mercoledì 1 ottobre 2025

Swans

 

Swans – Birthing

2025 - Mute/Young God

115 minuti, solo 7 brani, quasi tutti con minutaggi al di sopra dei dieci minuti. Affrontare un disco degli Swans è un atto di coraggio, o, se siete degli adepti, di pura fedeltà. Con una carriera ormai lunghissima sotto varie spoglie, il leader Michael Gira ha ormai da qualche anno preso questa china nei tempi delle canzoni, quasi in voluta controtendenza con un mondo discografico che ci sta riportando alle “2 minute songs” e al singolo come formato standard. Sarà che Michel Gira noi ormai ce lo immaginammo come una sorta di guru spirituale che vive al di sopra della realtà, e perciò al riparo da qualsiasi tipo di idea di convenienza, ma forse poi non è troppo così. Perché poi, come era già successo negli ottimi The Glowing Man del 2016 o Leaving Meaning del 2019 (e forse in modalità più confusa nel più recente The Beggar del 2023), in tutto questo tempo che si prende (o ci ruba, a seconda di come la vogliate vedere), gli Swans non sono affatto avari di soluzioni musicali più che accessibili, che si diversificano anche nel corso dello stesso brano, e che non hanno nulla a che vedere con la complessità delle strutture del prog (i minutaggi porterebbero a pensarlo), quanto ancor più con un bel mix di soluzioni più legate al mondo alternativo degli anni ottanta.

The Healers apre l’album con dieci minuti di atmosfere da musica gotica e spaventa un po’, e se non lo conoscessimo già, probabilmente ci chiederemmo ”ma davvero intende fare 115 minuti così?”. Ma lo sappiamo, la risposta è no, visto che lo stesso brano si sviluppa in un declamatorio tour de force con momenti di elettricità noise. E struttura simile ha I Am a Tower, che si tramuta in una sorta di sua versione riveduta e corretta di Heroes di David Bowie (la canzone non è quella, ma ritmo e chitarre si), o dell’etereo canto di rinascita di Birthing, con il suo finale di minacciosi colpi di batteria. L’unico brano con durata diciamo “normale” (quasi sette minuti) sta nel mezzo, quasi a separare le acque di un mare di note con un brano che sa di new wave anni 80, tra voci e mille tastiere (e soprattutto, se leggete i credits, scoprirete che quasi tutti e sette i membri della band sono impegnati anche nella produzione di loops, oltre che a suonare i rispettivi strumenti).

Il disco riprende poi con i toni da apocalisse di Guardian Spirit, i cambi di ritmo di The Merge (che si chiude con una sognante ballad acustica), e con la finale (Rope) Away, divisa in due sezioni distinte.  Lo schema dei brani, infatti, è sempre quello di una lunga inquietante intro, con uno sviluppo a canzone che rassicura l’ascoltatore. Gioco che funziona, perché nonostante la loro prolissità, i pezzi riescono a tenere alta la tensione e quel senso di “sentiamo che succede ora”. Difficile dire poi che ruolo abbia all’interno della sua sterminata discografia, considerando anche altri progetti come, ad esempio, gli Angels Of Light, ma sicuramente Birthing vede una band ormai consolidata (da tempo ormai il fulcro sono le chitarre di Kristof Hahn e Norman Westberg, ma vanno anche notati gli interventi del polistrumentista Larry Mullins e del batterista Phil Puleo), che sempre più registra album come fossero delle lunghe esibizioni live libere da ogni schema.

 

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

martedì 30 settembre 2025

ALEX G

 Alex G – Headlights

RCA, 2025

L’americano Alexander Giannascoli, in arte Alex G, potremmo considerarlo uno dei migliori rappresentanti

della “Bandcamp Generation”, cioè quegli artisti che hanno beneficiato delle libertà auto-imprenditoriale

offerta della nota piattaforma di streaming, per farsi notare e passare quindi ad una carriera sotto la

protezione di una etichetta discografica. Ben 4 album pubblicati in maniera indipendente tra il 2011 e il

2012 hanno infatti dato vita ad una carriera che oggi arriva, con questo Headlights, al sesto capitolo

ufficiale (e quindi decimo, comprendendo anche i 4 album di cui sopra).

Ma qui possiamo dire che si apre un nuovo capitolo, perché da Label importanti, ma comunque da

sottobosco, come la Orchid Tapes o la Domino, si passa ad una major come la RCA, e in questi casi la

domanda tipica del fan è sempre la stessa, chiedersi se questo abbia cambiato qualcosa nella sua qualità. La

risposta è implicitamente data dal fatto che Alex G non cambia squadra e le modalità di produzione rispetto

al precedente album God Save the Animals (2022), confermando alla co-produzione Jacob Portrait, bassista

della Unknown Mortal Orchestra, e suonando come suo solito praticamente tutti gli strumenti (sezione

d’archi a parte), lasciando spazio alla sua storica band d’accompagnamento nei tour (Samuel Acchione,

John Heywood e Tom Kelly), solo nell’ultima traccia (Logan Hotel), quasi a voler ribadire la piena continuità

con la sua storia e il suo giro di amicizie e collaborazioni.

In ogni caso il salto di qualità in termini di distribuzione, e la possibilità di lavorare in un vero studio di

registrazione, non ha cambiato la ricetta tipica delle sue canzoni, sempre in bilico tra folk classico e un

atteggiamento indie che guarda a Elliott Smith nello stile, e magari anche a personaggi meno noti che tanto

hanno fatto per la scena indie di 20 anni fa come Langhorne Slim o M.Ward. Manca forse nel menu un

piatto atipico, un qualcosa che si discosti veramente dalla sua collaudata routine (oggi diremmo qualcosa

che sia fuori dalla sua “comfort zone”), confermata anche negli abituali testi abbastanza onirici e visionari di

brani come Oranges, Afterlife o June Guitar, quasi che, ora che ormai ha attirato l’attenzione, Alex G non

vuole sbagliare e non si prende troppi rischi. Ne esce uno album discreto, con brani sicuramente

accattivanti come Real Thing o Louisiana, ma che mi sa che ancora lo terrà un po’ nelle retrovie di una

scena odierna troppo affollata per impressionarsi troppo per questi brani.

VOTO: 6,5

Nicola Gervasini

lunedì 29 settembre 2025

Jeff Buckley - Nightmares by the sea

 

Chissà quante volte una donna si è chiesta cosa diavolo passasse nella testa di Jeff Buckley, probabilmente abbastanza perché lui provasse per una volta a mettersi nei loro panni nell’enigmatico testo di Nightmares By The Sea. Testo scritto infatti dal punto di una Lei che cerca di immaginare “i pensieri in bottiglia dei giovani uomini arrabbiati” e ne viene affascinata, quanto anche intimorita. Un testo in sé oscuro e romantico al tempo stesso, persino ironico quando lei definisce il proprio amato “rube”, uno slang che in italiano tradurremmo liberamente come “burino”. Il brano è presente sia nella versione prodotta da Verlaine, sia nel mix originale nel secondo CD, e se la prima ha tutto il sapore di chitarre oscure e minacciose del suo produttore, la seconda, con il suo suono più lo-fi è più “live” e diretto, assume un tono decisamente meno teso. In ogni caso è sicuramente uno dei brani del disco che mantiene un taglio e un “mood” più in continuità con quello di Grace, con una interpretazione vocale molto “di pancia” e poco virtuosistica che lo rende uno dei brani che preferisco della raccolta.

 

Nicola Gervasini


pubblicata su Kalporz  https://www.kalporz.com/2025/08/my-sweetheart-the-drunk-lalbum-postumo-di-jeff-buckley/

lunedì 15 settembre 2025

Andrea Van Cleef

 

Andrea Van Cleef

Greetings From Slaughter Creek

(2025, Rivertale Production)

File Under: Live in USA

 

Poco più di un anno fa vi segnalavamo con convinzione l’album Horse Latitudes di Andrea Van Cleef come il punto di arrivo di una maturazione dell’artista bresciano, che ormai da anni ospitiamo sulle nostre pagine con le sue uscite. Credo che ad un anno di distanza Andrea possa essere soddisfatto delle tante reazioni positive suscitate da un disco che unisce tradizione americana e quella tendenza al suono dark che spesso caratterizza la visione italiana della musica d’oltreoceano, tanto che ora Van Cleef si permette di pubblicare un disco dal vivo, oggetto divenuto più raro nel moderno mondo discografico rispetto ad un tempo (ci sarebbe da fare un lungo ragionamento al proposito, ma sarà per un’altra occasione).

Ma l’opportunità di immortalare una speciale serata di un breve tour americano, scaturito proprio dal riconoscimento anche internazionale ricevuto dal disco, pare troppo ghiotta. Soprattutto perché Andrea ha avuto modo di ritrovare alcuni collaboratori dei suoi precedenti dischi, primo fra tutti il produttore Rick Del Castillo, che già aveva collaborato a Horse Latitudes, anche mettendo a disposizione i propri studi di registrazione in Texas, ma anche la cantautrice Patricia Vonne (sorella del regista Robert Rodriguez), che già aveva duettato con Van Cleef nel suo album Tropic From Nowhere.

L’esibizione è avvenuta negli stessi studi di Del Castillo, gli Smilin’ Castle Studio di Kyle, e ha coinvolto qualche session man reclutato in loco come Mike Zeoli (batterista dei Chingòn, in cui suona lo stesso Rodriquez), Stefano Intelisano (fisarmonicista già incontrato nei dischi di David Grissom e Fabrizio Poggi), e il chitarrista Matthew Smith, che affianca Simon Grazioli, suo abituale collaboratore. Il disco ha quindi il clima da esibizione da piccolo club, con un evidente dialogo intimo ed emotivo tra musicisti e pubblico in sala, e soprattutto finisce ad essere quasi una raccolta di versioni acustiche (quasi un “Unplugged” di altri tempi quindi) delle canzoni migliori dei suoi album.

The Day You Tried To Kill Me ad esempio viene dal lontano Sundog del 2012, mentre da Tropic of Nowhere del 2018 si ripescano Wrong Side of a Gun, già in origine cantata con Patricia Vonne, e Friday, e da Safari Station del 2021 arriva You Can’t Hide Your Love Away. Per il resto è la scaletta presa da Horse Latitudes a comporre il grosso dello show, che si chiude però con un brano che potremmo anche prendere a simbolo di stile e ispirazione di Van Cleef come il classico Big River di Johnny Cash. L’esibizione è ispirata e ben registrata, e sicuramente valeva la pena pubblicarla, visto che suonare in un bel posto, con il pubblico giusto, e soprattutto con un bel suono da poter registrare, pare essere diventato un lusso per troppi artisti indipendenti.

 

Nicola Gervasini

 

venerdì 5 settembre 2025

Federico Sirianni

 

Federico Sirianni

La Promessa della Felicità

(Squilibri, 2025)

File Under: “Mentre guardiamo la Luna”

E’ ormai un veterano della canzone d’autore di scuola genovese Federico Sirianni, fin da quando fu premiato al Premio Tenco nel 1993 come miglior esordiente, e con una carriera solista portata avanti parallelamente ad altri progetti (Molotov Orchestra). La title-track di questo La Promessa della Felicità, che mette in musica una poesia di Max Ponte, era già finita nella cinquina finale del Tenco dello scorso anno, e ora esce finalmente un album frutto di una stretta e già collaudata collaborazione con il violinista Michele Gazich. Album molto curato sia nella confezione (con i bei dipinti di Romina di Forti a commento), che nella produzione (ottimi i suoni di archi e chitarre acustiche), La Promessa della Felicità è un sofferto viaggio di dieci brani nei mali della modernità, letti attraverso pensieri, sentimenti, storie e riferimenti storici (Okinawa) sempre molto liricamente elaborati. Sirianni è autore molto attento alle parole infatti, spesso abbondanti di immagini e attenzione ai particolari, uno stile letterario che Gazich riesce bene a incanalare in arrangiamenti eleganti. Altro riferimento artistico evidente resta quello di Leonard Cohen, e non solo perché nella iniziale Nel Fuoco suona il suo batterista Rafa Gayol, ma per la sua capacità di farsi occhio critico e coinvolto sui mali del mondo (Dalla Finestra). Tanti i collaboratori coinvolti (da citare tra i tanti le onnipresenti Veronica Perego al contrabbasso e Valeria Quarta alla voce) in un disco fieramente e intensamente folk (L’Ora Bella), che cerca comunque di aprire le melodie anche ad altri orizzonti (gli echi orientali di Il Vento Di Domani). Imperdibile per chi segue la canzone d’autore nostrana.

Nicola Gervasini

sabato 30 agosto 2025

MATTHEW DUNN

 

Matthew Dunn

Love Raiders

Cosmic Range Records

 

Ogni era discografica ha le sue esigenze, e se negli anni novanta l‘entusiasmo per il formato CD ci ha portato moltissimi album che duravano anche più di un’ora, senza essere per questo considerati doppi, oggi in era Streaming le durate medie si sono drasticamente ridotte, tanto da non capire più troppo la differenza tra album ed EP. E poi ci sono quelli che non ci badano affatto, come Matthew Dunn, artista canadese che fino a pochi anni fa si firmava mettendo un “DOC” tra nome e cognome (e sarebbe curioso sapere come mai ha deciso di abbandonare il soprannome), e che vanta ormai più di vent’anni di fiera carriera discografica indipendente.

Di lui si era sentito parlare soprattutto nel 2023 con l’album Fantastic Light, che si era guadagnato ottime recensioni, e che riuniva una serie di collaboratori che a sorpresa scompaiono in questo torrenziale Love Raiders, eccezion fatta per il Dinosaur Jr. J Mascis, che qui porta in dote la sua abituale elettricità nella rauca Tally Ho!. Suonato e co-prodotto con l’amico Asher Gould-Murtagh, l’album è un classico doppio da 22 canzoni, in cui i due buttano nel calderone influenze di ogni tipo. Dotato di una voce portata a giocare su tonalità alte, con qualche sofferta inflessione un po’ alla Jesse Malin, Dunn suona quasi tutto, giocando anche non poco con le tastiere e sintetizzatori di vecchia data (It’s Over), e comunque non perdendo le proprie radici da vero songwriter di scuola canadese (le trame acustiche di Flower Maiden, uno dei brani più significativi della raccolta, non dispiacerebbero neanche a Bruce Cockburn).

Ma l’artista ha puntato soprattutto sulla varietà, giocando con il rock sia alternativo che radiofonico, ponendo subito in seconda posizione di scaletta la lunga e acida cavalcata chitarristica alla Neil Young  di Algonquin, passando per qualche trama blues (Hideway), echi di jingle-jangle byrdsiani (Sad Masquerade), e giocando anche molto con un certo pop di Costelliana memoria (Forbidden Life). Insomma c’è tanto, inutile dire “a volte troppo”, visto che avendo spazio a volontà da riempire, si permette qualche passaggio strumentale un po’ fine a sé stesso (Rain Rain Rain, che era anche il titolo del suo penultimo album), dando la sensazione di aver approfittato dell’attenzione suscitata dal suo disco precedente per svuotare un po’ i cassetti di tante idee rimaste irrealizzate e accantonate nel tempo. Resta comunque un tour de force affascinante e neanche troppo stancante, grazie alla pluralità di toni e generi, anche se resta quella patina da produzione casalinga che forse penalizza un po’ il risultato finale.

Nicola Gervasini

lunedì 11 agosto 2025

Matteo Nativo

 Matteo Nativo

Orione

RadiciMusic Records

File Under: Blues per un matrimonio

Matteo Nativo è un virtuoso chitarrista toscano attivo da più di 30 anni, ma che curiosamente solo a 52 anni arriva a pubblicare il suo album d’esordio. Orione è raccolta di sette brani inediti, spesso scritti con la collaborazione di Michele Mingrone, e due cover di Tom Waits che in qualche modo targano fin da subito la sua proposta, basata su un impianto blues, ma con un approccio decisamente più cantautoriale. E oltretutto il suo stile chitarristico, basato spesso sulla tecnica del fingerpicking (si dice allievo di Leo Kottke e si sente), pare essere lontano dall’abituale mondo musicale di Waits. Le due cover sono in verità due traduzioni in italiano, operazione sempre rischiosa ma direi più che riuscita, sia quando le parole sono le sue (una ottima Clap Hands), sia quando invece la traduzione arriva da un'altra valida cantautrice toscana come Silvia Conti (che poi offre i cori in tre brani del disco). I brani inediti variano molto sui temi, partendo con toni più che personali raccontando prima la dolorosa separazione dalla moglie (Che Ora è?), ma successivamente anche una dedica alla stessa in occasione di una diagnosi di una malattia (Ovunque tu sarai), in una sorta di viaggio a ritroso nel tempo nella storia del loro amore. Altrove si parla di guerra (Oradur), rinascite personali (Ultima stella del Mattino) e si piangono amici scomparsi (Orione), con toni da blues sofferto, ma con l’eccezione della scanzonata e divertente Fantasma, e del fugace amore con una improvvisata fan dopo un concerto di Un’altra Come Te. Suonato in trio con Fabrizio Morganti e Lorenzo Forti alla sezione ritmica e qualche ospite a corredo, il disco è prodotto con l’esperto Gianfilippo Boni.

Nicola Gervasini

martedì 5 agosto 2025

Piero Ciampi

 

Piero Ciampi

Siamo in Cattive Acque

(Squilibri, 2025)

File Under: Ritrovamenti

Non basterebbero dieci pagine per raccontare e descrivere l’opera di Piero Ciampi, se già non la conoscete, ma è ovvio che prima ancora di introdurvi a questa bellissima operazione discografica di Squlibri, vi rimando all’ascolto perlomeno dei suoi 4 album pubblicati tra il 1963 e 1976. Pochi, per un autore che in vita ha avuto tanti estimatori ma pochi successi (e spesso grazie ad interpretazioni altrui, soprattutto di vocalist femminili come, tra le altre, Gigliola Cinquetti, Carmen Villani o Dalida), ma il ritrovamento di un suo appunto per un ipotetico disco intitolato Siamo in Cattive Acque, ha portato a riunire in un doppio CD 21 versioni alternative di brani già noti, e ben 11 inediti assoluti. CD saggiamente divisi tra versioni comunque fatte e finite, e demo e abbozzi teoricamente non pubblicabili (definiti “Le Incompiute”), ma di sicuro valore storico. Più che altro perché molti brani come Sul Porto di Livorno o Confiteor tracciano una storica genesi di quello che sarà il bellissimo album Ho Scoperto che Esisto Anch’Io pubblicato da Nada nel 1973, interamente scritto per lei (già nei demo cantati da lui, come Sono Seconda, Ciampi parla al femminile infatti). La confezione ha uno splendido libretto dove ogni brano viene descritto minuziosamente, una ricerca curata da Enrico De Angelis davvero encomiabile. Piero Ciampi, morto in solitudine nel 1980, resta un autore non facile, la cui memoria è tenuta viva più dagli addetti ai lavori che da un pubblico che certo oggi faticherebbe ad apprezzare molte di queste canzoni, e forse per questo Siamo in Cattive Acque è  ancora più importante da scoprire.

Nicola Gervasini

giovedì 31 luglio 2025

TY SEGALL

 

Ty Segall – Possession

2025 – Drag City

Prima o poi la tentazione di fare un disco “normale” viene a tutti, anche ai più sregolati e imprevedibili artisti. E perché no in fondo, Picasso d’altronde sapeva benissimo dipingere in stile figurativo, e nel cinema persino un autore riconoscibilissimo come David Lynch ha fatto Una storia Vera, film bellissimo, ma che usciva dal suo percorso stilistico, e che probabilmente avrebbe potuto girare anche un altro regista. E così il genio e sregolatezza di Ty Segall, pur non smentendo la sua proverbiale tendenza ad una mole produttiva difficile da seguire con attenzione (Possession arriva dopo che nel 2024 aveva già prodotto due album), per una volta prova a buttare anima e talento in dieci brani che per qualcuno potrebbero sembrare addirittura (“che orrore!”) “mainstream”, o semplicemente ancora legati ad una vecchia idea di “classic rock” che ignora (ma non del tutto) la sua abituale verve da eroe indie.

Ho sempre pensato che, in qualche modo, queste opere siano una sorta di risposta a qualche detrattore che avanza il sospetto che tanta sregolata originalità non sia altro che un modo per mascherare l’incapacità di fare le cose come le fanno tutti, e credo che Segall abbia registrato questi pezzi un po’ con questo pensiero, quasi anche a voler fieramente dimostrare che quello di rimanere un personaggio da undeground carbonaro, per appassionati di weird-folk, non è un condanna, quanto una sua precisa scelta. Quello che magari non si aspettava è che Possession sta paradossalmente piacendo a tutti, e che il fatto di aver fatto un album che può benissimo funzionare anche come musica da viaggio in macchina (secondo “orrore!”) non solo non gli sta facendo perdere l’affezionata fan-base, ma sta conquistando qualche adepto fino ad oggi scettico nei suoi confronti.

Possession di fatto è un bel disco, con chitarre e fiati in gran spolvero, ma soprattutto un largo uso di cori, il che fin dall’iniziale Shoplifter fa ricordare davvero le migliori opere di Todd Rundgren, sospese tra perizia tecnica da one-man band di studio, piglio da rocker, e melodie vocali molto elaborate e spesso decisamente radiofoniche e pop. Ci sono variazioni sul tema (gli archi di Buildings, l’aura da prog quasi alla Steven Wilson di Hotel), ma fondamentalmente Possession è un disco che, fin dalla title-track scritta dal collaboratore Matt Yoka, (bello anche il video), si fa apprezzare per avere dalla sua parte un pugno di buonissime canzoni, da Skirts of Heaven con le sue chitarre in evidenza, alle conclusive Alive e Another California Song, fino al primo singolo Fantastic Tomb. Sono certo che Segall tornerà a offrire produzioni fuori dagli schemi, ma anche questa sua versione “public-friendly” non ci dispiace affatto.

Nicola Gervasini

lunedì 21 luglio 2025

Ivan Francesco Ballerini

 

 

Ivan Francesco Ballerini

La guerra è finita

RadiciMusic Records

File Under:  War is not the answer

 

Impossibile rimanere impassibili davanti a questi tempi di guerra nel mondo, soprattutto se si è un sensibile cantautore, ma le canzoni di La guerra è finita, quarto album di Ivan Francesco Ballerini sono nate anche prima degli scenari più noti nei nostri giorni, quasi a dire che la speranza di pace è qualcosa che non ha bisogno di una guerra per sentire il bisogno di esprimersi. Autore toscano di impostazione classicamente folk, Ballerini ha iniziato a pubblicare album solo dal 2019 con l’esordio di Cavallo Pazzo, e si presenta ora con quello che potremmo quasi definire un concept album, sebbene il filo conduttore che lega i brani sia il tema e non i protagonisti. Che sono il soldato che al fronte scrive all’amata della title-track (con la bella voce di Lisa Buralli a supporto), oppure la studentessa che spera di poter finire gli studi nonostante i bombardamenti (Tra Bombe e Distruzione). Altrove Ballerini si ispira alla letteratura (Linea d’Ombra ovviamente si rifà a Joseph Conrad, mentre Vestire di Parole ad un racconto di Primo Levi), o semplicemente parla di amore di coppia (Tra le dita e Perché Mai) o universale (Sulle Pietre del Mondo) come unica arma contro i conflitti dell’umanità. Chiude (così come apriva in un breve strumentale) il brano Il Mondo Aspetta Te, brano in cui un artigiano si mette al lavoro per ricostruire il tutto a guerra finita, un chiaro messaggio di speranza finale per un album che comunque non assume mai toni troppo cupi o pessimistici, nonostante il tema trattato. Nell’album suonano molti musicisti, con particolare peso della chitarra e degli arrangiamenti di Giancarlo Capo. In mezzo a tante voci bellicose in ogni parte dl globo, serve ancora che il folk faccia la parte di un grido che sia sempre ostinatamente per la pace.

Nicola Gervasini

 

martedì 15 luglio 2025

Lavinia Blackwall

 


 Lavinia Blackwall

The Making

(The Barne Society, 2025)

File Under: What She Did On Her Holidays

Nel fenomeno di rinascita e riscoperta del folk britannico negli anni 2000, gli scozzesi Trembling Bells hanno giocato un ruolo importante. Cinque album pubblicati tra il 2008 e il 2018, in cui hanno rimescolato le carte del genere, più un EP e un disco in collaborazione con Bonnie Prince Billy (The Marble Downs del 2012), che testimoniava proprio la stretta parentela tra l’indie-folk di questi decenni e la musica tradizionale di marca Fairport Convention e dintorni. Nel 2018 però la vocalist della band, Lavinia Blackwall, ha annunciato di lasciare la band, di fatto sciogliendola (ad oggi infatti la sigla pare aver chiuso i battenti), e varando così una carriera solista con l’album Muggington Lane End del 2020. Ci sono voluti cinque anni per avere The Making, il secondo album, anni difficili e dolorosi di ritirata riflessione e introspezione, grazie ai quali ha prodotto quello che pare proprio uno di quei dischi che cambiano le sorti di una carriera. La Blackwall, infatti, aiutata del produttore Marco Rea, ha lavorato per lungo tempo su 10 brani che assorbono come una spugna moltissime influenze e diverse sonorità, pur non abbandonando il proprio stile, che ovviamene le porta paragoni con Sandy Danny o Jacqui McShee dei Pentangle.

E se l’iniziale Keep Me Away From The Dark è ancorata ad uno stile classico, l’arioso mid-tempo di The Damage We Have Done riesce a far confluire in un colpo solo un incedere alla Byrds con una melodia da dischi di Kate e Anna McGarrigle. Ma l’album gioca di varietà con la piano-ballad Scarlett Fever (qui sì che aleggia lo spirito della Denny), coi fiati che giocano sulla melodia di My Hopes Are Mine (dove torna sulle ragioni della fine dei Trembling Bells, aiutata tra l’altro dalla voce di “Miss Moonlight Shadow” Maggie Reilly), o l’incedere brit-pop di Morning To Remember (lei stessa cita i Kinks come influenza, ma io direi quasi più i Blur più classici). La Blackwall non rinuncia mai al suo vocalizzo alto e impostato (The Making), mostrando però le proprie doti e possibilità vocali con parsimonia, e sempre con rispetto al tema della canzone (bravissima nell’emotivamente sofferte We All Get Lost e The Art of Leaving, tra i brani più memorabili della raccolta).

Il finale non perde colpi con The Will To Be Wild e una eterea e riflessiva Sisters In Line in cui tornano protagonisti i fiati di Ross McRae e Richard Merchant. Dopo un esordio in cui aveva forse voluto metterci troppo, Lavinia Blackwall centra il bersaglio con un album che non perde semplicità nonostante gli arrangiamenti ben studiati, e soprattutto con dieci brani che spiegano perché si possa ancora essere moderni partendo dalla tradizione.

Nicola Gervasini

Swans

  Swans – Birthing 2025 - Mute/Young God 115 minuti, solo 7 brani, quasi tutti con minutaggi al di sopra dei dieci minuti. Affrontare un...