Neko
Case
Neon
Grey Midnight Green
Anti-, 2025
File Under: Musician's life
Ammetto subito in apertura di recensione di avere un certo
rapporto conflittuale con la musica, e in generale la carriera, di Neko Case.
Cantautrice di matrice country all’esordio (ma prima c’erano state le esperienze
con le punk-band Cub e Meow), la Case si è via via allontanata dalla grammatica
classicista esibita nel 1997 in The Virginian, arrivando a produrre
dischi davvero belli, quanto anche stimolanti dal punto di vista delle
soluzioni nuove, come Blacklisted
o Fox Confessor Brings the Flood, ma dal controverso Middle
Cyclone del 2009 (n verità il suo album più venduto) in poi ha secondo me
faticato a trovare il giusto equilibrio tra classico e moderno. Se la parallela
carriera con la band dei New Pornographers in qualche modo doveva servire a
darle sfogo in ambiti più indie-pop (e nel campo la sigla ha prodotto album interessantissimi),
i suoi album solisti The Worse Things Get, the Harder I Fight, the Harder
I Fight, the More I Love You del 2013 e Hell-on del 2018
avevano lasciato la sensazione di grandi idee confuse.
Il fatto che poi abbia pubblicato poi poco a suo nome
(questo Neon Grey Midnight Green è solo l’ottavo album in quasi trent’anni
di carriera, non comprendendo i live e la retrospettiva di Wild Creatures
pubblicata nel 2022), fa capire come l’artista non abbia la sua storia solista come
interesse principale. In ogni caso Neon Grey Midnight Green è sicuramente un
buon disco, ed appare subito più a fuoco dei suoi predecessori, pur confermando
sempre quelle sbavature che lasciano perplessi.
Che possono essere esprimenti vocali senza troppo senso come Tomboy
Gold, ma anche ottimi brani come Wreck, un mid-tempo roots in stile
Kathleen Edwards, che viene però sommerso da fiati e archi non del tutto necessari.
D’altronde la lista di session-men
coinvolti conta più di 30 musicisti, con qualche nome importante come Steve
Berlin, John Convertino o Sebastian Steinberg dei mai dimenticati
Soul Coughing, numeri grossi per un disco che infatti la Case ha definito “una lettera
d’amore per i musicisti e la loro vita”.
La sensazione di grande riunione di famiglia regna un po’
sovrana, come se su ogni brano in tanti, a volte troppi, abbiano voluto lasciare
per forza un segno, appesantendo un disco che, se leggermente prosciugato, avrebbe
avuto tutti i numeri (leggasi: le canzoni giuste) per essere visto come un suo grande
ritorno. In ogni caso anche Louise, Rusty Mountain e la stessa
title-track entrano di diritto nel novero della sua miglior produzione, e questa
è la buona notizia, perché comunque recuperano una essenzialità nella scrittura
che si era un po’ persa nella voglia di strabiliare a tutti i costi sciorinata
negli ultimi anni. Accontentiamoci così quindi, Neon Grey Midnight Green
è un album consigliabile nonostante le sue esagerazioni, e ci restituisce in
buona forma una autrice su cui avevamo davvero puntato molto ormai vent’ani fa.
Nicola Gervasini