Swans – Birthing
2025 - Mute/Young God
115 minuti, solo 7 brani, quasi
tutti con minutaggi al di sopra dei dieci minuti. Affrontare un disco degli
Swans è un atto di coraggio, o, se siete degli adepti, di pura fedeltà. Con una
carriera ormai lunghissima sotto varie spoglie, il leader Michael Gira ha ormai
da qualche anno preso questa china nei tempi delle canzoni, quasi in voluta
controtendenza con un mondo discografico che ci sta riportando alle “2 minute
songs” e al singolo come formato standard. Sarà che Michel Gira noi ormai ce lo
immaginammo come una sorta di guru spirituale che vive al di sopra della realtà,
e perciò al riparo da qualsiasi tipo di idea di convenienza, ma forse poi non è
troppo così. Perché poi, come era già successo negli ottimi The Glowing Man del
2016 o Leaving Meaning del 2019 (e forse in modalità più confusa nel più
recente The Beggar del 2023), in tutto questo tempo che si prende (o ci ruba, a
seconda di come la vogliate vedere), gli Swans non sono affatto avari di
soluzioni musicali più che accessibili, che si diversificano anche nel corso
dello stesso brano, e che non hanno nulla a che vedere con la complessità delle
strutture del prog (i minutaggi porterebbero a pensarlo), quanto ancor più con
un bel mix di soluzioni più legate al mondo alternativo degli anni ottanta.
The Healers apre l’album
con dieci minuti di atmosfere da musica gotica e spaventa un po’, e se non lo conoscessimo
già, probabilmente ci chiederemmo ”ma davvero intende fare 115 minuti così?”.
Ma lo sappiamo, la risposta è no, visto che lo stesso brano si sviluppa in un declamatorio
tour de force con momenti di elettricità noise. E struttura simile ha I Am a
Tower, che si tramuta in una sorta di sua versione riveduta e corretta di Heroes
di David Bowie (la canzone non è quella, ma ritmo e chitarre si), o dell’etereo
canto di rinascita di Birthing, con il suo finale di minacciosi colpi di
batteria. L’unico brano con durata diciamo “normale” (quasi sette minuti) sta
nel mezzo, quasi a separare le acque di un mare di note con un brano che sa di
new wave anni 80, tra voci e mille tastiere (e soprattutto, se leggete i credits,
scoprirete che quasi tutti e sette i membri della band sono impegnati anche
nella produzione di loops, oltre che a suonare i rispettivi strumenti).
Il disco riprende poi con i toni
da apocalisse di Guardian Spirit, i cambi di ritmo di The Merge (che si chiude
con una sognante ballad acustica), e con la finale (Rope) Away, divisa in due
sezioni distinte. Lo schema dei brani,
infatti, è sempre quello di una lunga inquietante intro, con uno sviluppo a
canzone che rassicura l’ascoltatore. Gioco che funziona, perché nonostante la
loro prolissità, i pezzi riescono a tenere alta la tensione e quel senso di
“sentiamo che succede ora”. Difficile dire poi che ruolo abbia all’interno
della sua sterminata discografia, considerando anche altri progetti come, ad
esempio, gli Angels Of Light, ma sicuramente Birthing vede una band ormai consolidata
(da tempo ormai il fulcro sono le chitarre di Kristof Hahn e Norman Westberg,
ma vanno anche notati gli interventi del polistrumentista Larry Mullins e del
batterista Phil Puleo), che sempre più registra album come fossero delle lunghe
esibizioni live libere da ogni schema.
VOTO: 7,5
Nicola Gervasini