto equilibrio tra classico e moderno. Se la parallela carriera con la band dei New Pornographers in qualche modo doveva servire a darle sfogo in ambiti più indie-pop (e nel campo la sigla ha prodotto album interessantissimi), i suoi album solisti The Worse Things Get, the Harder I Fight, the Harder I Fight, the More I Love You del 2013 e Hell-on del 2018 avevano lasciato la sensazione di grandi idee confuse.

Il fatto che poi abbia pubblicato poi poco a suo nome (questo Neon Grey Midnight Green è solo l’ottavo album in quasi trent’anni di carriera, non comprendendo i live e la retrospettiva di Wild Creatures pubblicata nel 2022), fa capire come l’artista non abbia la sua storia solista come interesse principale. In ogni caso Neon Grey Midnight Green è sicuramente un buon disco, ed appare subito più a fuoco dei suoi predecessori, pur confermando sempre quelle sbavature che lasciano perplessi.  Che possono essere esprimenti vocali senza troppo senso come Tomboy Gold, ma anche ottimi brani come Wreck, un mid-tempo roots in stile Kathleen Edwards, che viene però sommerso da fiati e archi non del tutto necessari.  D’altronde la lista di session-men coinvolti conta più di 30 musicisti, con qualche nome importante come Steve Berlin, John Convertino o Sebastian Steinberg dei mai dimenticati Soul Coughing, numeri grossi per un disco che infatti la Case ha definito “una lettera d’amore per i musicisti e la loro vita”.

La sensazione di grande riunione di famiglia regna un po’ sovrana, come se su ogni brano in tanti, a volte troppi, abbiano voluto lasciare per forza un segno, appesantendo un disco che, se leggermente prosciugato, avrebbe avuto tutti i numeri (leggasi: le canzoni giuste) per essere visto come un suo grande ritorno. In ogni caso anche Louise, Rusty Mountain e la stessa title-track entrano di diritto nel novero della sua miglior produzione, e questa è la buona notizia, perché comunque recuperano una essenzialità nella scrittura che si era un po’ persa nella voglia di strabiliare a tutti i costi sciorinata negli ultimi anni. Accontentiamoci così quindi, Neon Grey Midnight Green è un album consigliabile nonostante le sue esagerazioni, e ci restituisce in buona forma una autrice su cui avevamo davvero puntato molto ormai vent’ani fa.   

 

Nicola Gervasini

mercoledì 17 dicembre 2025

Nero Kane

 Nero Kane

For the Love, the Death and the Poetry

(Subsound Records, 2025)

File Under: Black Mass

Ci sarebbe da dividere la presentazione di For the Love, the Death and the Poetry, il nuovo album di Nero Kane, in due parti: una rivolta a chi già conosce i suoi precedenti lavori, una invece rivolta a chi ancora non ha incontrato la sua musica. Per i primi consiglierei di partire dal titolo e dalle tre parole chiave, Amore, Morte, Poesia, perché poi il suo “psych dark folk” (questa è la descrizione che si trova subito online, indicativa, ma non esaustiva, del suo stile) è effettivamente animato da un continuo rapportare amore e morte, e da un atteggiamento (e un suono) decisamente etereo che sa di poesia ancora prima di leggere poi i versi delle sue canzoni.

Per i secondi invece direi di partire dalle conferme rispetto ai 3 album precedenti, innanzitutto della partner in crime Samantha Stella, al solito presente sia come musicista, vocalist e autrice (e pure promoter aggiungerei), e dalla conferma di Matt Bordin come unico terzo musicista e co-produttore dell’album. Il che fa subito capire che For the Love, the Death and the Poetry persegue, fin dalla quasi a campana a morto suonata dal piano nell’iniziale As An Angel’s Voice, la strada di realizzare colonne sonore per quella sorta di messa laica che sono i loro concerti, dove gli effetti della chitarra di Nero e le tastiere di Samantha compongono lo stesso muro di suoni oscuri qui riproposti. 

E se il primo brano mostra tutto il loro background intriso di dark-music anni Ottanta, già la chitarra immersa in echi morriconiani ed evocativi tocchi di slide alla 16 Horsepower della successiva My Pain Will Come Back To You, riporta in evidenza invece la cultura di musica americana di Kane, che qui si cimenta in una ballata epica che si sarebbe potuta tranquillamente proporre al Johnny Cash degli American Recordings. Sta in questo contrasto la particolarità, e direi tranquillamente unicità, della proposta di Nero Kane, che sicuramente gioca molto sul fattore “atmosfera”, come dimostrano lo strumentale Unto Thee On Lord e seguente Land Of Nothing, cantata da Samantha Stella in pure “Nico-style”. Ma c’è comunque spazio per il Kane songwriter, come nella dolente ballata acustica Mountain Of Sin, puro folk d’altri tempi, o per le soluzioni anche più dark-prog di The World Heedless Of Our Pain (ai Dead Can Dance sarebbe piaciuta molto), che spiega anche perché il set live del duo Kane-Stella sia molto apprezzato anche in ambiti europei del mondo del prog/dark  metal, nonostante la mancanza di molti segni distintivi del genere nella loro proposta, 

Il disco, anche nel suo seguito con Receive My Tears, There Is No End e Untile The Light Of Heaven Comes (credo che i titoli bastino per spiegare e far immaginare il mood dei brani), non porta comunque particolari stravolgimenti nella loro musica, se non una continua maturazione di una idea che resta intrigante, anche se non per tutti (se cercate l’energia positiva del rock è forse meglio girare alla larga da questi paraggi), e che conferma Nero Kane come uno dei nomi che possiamo davvero pretendere di esportare anche fuori dai nostri confini.


lunedì 15 dicembre 2025

Mirador

 

Mirador

Mirador

Universal

**1/2

 

C’è da anni una profonda discussione tra i fans del rock “old style” riguardo i Greta Van Fleet. Le opinioni sulla band spaziano tra gli estremi di “Meri plagiari/pataccari dei Led Zeppelin” a “La dimostrazione vivente che il rock non morirà mai”, e sta a voi decidere in quale punto della linea posizionare la vostra opinione. Tra l’altro è lo stesso tipo di diatriba che ha accolto i loro contemporanei di casa nostra Måneskin, e anche qui lascio ad altre occasioni la discussione sulle debite distanze da porre tra i due gruppi.

In ogni caso, su una cosa è possibile concordare tutti riguardo ai Greta Van Fleet, e cioè che hanno studiato bene i classici, e sicuramente li sanno suonare con quella dovuta maestria che gli ha garantito un grande successo, anche tra le giovani generazioni. Per cui c’è poco da storcere il naso per questo side-project chiamato Mirador del loro chitarrista Jake Kiszka, che ha unito le forze con Chris Turpin degli Ida Mae, interessante duo di folk-blues elettrico sponsorizzato da Ethan Johns qualche anno fa.

Qui si respira aria da nuovo hard-blues bidimensionale alla White Stripes o Black Keys prima maniera direi, con “riffoni” subito in bella mostra fin dall’iniziale Feels Like Gold, e con una sezione ritmica, formata dai session-men Mikey Sorbello e Nick Pini, che picchia e pulsa come richiesto dal genere. Oppure altra ispirazione viene dalla frequentazione di Turpin con Marcus King, visto che lo strascicato blues Roving Blade gira da quelle parti, o forse ancor più li avvicina ai Gov’t Mule.

Il problema è che, esaurite le presentazioni sul “da dove veniamo”, la band si arena poi nel resto del disco su un “cosa facciamo” che sa davvero troppo di déjà vu per noi vecchi frequentatori del genere. E, più che altro, il duo non risolve il dilemma se essere una semplice hard-blues-band da bassifondi, o una possibile proposta da magniloquente “Style rock di Virgin Radio”, con tutto il dovuto rispetto per la loro programmazione.

Anche la ballatona acustica Must I Go Bound, con tanto di echi di Irish music, o una Dream Seller sommersa da archi sintetizzati, sanno un po’ di vecchio FM Rock, mentre il doveroso “momento alla Zeppelin” di Fortunes’ Fate, ricorda quanto il disco assomigli alla collaborazione di metà anni 90 tra Jimmy Page e David Coverdale. Produce Dave Cobb, ma il suo tocco solitamente al servizio di artisti del nuovo country (Chris Stapleton, Jamey Johnson, Colter Wall,...) si sente poco. In ogni caso se cercate chitarre e riff di un tempo, tra slide-guitars sferraglianti (Blood and Custard, Heels of The Hunt), qualche deviazione pseudo-grunge quasi alla Soundgarden (Ten Thousand More To Ride), e epiche e sofferte ballatone (Skyway Drifter), qui c’è un edibile pane per i vostri denti.

 

Nicola Gervasini

 

venerdì 5 dicembre 2025

Pete Droge

 

Pete Droge

Fade Away Blue

Puzzle Tree Records

°°°1/2

Nel delirio collettivo da super-vendite della scena di Seattle degli anni Novanta, pochi oggi si ricordano anche di un piccolo sotto-fenomeno che con grande fantasia potremmo definire “il cantautorato grunge”. In sé la definizione non dice nulla, se non che ad un certo punto bastava suonare in qualche club di Seattle per essere definito tale, come è successo ad esempio a Terry Lee Hale, ma successivamente il termine “grunge” fu appioppato anche a Jeff Buckley o al canadese Hayden. E soprattutto a Pete Droge, autore che nel 1994 pubblicò un album per l’American Recordings di George Drakoulias (Necktie Second) che girò parecchio tra la fanbase dei Pearl jam, vuoi perché prodotto da Brendan O’Brien e sponsorizzato dallo stesso Mike Mcready, vuoi perché Droge aveva condiviso anni di gavetta con molti eroi di Seattle. Ebbe il suo “warholiano quarto d’ora di notorietà” con il singolo If You Don't Love Me (I'll Kill Myself), che appariva anche nella colonna sonora del film Scemo & Più Scemo, ma finita la festa a Seattle, è rimasto relegato ad una lunga carriera da outsider, in cui nemmeno l’effimera superband dei Thorns nel 2003 (un trio formato con Matthew Sweet e Shawn Mullins) riuscì a riportarlo nel mirino di qualche grande etichetta.

Eppure, lui con pochi mezzi ha continuato a scrivere le sue canzoni, che hanno con tutta evidenza Tom Petty nel motore, e forse anche nella carrozzeria. Per cui non c’è nessun “ritorno” da annunciare per questo Fade Away Blue, quanto però l’opportunità di trovare un vecchio amico in buona forma, e soprattutto impegnato in un personalissimo album la cui importanza è sottolineata anche dalla cura spesa in sede di produzione e registrazione. A testimonianza abbiamo anche la lista di musicisti coinvolti, gente come Greg Leisz, Jay Bellerose, Rusty Anderson, il pianista Lee Pardini (Dawes, Chris Stapleton), nomi di session-men di lusso che dovrebbero risvegliare qualche buon ricordo nei nostri lettori. Le dieci canzoni che compongono l’album sono invece quanto di più intimo e personale abbia mai scritto, fin dall'apertura di You Called Me kid dedicata al da poco scomparso padre, ma anche in Song for Barbara Ann e Skeleton Crew non mancano gli elementi autobiografici. Musicalmente è un album riuscito nella sua semplicità elettro-acustica, nel presentarlo Droge ha citato la filosofia del “Three chords and the truth” e vi ha tenuto fede. Ma è evidentemente la ricetta giusta, perché senza suscitare particolari clamori, questo Fade Away Blue potrebbe diventare il suo disco migliore dopo i primi due, che dalla loro parte in più avevano forse solo il fatto di aver anche scritto una piccola riga della storia della musica americana, mentre qui si scrivono molti paragrafi della sua vita.

 

Nicola Gervasini

lunedì 1 dicembre 2025

BANGLES

 

The Bangles

Watching the Sky: The Bangles Box Set

Chery reed

°°°1/2

Tempo di valorizzazione del catalogo anche in casa Bangles, il quartetto “all-girls” formato da Vicki Peterson, Susanna Hoffs, Debbi Peterson e l’ex Runaways Michael Steele. Watching the Sky: The Bangles Box Set riunisce i primi 3 album della band, con un quarto cd che riprende il loro EP del 1982, qualche singolo come il loro vero e proprio esordio del 1981 (Getting Out of Hand), la poderosa cover di Hazy Shade of Winter di Simon & Garfunkel presente nella colonna sonora del film Less Than Zero, e forse troppi remix o extended version dei singoli più noti.

Occasione buona, comunque, per ricordare una band nata nel contesto del Paisley Underground di Los Angeles, con complice amicizia con gruppi come Dream Syndicate, Rain Parade e Three O'Clock, un’unione di anime e intenti celebrata col supergruppo Rainy Day nel 1983, e ancora, nel 2019, nell’album a quattro mani 3 x 4. Complice l’interesse che una band al femminile suscitò in un decennio così attento all’immagine come gli anni Ottanta (e l’affannosa ricerca delle nuove Go-Go’s), la storia musicale delle Bangles racconta di un gruppo di amiche sinceramente innamorate di una musica fatta di chitarre e rimandi al sixty-sound dei Byrds, che era stata un po’ forzata a diventare una pop-band da video musicali.

Riascoltiamo comunque con piacere All Over the Place del 1984, che si fece apprezzare per la freschezza del suono tutto chitarre e per le due cover, Live, un brano del 1967 dei Merry-Go Round, e il loro primo singolo di un certo richiamo, Going Down to Liverpool, una cover di Katrina and The Waves scritta dal loro chitarrista Kimberly Rew (un ex Soft Boys con Robyn Hitchcock, giusto per confermare la matrice del loro suono). Il best-seller però fu Different Light del 1986, quasi 4 milioni di copie vendute nel mondo grazie a tre singoli ancora oggi super-noti, ma significativamente anche gli unici tre brani non autografi del disco, a parte la solita cover di alto livello per ribadire le loro origini artistiche (in questo caso una pregevole September Gurls dei Big Star).

Ma pareva ovvio che le pur irresistibili Manic Monday (uno “scarto” di Prince), Walk Like An Egyptian (scritta da Liam Sternberg, archivista della Stiff Records), e If She Knew What She Wants (opera di Jules Shear, che ricordiamo poi negli anni Novanta come presentatrice degli Unplugged di MTV), erano scelte che sapevano molto di imposta strategia marketing per far di loro delle star del pop. In particolare, Susanna Hoffs tentò a anche una carriera cinematografica (interpretò una ben poco memorabile commedia balneare diretta da sua madre), che tardò la pubblicazione del più coraggioso Everything, uscito nel 1988 per la prima volta lanciato da due singoli di loro pugno (In Your Room e Eternal Flame), che conquistarono complimenti dalla critica, ma un successo decisamente più contenuto. Fine della storia per quanto riguarda il Box, anche perché il seguito, carriere soliste a parte, vede solo due dignitosi album pubblicati nel 2003 e 2011, e tanti tour nostalgici, tutt’ora in corso.

 

Nicola Gervasini

 

venerdì 28 novembre 2025

Tift Merritt

 

Tift Merritt

Time And Patience/Tambourine (Vinyl Reissue)

One Riot Music

***/****

La scorsa estate Andrew Bird ha suonato alcune date in Italia (una al Castello Sforzesco di Milano) facendosi accompagnare da Tift Merritt, e il poco clamore per l’avvenimento ci conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto poco conosciute siano le cantautrici americane nel nostro paese. Il discorso è sempre lo stesso, la Merritt in Italia da sola potrebbe al massimo riempire i locali, in USA è comunque un nome di primo livello nella scena del cantautorato di stampo country-roots. Per provare a farla riscoprire potrebbe essere utile approfittare di questa operazione della One Riot Music, che ristampa in vinile (potete scegliere tra versione “Gold Flare” o Translucent Red”) Tambourine, il suo secondo album del 2005 che la impose sulla scena (con tanto di nomination ai Grammy Awards per il miglior album country dell’anno), con una nuova raccolta di demo e inediti intitolata Time and Patience. La seconda pubblicazione è sottotitolata “Tambourine Kitchen Recordings”, ed è una raccolta con scaletta molto diversa da quella uscita nel 2005 col titolo Home Is Loud. Le due nuove edizioni sono vendute separatamente, ma assieme fanno capire quanto pesò il lavoro del produttore George Drakoulias sulla versione finale di Tambourine, complice una band di studio che vedeva chitarristi di primo livello come Mike Campbell degli Heartbreakers e Neal Casal, a cui, tra l’altro, è dedicata la ristampa.

Col senno di poi sappiamo che il suono decisamente “tompettyano” del disco, che le portò ovvi paragoni con Stevie Nicks, non era esattamente la sua marca stilistica più personale, che infatti nei dischi successivi si attestò su un cantautorato a metà tra l’eleganza melodica di Carole King e il country evoluto di Emmylou Harris, con un piglio decisamente meno votato al rock e a quelle chitarre che in Tambourine suonavano così forti e vigorose.

Interessante comunque anche ascoltare Time And Patience, con i 6 demo casalinghi che mostrano che brani come Plainest Thing e Still Pretending erano nati con uno spirito decisamente più intimo, mentre la raccolta prevede qualche traccia registrata live (ottima, ad esempio, 4th Street Windowsill con i fiati), e nel finale offre un vero e proprio inedito delle session del disco, la rockeggiante e tirata Last Day I Knew What To Do. Tambourine apparì fin dall’inizio come il risultato del lavoro di un team e non di una singola artista, ma questa nuova raccolta dimostra la validità di queste canzoni anche nella loro versione più nuda e cruda. Il che non toglie meriti ad un disco che a distanza di vent’anni suona ancora benissimo, con quel suono esplosivo e cristallino tipico di qualsiasi produzione di Drakoulias fin dai suoi gloriosi anni 90 (Jayhawks, Black Crowes, Maria McKee,…).

Nicola Gervasini

mercoledì 26 novembre 2025

The Bravo Maestros

 

The Bravo Maestros - Keep It Simple, Stupid!

Vina Records - 2025

Se lavorate nel mondo dell’informatica, l’espressione Keep It Simple, Stupid! che dà il nome al primo album dei Bravo Maestros vi sarà familiare, magari con l’acronimo KISS, ed è una sorta di regola base dello sviluppo software che invita a considerare l’intuitività e la “user friendliness” (come si dice in gergo) dell’interfaccia sviluppata. Come dire, non basta che funzioni, deve anche essere facile da capire e usare. Trasportata in ambito rock non sorprende dunque che la proposta di questi ragazzi si traduca in un rock semplice e diretto, “Rock e cassa dritta a 160 bpm” per dirla con la loro stessa definizione, tipica di un trio chitarra-basso-batteria formato da Matteo Buranello, Davide Diomede e Luca Buranello.

Keep It Simple, Stupid! è una raccolta dii 11 brani che paiono registrati nel 1979, che sanno di Jam e Pop Group nel DNA, ma che non disdegnano di guardare anche al punk anni Novanta dei Green Day se vogliamo, tutto suonato con una attitudine “live” e “garage” che vi sarà facile immaginare. Vi basterà anche solo ascoltare il singolo Jungle Jingle che apre il disco per riservare al disco un passaggio in macchina a tutto volume, perché qui c’è energia, chitarre, e tanto power-pop d’annata, anche finemente scritto, come nel caso di The Love Conspiracy. La voce di Matteo Brunello è adatta al genere, giustamente un po’ stridula ma in grado di cesellare bene le melodie, perché poi alla fine brani anche polemici come Out of the Game o la letteraria When the Black Night Falls (con tanto di citazione di versi in spagnolo di Federico Garcia Lorca) sono innanzitutto dei pezzi che cercano la cantabilità e l’immediatezza.

I testi, come nel pezzo più rock and roll del disco (Pest), sono disincantati e aspri come richiede comunque il genere, anche se c’è spazio per parlare di amori (Lost) e addirittura di citare i classici del rock con una Lucy Sin Diamantes che, su un giro alla London Calling dei Clash, omaggia i Beatles di Lucy in the Sky With Diamonds. Particolarmente interessante il finale di Los Amigos, più o meno quello che potrebbero suonare gli Oasis se fossero stati una band di bassifondi di Londra nel 1966, tra echi di Kinks e primi Pretty Things. 40 minuti scarsi senza sosta, senza magari troppe variazioni sul tema, ma con una ottima padronanza di tutto l’armamentario di quei riff classici che hanno alimentato anche la scena degli anni ‘80 con band come Chesterfield Kings o Fleshtones. Sono forse in ritardo d 40 anni, ma che escano ancora dischi con questo sapore di puro rock da cantina consola non poco.

Voto: 7

Nicola Gervasini

lunedì 17 novembre 2025

Emma Swift

 

Emma Swift

The Resurrection Game

(2025, Tiny Ghost Records)

File Under: Sophisticated Lady

Il rock non è più materiale da bruciare solo in anni giovanili, e così non pare troppo strano che l’australiana Emma Swift pubblichi il suo vero album d’esordio a 44 anni. Intendiamoci, The Resurrection Game non è la sua primissima pubblicazione, perché dopo anni passati in terra natia come speaker radiofonica, già nel 2014 Emma si era recata a Nashville per registrare un Ep omonimo di 6 brani, e nel 2020 aveva dato alle stampe un cover-record interamente dedicato a Bob Dylan (tappa obbligata per molti, ma solitamente a carriera avanzata), genialmente intitolato Blonde On The Tracks. Ma questo è il primo vero album di materiale autografo, e c’era una certa curiosità nel cercare di immaginarsi quale stile avrebbe abbracciato.

E anche qui tutto sommato la particolarità è che il disco pare davvero uno di quei momenti di riflessione e introspezione personale che di solito capitano agli artisti dopo un lungo percorso artistico, quasi che Emma stia ripercorrendo le più comuni fasi creative al contrario, partendo dall’album in cui racconta la fatica di ritrovarsi, senza averci mai cantato prima di quando si era persa. Si tratta davvero di una raccolta di canzoni che parlano di resurrezione, dalla depressione e da una mancanza di fiducia in sé stessa. Il compagno Robyn Htchcock è stato giustamente tenuto fuori da questo percorso così personale, anche perché lo stile da sontuoso chamber-folk di questi brani non è certo nelle sue corde, ma va notato che il merchandising collegato all’album e al tour mantiene il loro gattone grigio Ringo come icona e testimonial, lo stesso felino che già abbiamo visto nelle recenti copertine dei dischi di Robyn.

Registrato con un quartetto di musicisti che offre una base asciutta e priva di qualsiasi virtuosismo (Juan Solorzano alla chitarra, Spencer Cullum alla pedal steel e Dominic Billet alle percussioni), The Resurrection Game poggia tutto il suo impianto sonoro sulle orchestrazioni pensate dal tastierista e produttore Jordan Lehning, figlio d’arte (suo padre Kyle Lehning è un vecchio produttore e session man della scena country di Nashville, lo trovate nei dischi migliori di Waylon Jennings degli anni Settanta ad esempio) che ha condiviso con Emma la passione per l’arte dell’arrangiamento d’archi in puro stile Lee Hazlewood o Harry Nilsson, anche se lo spleen oscuro che permea queste canzoni potrebbe anche far tirare in ballo Scott Walker.

Ne esce un album affascinante e ben scritto, con brani davvero notevoli come Nothing and Forever, No Happy Endings e How To be Small, ma forse ancora troppo monolitico nel proprio concept produttivo, e paradossalmente aveva dimostrato più versatilità alle prese con il mondo di Dylan, che con il suo personale. Ma se amate i dischi di Angel Olsen, per dire un nome in qualche modo assimilabile, o ancor più avete amato l’album Ramona di Grace Cummings lo scorso anno, potrete trovare in questo mondo sofferto e sognante il vostro terreno naturale. Resta la sensazione che possa sviluppare ancora meglio certe idee e intuizioni da autrice per nulla alle prime armi, per cui per ora diamole la fiducia che comunque merita.

 

Nicola Gervasini

venerdì 14 novembre 2025

Cangolla

 Cangolla – Iter

Vina Records - 2025



Si dice spesso che il rock abbia perso la capacità di palare del contemporaneo, e che la maggior parte degli artisti si sono chiusi in uno sterile continuo racconto di sé stessi per non dover affrontare una realtà ormai troppo terrificante anche per essere raccontata in una canzone. Eppure nei bassifondi ancora si muovono artisti che provano a veicolare le problematiche più grandi in versi, e tra questi ci sembra il caso di segnalare i Cangolla, un progetto creato anni fa da Emanuele Calì che si è trasformato in vera propria band con il trasferimento a Berlino. Iter è un disco che nasce innanzitutto dalla rielaborazione dei testi presenti in una graphic novel, Viaticus, scritta da Calì con il disegnatore Giacomo Della Maria, ed è stato registrato nel corso di due anni di lavoro nella città tedesca, assorbendone tutte le atmosfere e sonorità.

Registrato da una formazione a 4 che comprende anche la chitarra di Marco Papa e la sezione ritmica di Yerko Ursic e Felipe Melo, l’album offre nove brani che musicalmente spaziano nella storia del rock berlinese, con testi principalmente in inglese e un suono chitarristico saldamente ancorato ad un mondo post-rock che può ricordare, ad esempio, i dischi anni 80 dei Fall. L’apertura del disco con Morning Star e Iter tracciano infatti subito la linea stilistica, con tempi sincopati, chitarre acide, e il tono declamatorio di Calì mentre affronta testi che parlano di viaggi esoterici o sofferte dichiarazioni di resistenza immerse nei riverberi delle due chitarre

In Erdelose Pflanze inglese e tedesco si mischiano in una lenta e catatonica ballata per evocare un legame con la terra distrutto dall’inquinamento moderno, mentre le immagini marine di Frantic Movement ci immergono in un crescendo di chitarre distorte e quasi al limite dello stoner-rock. Calm Waves invece gioca ancora una volta con le lingue, inserendo stavolta termini francesi per descrivere uno stato mentale che passa dalla calma alla tensione con grande facilità, mentre la veemente The Puppeteer interrompe il clima ipnotico dell’album per raccontare di burattinaie e manipolazioni (il testo è stato scritto dalla poetessa Maria Grazia Tonetto). Con Pupilla Digitale l’album continua il suo viaggio europeo approdando all’italiano, in un brano che ancora una volta continua l’esplosione di rabbia del precedente per descrivere l’incubo tecnologico dei tempi moderni. Il clima onirico della prima parte dell’album torna in Zenobius I, 16, un viaggio nel tempo, con persino citazioni in greco antico, che introduce al tour de force linguistico della conclusiva Dicotomias, dove gli opposti che si confrontano nel testo parlano due lingue completamente diverse (spagnolo nella prima parte, siciliano nel finale). Se musicalmente il disco è ancorato a stili più che collaudati nel passato, l’album piace soprattutto per la capacità di Calì di trovare la lingua più adatta per esprimere la sensazione del brano, sia essa, di rabbia o di disagio


VOTO 7

Nicola Gervasini. 


lunedì 10 novembre 2025

Joan Shelley

 Joan Shelley

Real Warmth

(2025, No Quarter)

File Under: “holding my dear friends and drinking wine”


Se c’è un aspetto che rende sempre interessante seguire e scrivere di musica, è quello di seguire un artista fin dagli esordi, raccontandone quindi nel corso degli anni le evoluzioni e la crescita artistica in diretta.  Ad esempio, seguo da tempo le gesta di Joan Shelley, folksinger americana attiva dal 2010, perché, anche nei suoi esordi da indipendente, ha sempre dimostrato di poter dare qualcosa in più ad un genere spesso relegato nella propria nicchia di utenza.

Quello di trasportare la grammatica del brit-folk classico anche oltreoceano, immergendola nei sapori del folk e del country americano, è una operazione che non nasce certo con lei, ma sicuramente il suo album Like the River Loves the Sea del 2019, arrivato dopo che Jeff Tweedy l’aveva sponsorizzata e aiutata nell’opera precedente, è stata una milestone fondamentale in questo processo, che in questi anni, tra l’altro, ha parlato molto spesso al femminile. Dopo la conferma di The Spur del 2022, arriva oggi questo Real Warmth a consacrarla tra i nomi più importanti (e ormai sono tanti) del cantautorato femminile odierno. 

Le registrazioni del nuovo disco sono tornate in patria, in Michigan, dopo le trasferte (persino islandesii) dei precedenti lavori, dove con il compagno e chitarrista Nathan Salsburg, e la vicinanza della figlia, ha trovato nuova ispirazione. E la collaborazione di amici e colleghi a noi ben noti come Doug Paisley o Ben Whiteley (bassista dei The Weather Station, anche produttore dell’album) testimonia quanto il suo nome sia ormai considerato tutt’altro che quello di una outsider.

Dal punto di vista compativo questi nuovi 13 brani segnano poi un ulteriore ampliamento del suo spettro di riferimenti, che tornano ad essere più statunitensi, con l’aggiunta di qualche sapore jazz (sentite il sax di Karen Ng in On The Gold and The Silver) o country (Who Do You Want Checking in on You). Insomma, la lezione di Joni Mitchell resta sempre dietro l’angolo per tutte queste nuove regine della canzone elettro-acustica, ma la Shelley, come altre colleghe, ha ben chiaro come far valere la propria personalità, anche nei testi sempre molto personali e originali, che sanno essere poetici e gentili, ma anche crudi quando esprime la propria veemente protesta verso un mondo difficile da comprendere (The Orchard). 

Ma è un caso, perché ovunque spira aria di famiglia e idea di comunità (Everybody, ma anche nell’iniziale e programmatica Here in The High and Low), ed è forse proprio questo confronto tra la propria dimensione casalinga, così pacifica e piena d’amore, e l’orrore che regna nel mondo, che ammanta il disco di una inquietudine evidente per un futuro tutt’altro che chiaro (Heaven Knows, Give It Up, It’s Too Much). Sono canzoni da scoprire una ad una, e da ascoltare come al solito nel vostro silenzio, se avete la fortuna di trovarne ancora uno in questo volgare chiasso in cui un disco sussurrato come Real Warmth faticherà a farsi sentire.

Nicola Gervasini


lunedì 3 novembre 2025

Jake Winstrom

 

Jake Winstrom

RAZZMATAZZ!

(2025, Jake Winstrom)

File Under: Canceling the noise

Jake Winstrom viene dal Tennessee, e, nonostante l’aria da eterno ragazzino, è già giunto al terzo album, ma Il suo nome era già circolato nel lontano 2008, quando a capo della band dei Tenderhooks, fece una gran bella impressione al Bonnaroo Festival, anche se il loro unico album Vidalia non fu granché segnalato e l’esperienza finì presto. Rimessosi “on the road” nel 2018 con l’esordio Scared Away The Song e il seguito del 2020 intitolato Circles, l’artista si è preso una nuova lunga pausa prima di pubblicare questo RAZZMATAZZ!, e l’impressione è che forse potrebbe essere la volta buona di farsi notare. Proposta non facile la sua, perché se da una parte predilige cimentarsi in bani di soffice chamber-pop acustico che guardano a Paul Simon come schema classico, passando però attraverso un piglio più “indie” alla Elilott Smith (in Can I Get A Ride, ma anche nell’apertura di Exhausted, lo ricorda molto), dall’altra la sua formazione di rockettaro affiora ogni tanto quando chiama a raccolta il batterista Matt Honkonen a dare vigore alle sue canzoni (sentite ad esempio la ruvida e quasi “blue-collar” One More For The Moon).

Di certo è la sua voce molto particolare, pulita e melodica, sospesa tra la teatralità di un Rufus Wainwright e una tonalità che mi ricorda, per chi se li rammenta, cantautori come Pierce Pettis o Tom McRae, o volendo andare ancora più indietro, citerei anche Marshall Crenshaw. D’altronde nella foto promozionale allegata al comunicato stampa lo vediamo in un negozio di dischi con il cd di Grace di Jeff Buckley sullo sfondo a fare da santino, ma volendo potremmo ritenere tali anche i visibili bestsellers dei Fleetwood Mac e dei Supertramp, visto che la vena melodica di certo non gli manca.

Il disco è scritto e prodotto con il collaboratore Jason Binnick, multistrumentista di solito attivo nel mondo delle colone sonore cinematografiche, e con lui Winstrom ha saputo maneggiare i ferri del mestiere sia quando si getta nell’indie-folk intimista di This Blue Note, sia quando fa sfogare la sua Rickenbacker nel Jingle-Jangle rock di Don’t Make the Rules, o quando prova a riempire gli spazi con le tante chitarre elettriche di Jaws Of Life. In Freelancing on a Pheromone richiama quasi il cantautorato rock di Pete Droge degli anni 90, ma in ogni caso è nelle ballate acustiche come Molotov o Canceling The Noise che pare dare il meglio, ed è così che infatti la dolce Lucys Luck chiude un album molto piacevole che aggiunge un nuovo nome da ricordare alla folta (ma sempre apprezzata nei nostri lidi) schiera di cantautori americani.

 

Nicola Gervasini

Neko Case

  Neko Case Neon Grey Midnight Green Anti-, 2025 File Under: Musician's life Ammetto subito in apertura di recensione di avere u...