martedì 27 agosto 2024

BETH GIBBONS

 Il primo album solista di Beth Gibbons: Lives Outgrown.

Parla poco, ma quando parla fa parecchio rumore Beth Gibbons. Musa indiscussa della fiorente stagione del trip-hop degli anni 90, la Gibbons ha poi centellinato le uscite sia con la sua band (solo 3 album in studio più un eccezionale live con i Portishead), che da solista (un album a due mani con l’ex Talk Talk Rustin Man che è già entrato nel novero dei cult-record, e un esperimento sinfonico con tanto di orchestra). Insomma, a quasi 60 anni di età e con più di 35 anni di carriera, Lives Outgrown (Domino) è non solo il suo primo vero album solista, ma anche il suo quinto album di inediti in studio in carriera.


Suoni e atmosfere

Detta così fa impressione, ma la sua musica fa capire quanto la fretta e l’urgenza non siano esattamente la leva che la muove , quanto la ricerca di una musica che si adatti ad una sorta di spiritualità laica. La Gibbons ha avuto circa quindici anni per scrivere le canzoni, tutte di suo pugno con qualche sporadica correzione del batterista e produttore Lee Harris (anche lui ex Talk Talk). Non ci sono grandi sorprese in quello che la Gibbons ha elaborato, semplicemente ha cementato tutto il percorso di una vita in uno stile che riesce ad unire le lezioni di Sandy Denny e dei Cocteau Twins in un’unica soluzione. Dark-folk, chamber-folk, chiamatelo pure come volete, che tanto la sostanza è tutta sua. Pur avendo una voce che potrebbe richiamare almeno una decina di altre eteree vocalist della storia della nostra musica, il timbro di Beth appare subito inconfondibile, ma l’intelligenza di questo album è stata quella di non farsela bastare, chiedendo ad un produttore ben scafato come Jim Ford (Pet Shop Boys, Blur, Artic Monkeys) di dare qualche idea in più per dare vigore al tutto.


Beth Gibbons – Lives Outgrown: un disco importante

C’era il rischio molto alto di trovarci alle prese con un lungo trip lisergico, se non proprio soporifero, ma ci ritroviamo nello stereo un album dove i suoni e gli arrangiamenti rivelano ascolto dopo ascolto, con testi che parlano della propria vita di madre e di donna matura, quasi a rispondere con una sequenza da concept album alla domanda posta dal primo brano, Tell Me Who You Are Today.

Ma brani come Lost Changes o Rewind, con la loro per nulla semplice costruzione melodica, e le orchestrazioni degne del miglior Robert Kirby di Burden of Life e di altri brani, dimostrano che la Gibbons non ha sprecato il suo tempo perché il risultato giustifica il considerarla una di prima classe. Ma anche le chitarre e le percussioni giocano ogni volta una partita diversa in Oceans o in For Sale, fino al gran finale di Whispering Love. Con Lives Outgrown  Beth Gibbons pone una pietra importante nella sua parca ma sempre significativa produzione, e se anche dovremo aspettare altri quindici anni, ne varrà sicuramente la pena.


BLACK SNAKE MOAN

 

Black Snake Moan
Lost in Time
[Area Pirata 2024]

 Sulla rete: areapiratarec.bandcamp.com

 File Under: Lost in the desert


di Nicola Gervasini (24/05/2024)


Ogni volta che leggo il nome di Black Snake Moan non riesco a non pensare a un vecchio film dallo stesso titolo del 2006 del regista Craig Brewer (purtroppo successivamente colpevole del remake di Footloose e dell’inguardabile seguito de Il Principe Cerca Moglie), in cui una conturbante Christina Ricci cercava in un vecchio bluesman (un Samuel L. Jackson ispirato da Blind Lemon Jefferson) la salvezza dalla propria ninfomania, simbolicamente risolta nelle braccia della popstar Justin Timberlake. Non certo un film da cinefili, se non per le atmosfere che ben coglievano l’anima tormentata del blues di Jefferson, le stesse che mi vengono ispirate dalla musica di questo Lost In Time. Ed è proprio dalla canzone di Jefferson che prende anche il nome d’arte il musicista viterbese Marco Contestabile, che con questo nickname arriva a pubblicare il suo terzo album.

Lo attendevamo a questo appuntamento, dopo che lo scorso anno gli avevamo dedicato una intervista (a cura di Sara Fabrizi) utile a capire cosa spinge ancora un musicista nostrano ad abbracciare così fortemente una cultura lontana come quella americana. Lost In Time non delude affatto le attese, e anzi attesta la sua continua crescita musicale dopo i già interessanti Spiritual Awakening del 2017 e Phantasmagoria del 2019. Nove canzoni, trenta minuti scarsi, ma sufficienti a completare un viaggio lisergico che mi immagino, con buona dose di scontati luoghi comuni, come quello di un giovane hippie che sperimenta peyote in un deserto americano nel 1969.

Il titolo d’altronde dice già tutto, il suono creato da Blake Snake Moan ha perso ormai molto delle sue radici blues dei primi anni, quando si esibiva come one-man-band delle 12 battute, acquistando in sapori che uniscono melodie West Coast e sonorità da piena Summer of Love ‘67. Ancora una volta Contestabile fa tutto da solo, o quasi, giusto due interventi di tastiera di Gabriele Ripa in Come On Down Put Your Flowers e il pulsante basso e voce offerti da Roberto Dell'Era (Afterhours, The Winstons, Calibro35). Eppure dallo stereo esce un muro di chitarre e voci che pare di sentire impegnata una intera comune freak alla Incredible String Band, fin dalla breve Dirty Ground che introduce al viaggio, alle chitarre quasi da dark-era di Light The Incense all’organo psych-pop di Come On Down, o ancora alle mille ipnotiche percussioni che reggono Put Your Flowes o alle voci filtrate nella programmatica West Coast Song, qui tutto sa di antico, eppure fatto in casa con grande conoscenza della materia e capacità di trasformarla in canzoni più che convincenti.

Lo chiameremmo Desert Rock, anche se a Viterbo fortunatamente la siccità ancora non ne ha creato uno, ma d’altronde la musica serve a viaggiare con l’immaginazione, e quella di Black Snake Moan riesce particolarmente bene ad accompagnarci in questo “trip”.

JJ GREY & MOFRO

 

JJ Grey & Mofro

Olustee

(Alligator, 2024)

File Under: Swamp Music

 

Non sarebbe facile spiegare al pubblico italiano, anche quello più musicofilo, perché noi di Rootshighway abbiamo patito non poco per la lunga assenza discografica di JJ Grey & Mofro. Innanzitutto perché probabilmente dovremmo anche prima spiegare di chi diavolo stiamo parlando, perché sebbene il combo sia nato anche prima del 2000, ad oggi la sua popolarità è parecchio limitata agli ambiti della scena post-Jam-bands, categoria a cui subito furono associati fin dal primo album Blackwater (che ancora usciva con la semplice sigla Mofro). E dovremmo spiegare come mai se su quella scena abbiamo un po’ mollato il colpo anche noi in quanto ad attenzione, perché riteniamo abbia generalmente esaurito la propria carica creativa (sebbene in USA resti un fenomeno ancora più che vivo dal punto di vista dei riscontri di pubblico presente ai concerti), loro invece non hanno mai smesso di suscitare la nostra più piena ammirazione, se non proprio entusiasmo, E questo nonostante si portino nel DNA il difetto di fondo di molte jam-bands nate nei 90, e cioè una scarsa originalità nel fare un gran minestrone di generi e influenze. Non c’è infatti nulla di straordinariamente nuovo nel mix di southern–rock, soul e funky-music che hanno portato in alto nelle nostre classifiche dischi come Country Ghetto (2007) o This River (2013), sempre pubblicati per la storica etichetta di Chicago Alligator che li ha riaccolti in questa occasione, c’è però un suono splendido, positivamente condizionato dall’uso dei fiati, una voce adatta al genere, e un pugno di canzoni che, seppur non scevre di citazionismi e pesanti debiti col passato, suonano fresche e convincenti.

Dopo 9 anni di pausa da Ol Glory del 2015, Olustee (nome di un piccolo centro abitato dove nel 1864 venne combattuta una delle più sanguinarie e decisive battaglie della Guerra Civile Americana) paradossalmente sembra voler spiazzare con l’iniziale The Sea, maestosa soul-ballad immersa negli archi che paiono un ingrediente nuovo al loro menu, ma è solo un diversivo che significativamente verrà ripetuto col simile finale di Deeper Than Belief. Ma tra i due brani è festa di ritmi, suoni del sud, chitarre ancor più in evidenza del solito (da mettere in repeat la title-track per puro godimento d’udito), brani ancora più semplici e diretti persino negli ermetici titoli (Rooster, Wonderland, ecc..). Il cuore di Olustee è un disco che riparte esattamente da dove si erano fermati, con nuovi brani da mettere in una ideale compilation per un viaggio da “On the Road” (Seminole Wind, Top Of The World), e accorate soul-ballads col santino di Otis Redding nella tasca (On A Breeze, Starry Night, Waiting). Ma, soprattutto, con l’ennesimo rammarico di avere poche speranze di poter portare in Italia un gruppo così numeroso che non avrebbe senso ascoltare in forma ridotta, e oltretutto con scarse possibilità di conquistare tanti cuori tra i nostri conterranei che questa musica, siamo convinti a torto, la danno ormai per scontata. E’ proprio il caso di dirlo: bentornati.

 

Nicola Gervasini

mercoledì 14 agosto 2024

ANY OTHER

 

Any Other

Stillness, Stop: You Have a Right To Remember

(42 Records, 2024)

File Under: Stop & Think

Personaggio poliedrico e camaleontico come pochi altri quello di Any Other, nome d’arte che Adele Altro ha scelto per una sua interessantissima attività solista a lato di una intensissima carriera da turnista per altri artisti. Polistrumentista con gran attenzione alle svariate espressività degli strumenti in cui si cimenta (dalla chitarra al sax, passando per altri strumenti che la rendono una potenziale one-girl-band), Any Other si regala per i suoi 30 anni un terzo album che si attendeva non poco, dopo il coro di applausi riscosso ormai sei anni fa dal secondo Two, Geography. Il titolo Stillness, Stop: You Have a Right To Remember è dunque una sorta di esortazione a sé stessa a fare un primo punto della situazione della propria vita raggiunta una cifra tonda che ormai identifichiamo come il vero passaggio alla vita adulta. Per cui si mette ordine tra i ricordi e si lascia spazio a flashback mentali in queste sette canzoni, più uno strumentale (Indistinct Chatter) a chiudere. Non nascondiamo una certa delusione (anacronistica, ce ne rendiamo conto) non sulla qualità, che anzi spinge ancora più avanti la già alta asticella del suo predecessore, quanto sulla quantità, visto che il disco raggiunge a malapena la mezz’ora, ma lei stessa spiega che l’album arriva dopo anni di side-projects e impegni spesso per conto terzi, primo fra tutti quello che l’ha portata in tour con il duo Colapesce (qui presente nei cori di Second Thought) e Dimartino affrontando folle ben più ampie di quelle a cui si era abituata, ma rubandole non poche energie.

Per cui, sebbene la gestazione in sede di scrittura sia stata lunga, il disco è stato registrato e chiuso in breve tempo, assecondando una certa urgenza a scrivere una nuova pagina in questa sorta di suo diario di bordo personale che è diventata la sua carriera personale. Lo stile del disco è sempre più lanciato in un sound elettro-acustico con grande attenzione ai particolari, e se nella recensione che scrissi nel 2018 per Two. Geography già citavo Emma Tricca per pensare ad italiane anglofone che stavano crescendo di statura internazionale, qui la citerei pure come stile se ascoltate questo album di seguito al recente Asprin Sun di Emma, sebbene le due vengano da background musicali ben differenti. Sono pochi ma tutti significativi i brani, con particolare menzione a Need Of Affirmation con i suoi splendidi ricami chitarristici, l’intensa e melodica Zoe’s Seeds e la particolarmente ben prodotta Awful Thread con i suoi intrecci d’archi.  Prodotto a due mani con Marco Giudici, il disco va ascoltato attentamente e più volte per apprezzarne tutte le sfumature, come il particolare drumming che sostiene il piano dell’iniziale Stillness,Stop, o il sound rarefatto di If I Don’t Care. Si ha sempre un po’ la sensazione che parli più a sé stessa che a noi Any Other, ma se entrate senza troppo disturbare, la sua camera dei ricordi può diventare la vostra.

Nicola Gervasini

ED HARCOURT

 

Ed Harcourt – El Magnifico

2024, Deathless Recordings

Avevo un po’ mollato la pesa sulla carriera di Ed Harcourt, enfant prodige del mondo indie di inizio dei 2000, quando registrò l’album Here to Be Monster, uscito nel 2001 e ancora oggi una delle pietre miliari del cantautorato moderno. Non perché poi il ragazzo, oggi quarantasettenne, non abbia più saputo ripetersi, visto che poi anche i successivi From Every Sphere e Strangers confermarono che se magari la sorprendente freschezza dell’esordio era difficile da ripetere, comunque avevamo guadagnato un nuovo autore prolifico e importante da seguire. Negli anni Dieci però la sua produzione si è sviluppata al di fuori dei clamori, il suo nome non richiama più recensioni che urlano al miracolo ormai da tempo, e, se ci fate caso, ogni sua nuova uscita serve sempre a ribadire quanto fosse bellissimo “quel disco là e non quel disco qua”. Destino amaro di quegli artisti che arrivano all’esordio con un carico di anni di felice ispirazione nata senza pressione, e soffrono poi invece il peso delle aspettative accese.

El Magnifico è uscito il 29 marzo scorso ormai, e viene dopo quattro anni di silenzio, e con una spavalda copertina che lo fa sembrare quasi un personaggio da narcos-movie, quasi a voler ribadire che l’artista c’è ancora. Da allora non ho letto grandi lodi, nonostante alcune riviste come Uncut lo abbiano salutato come un felice ritorno, a cui fa però da voce opposta un Mojo che gli ha praticamente dato delle minestra riscaldata. Invece El Magnifico non sarà certo un disco che metteremo nelle classifiche dei dischi migliori del decennio, ma è sicuramente un album su cui vale la pena ritornare anche dopo tre mesi (che con la velocità con sui si bruciano le discussioni e reazioni ai dischi oggigiorno, pare un abisso temporale), perché comunque dimostra che Harcourt ha ancor parecchie frecce da scagliare.

Il concept stilistico dell’album è quello di una serie di canzoni nate e suonate al piano su cui però Harcourt, con l’aiuto del produttore Dave Izumi Lynch, costruisce un impianto di barocche orchestrazioni, unite a toni più teatrali del solito. Mi verrebbe da citare il Marc Almond più innamorato della canzone classica o il Rufus Wainwright più istrionico, ma forse il paragone più azzeccato potrebbe essere con la Regina Specktor dei tempi d’oro, che un brano come 1987 lo avrebbe sicuramente amato. Ma val la pena notare che di questi tempi l’idea che si possa tornare ad un pop da camera più costruito e “pieno” la stiamo notando anche in tanti giovani autori, penso ad esempio a Ramona di Grace Cummings.

Per cui sia che lavori di voluta sovra-produzione come in Broken Keys, Seraphina o My Heart Can’t Keep Up With My Mind, sia che rimanga nei meandri della scarna piano-song come The Violence Of The Rose, Harcourt semplicemente spinge all’estremo le proprie peculiarità vocali e di musicista per riscrivere la grammatica di un nuovo indie-pop, che quando incontra anche un songwriting perfetto come nel caso di Strange Beauty, spiega perché è ancora presto per archiviare El Magnifico.

 

VOTO: 7

Nicola Gervasini

RICHARD THOMPSON

 

Richard Thompson

Ship to Shore

(New West, 2024)

File Under: The Return of the Human Fly

Sebbene sia “in pista” dal 1966, Richard Thompson ha “solo” 75 anni, e se avete letto la sua autobiografia (Beeswing, in Italia tradotta e pubblicata dalla Jimenez), vi sarete resi conto che a 20 anni aveva già fatto abbastanza per entrare nella storia della musica, anche se per i tempi era abbastanza usuale (pensiamo a Steve Winwood). Questo per dire che il fatto che per la prima volta nella sua lunga carriera si sia preso una pausa discografica di ben 6 anni dal precedente 13 Rivers, davvero irrituale per uno stacanovista discografico come lui, non deve suonare come un sintomo di stanchezza, ma di giusta calma di qualcuno che, ancora pieno di forze, non ha bisogno più di correre per sfogarle.

Thompson fa parte di quella schiera di autori stranieri (penso ad esempio anche a Bruce Cockburn) dalla carriera praticamente perfetta, eppure oggetto di un culto quasi carbonaro in Italia. Non è però per pura abitudine di parlarne bene (forse giusto per Front Parlour Ballads nel 2005 siamo stati freddini su queste pagine) che ve lo proponiamo come disco del mese, ma solo perché Ship To Shore ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, come si scrive e come si deve suonare una canzone folk-rock. E come magari, pur ovviamente lavorando ormai molto anche di mestiere come nell’iniziale Freeze o in Turnstile Casanova, che entrano nel suo lungo catalogo di veloci cavalcate alla Tear Stained Letter (per citarne una divenuta anche famosa e riletta da molti), già una The Fear Never Leaves you o una What’s Left To Lose appaiono come piccole opere d’arte di songwriting, e visto che parliamo di un maestro in tutti i sensi (da sempre svolge anche l’attività di insegnate di chitarra e musica), direi anche un vero e proprio manuale d’istruzioni per i cantautori più giovani (e ce ne sono che sicuramente hanno i suoi dischi in bacheca, penso a Sam Amidon o Steve Gunn).

 Per il resto chi lo segue da tempo e legge i credits (si torna all’autoproduzione stavolta, dopo una serie di incontri con produttori importanti come Jeff Tweedy o Buddy Miller) sa che prima o poi lo splendido batterista Michael Jerome darà spettacolo (accade ad esempio in Trust), sa che il violino di David Mansfield entra sempre con tatto e gran gusto nella canzone senza invadere il campo (Singapore Sadie), e che quando Richard si siede con l’acustica e intona una triste ballata come The Day That I Give In ci ricorda quanto sia un raro miracolo che un musicista tecnicamente perfetto sia anche una autore e interprete così sensibile. Visto che i complimenti si sprecano, poi magari togliamo un po’ di eccessiva benevolenza alla recensione notando che dopo il brillantissimo Sweet Warrior del 2007, anche lui ha un po’ smesso di cercare variazioni al tema e viaggia sempre sul sicuro (brani come The Old Pack Mule o il lungo assolo di Maybe potremmo dire che esistevano già nel suo repertorio, ma repetita iuvant insomma), ma non è più tempo di rischiare per nessuno ormai, e basta una Lost In The Crowd a renderci felici che Thomspon sia sempre qui con noi a raccontarci le sue storie.

 

Nicola Gervasini

IRON & WINE

 

Iron & Wine

 Light Verse

(2024, Sub Pop Records)

File Under: Middle Age Folk

Quando certi autori sono ormai diventati dei veterani nei nostri ascolti corriamo il rischio di darli un po’ per scontati, di dimenticarci perché a suo tempo abbiamo pensato fossero artisti in grado di fare la differenza. Dico questo perché registro molto meno clamore intorno alla nuova uscita del progetto Iron & Wine di Sam Beam, probabilmente perché, dopo che negli anni zero aveva scritto alcuni dei capitoli migliori della storia dell’indie-folk di quel periodo con album come Our Endless Numbered Days e The Shepherd's Dog (tra l’altro entrambi in grado di vendere circa 200.000 copie, che nel genere non sono affatto poche), negli ultimi dieci anni ha pubblicato un solo album (il valido ma non sempre a fuoco Beast Epic) e tre in collaborazione con altri artisti (Ben Bridwell, Jesca hoop e Calexico).

Light Verse arriva un po’ in sordina, eppure è il disco che mette un po’ d’ordine nella sua musica e nel suo songwriting. “Registrare quest’album è stato un po’ come ritrovare la luce in fondo al tunnel” dice Beam presentandolo, e meglio di così non si potevano descrivere questi dieci brani ariosi, pieni di melodie finemente costruite, arrangiamenti mai pesanti e sempre ben studiati, perfettamente bilanciati tra il folk essenziale dei primi album e le ardite costruzioni di un disco bello e complesso come Kiss Each Other Clean.  Disco autoprodotto grazie alla piena fiducia datagli dalla Sub Pop sul risultato finale, l’album è stato registrato con l’aiuto di una cerchia di amici come il tastierista Tyler Chester, il bassista Sebastian Steinberg e David Garza come seconda chitarra, più contributi da altri artisti. Fiona Apple poi impreziosisce le melodie di All in Good Time in un bel batti e ribatti vocale, ma per il resto il protagonista è di nuovo solo lui, con una scrittura matura che per qualcuno forse suonerà fin troppo mainstream (provate ad immaginare la radiofonica Sweet Talk in uno dei migliori album degli America e non farete alcuna fatica), o spogliato di quella naiveté un po’ freak che lo caratterizzava nei suoi primi anni (la pacificata quiete da uomo in pace con sé stesso di Bag of Cats), ma che dimostra che l’artista ha una statura in grado di poterlo supportare per tutta la sua carriera, che a 50 anni compiuti giusto nei prossimi giorni, ci immaginiamo ancora lunga e piena di soddisfazioni.

Nel disco poi Beam aggiunge ogni tanto qualche orchestrazione sullo sfondo (arrangiati da Paul Cartwright), che diventa però protagonista assoluta nella tesissima e straordinaria Tears That Don't Matter, unico brano che si discosta dalla semplicità dell’insieme. Un Beam sereno e finalmente conscio dei suoi mezzi ci saluta quindi con l’ottimismo emotivo di Angels Go Home e ci regala un piccolo gioiello ormai non più catalogabile come indie-folk, ma puro cantautorato di qualità.

 

Nicola Gervasini

GRACE CUMMINGS

 

Grace Cummings

Ramona

(ATO, 2024)

File Under: Wall of Sound

Partiamo dalla fine della recensione, e cioè da quel momento in cui ci rendiamo conto che l’importanza e la portata di Ramona, terzo album di Grace Cummings non è possibile misurarla sul breve periodo, ma ci vorranno anni, e molto verrà svelato dal seguito di questa sua avventura musicale. Premessa importante per far capire che l’australiana Cummings ha realizzato con Ramona un’opera davvero particolare e di rottura verso il suo stesso passato,  ma ripartiamo dall’inizio . Artista nata a pane e folk con citazioni dylaniane sparse ovunque nei suoi primi due album Refuge Cove (2019) e Snow Queen (2022), l’artista ha comunque già da subito messo in evidenza quel tono teatrale che qui si fa a tratti magniloquente e melodrammatico, frutto forse della sua formazione da attrice da palcoscenico, ma anche dall’amore per una certa forma barocca della canzone folk, un po’ alla Regina Spektor o direi anche Rufus Wainwright.

Per Ramona poi ha incontrato il genio produttivo di Jonathan Wilson, uno dei pochi artisti che ancora pensa in termini di personalità al servizio di altri, e che qui confeziona per lei un elaborato e maestoso quadro fatto di archi (gestiti da Drew Erickson che ha già lavorato con Weyes Blood, Mitski e Lana Del Rey), fiati e cori che non può che stordire a tratti. Ciò che nei dischi precedenti  pareva solo un mood di fondo quindi, qui esplode fin dall’apertura di Something Going 'Round, brano straordinario proprio perché subito evidentemente sopra le righe nel cantato e in un cercato e voluto sovra-arrangiamento. Solo una introduzione ad un gioco che dura tutta il disco in cui si prova a sperimentare tipologie di canzoni diverse (Common Man potrebbe essere un pezzo da un album di Johnny Cash, Everybody’s Somebody ha un sapore jazzy di fondo) immerse in questi particolari arrangiamenti vocali che sono poi il tratto comune tra tutti i brani.

Il che ci porta a valutare positivamente l’esperimento sia per la sua unicità di questi tempi in cui a volte si ha la sensazione che la scelta less is better sia dettata più da necessità economica che da vera progettualità artistica, sia perché i brani sono più che buoni anche nella scrittura. Ma l’effetto per alcuni potrebbe essere lo stesso di quando entrate in una chiesa in cui vari restyling di epoca barocca e roccocò hanno reso tutto troppo pesantemente sfarzoso e soffocante, togliendo respiro e possibilità di prendersi una pausa in un angolo di essenziale romanico. Ramona fortunatamente i suoi momenti di riflessione dove si stacca un po’ la spina all’orchestra li ha (On and On ad esempio), ma non bastano a togliere del tutto quel senso di “troppo” che inevitabilmente una scelta stilistica così estrema si porta dietro. Ma è difficile non godere dei toni quasi epici di brani come Love And The Canyon o I’m Getting Married To The War o della prova vocale sontuosa sciorinata in A Precious Thing. Qualcuno di voi potrebbe non riuscire ad entrarci in sintonia e sarebbe più che comprensibile, ma al di là dei gusti personali, Ramona è un disco bello e, forse, pure importante.

 

Nicola Gervasini

CHURCH

 

The Church – Eros Zeta and the Perfumed Guitars

Easy Action - 2024

“A volte le canzoni migliori escono quando non ti aspetti di scriverne una” diceva Peter Buck dei R.E.M., e potremmo quasi allargare lo stesso discorso agli album. Prendete ad esempio Eros Zeta and the Perfumed Guitars, il venticinquesimo album degli australiani Church, band culto dell’underground degli anni 80 (che ebbe anche il proprio quarto d’ora di gloria con la hit internazionale Under The Milky Way), che non ha mai smesso di pubblicare e suonare un solo attimo dal 1980 ad oggi. Erano diventati un po’ una di quelle realtà che vivono su glorie passate pur non perdendo mai gusto e voglia di suonare, e tutti i loro album, diciamo da metà anni 90 ad oggi, sono più che degni della sigla, seppur nessuno sia rimasto impresso nell’immaginario dei fans quanto i primi, e raramente li si è visti in alto in qualche classifica di fine anno delle riviste che pur li continuano a venerare.

Per questo tutti noi accogliamo sempre un nuovo disco dei Church come una piacevole abitudine, anche se negli ultimi anni hanno rallentato il ritmo. Ma l’anno scorso un po’ di nuova verve al loro mito sembra averla data l’album The Hypnogogue, e mi sento di dire che forse addirittura questo lungo e apparentemente sconclusionato Eros Zeta and the Perfumed Guitars riesca a risultare ancora più piacevolmente curioso. Il disco è stato registrato nelle stesse sessions del suo predecessore, e, addirittura, inizialmente venduto come chicca per fans nei concerti, e anche il fatto che non sia un ordinato concept come The Hypnogogue gli dà subito un’aria da outtakes-record.

Ma anche se poi effettivamente lo è, è un disco che mostra il loro lato sia più sperimentale e psichedelico, ma anche più rauco e memore della loro prima natura da garage-band australiana. Insomma, nel suo essere lungo e irrazionale, l’album ha molti momenti in cui la palpebra abituata al tran-tran un po’ pigro della loro più abituale produzione, si alza e si chiede cosa stia succedendo. Della formazione originale è rimasto solo Steve Kilbey (il batterista Tim Powles fu imbarcato nel 1994), che oltretutto spesso gira in tour da solo con le canzoni della band (doveva venire poche settimane fa anche in Italia ma è stato bloccato da problemi di salute), il che potrebbe far pensare ad un progetto ormai solista, ma va detto che i più recenti acquisti alle chitarre  e basso (Ian Haug, Jeffrey Cain e Ashley Naylor) si sono adattati al puro Church-sound in modo credibile, quasi non facendo percepire la mancanza degli storici Peter Koppes  e Marty Wilson-Piper.

70 minuti di musica, qualche inevitabile momento ripetitivo o fin troppo ovvio, ma anche una band che sfrutta l’entusiasmo dei nuovi giovani assunti per ritrovar la voglia di fare jam in studio (A Strange Past) o di andar dritti al risultato con riff-songs d’altri tempi. Credo che più che una lezione di stile per le giovani leve, si tratti più che altro di un ribadire che la lezione che ha in mente Steve KIlbey dopo 45 anni di carriera sia ancora l’unica che si può impartire per capire cosa vuol dire “fare rock” in anni in cui il concetto pare diventato sempre più sbiadito e fumoso

Nicola Gervasini

VOTO: 7

J. SINTONI

 

J. Sintoni

Where I Belong

(2024, Go Country records/Canto Libero Edizioni)

File Under: Rest and Survive

 

Ai tanti che ogni giorno si chiedono sui social a cosa diavolo possa servire oggi scrivere di musica (se lo chiedono spesso gli stessi che scrivono d’altronde), una delle tante risposte possibili è quella che anche in questo mercato discografico, che mercato più non è (lo definirei una unica grande bulimica svendita di beni mordi e fuggi), l’unica via per poter dire qualcosa di interessante è dare una visione di un artista nel corso della sua carriera. Prendiamo J. Sintoni ad esempio, uno dei tanti artisti italiani di scuola blues che ormai seguiamo da anni, e prendiamo il suo nuovo album Where I Belong. Potremmo facilmente proporvelo scopiazzando una cartella stampa, e contare sul fatto che il personaggio abbia ormai un suo pubblico affezionato che ci leggerà, per quanto commisurato al genere che suona. O magari potremmo commentare canzone per canzone come si faceva nelle recensioni di un tempo, quando i dischi andavano raccontati a qualcuno che ancora non li aveva sentiti e doveva decidere, in base a quello che leggeva, se investirci tempo e denaro (mi pare di parlare di preistoria ormai).

Where I Belong invece ve lo raccontiamo come un bel disco non perché  proponga chissà quali novità (c’è blues, folk, country, tutto insomma), ma perché è un punto di arrivo di un lungo percorso di un artista nato a pane e blues elettrico alla Steve Ray Vaughan (recuperate nel caso A Better Man del 2012), e grazie anche al didattico lungo sodalizio con Grayson Capps, seguito più volte nei tour nostrani, ha virato sempre più verso un genere “roots” di largo respiro. Se Backroads del 2021 trovava proprio in una dimensione da cantautorato americano la proprio reazione all’anno più cupo della nostra storia recente, il più rauco Pickin' on the Ridge dello scorso anno recuperava la veemenza da palco di un classico power-trio hard-blues, non perdendo però di vista il nuovo amore per la scrittura da vero outsider di Austin.

Il nuovo lungo album (ben 15 brani) fa tesoro di tutto, e si presenta come una sorta di confessione personale, adattabile a qualsiasi artista del suo calibro che passa quotidianamente anche su queste pagine, prima fra tutte con l’iniziale Alone with My Songs, presa di consapevolezza di come ciò che si produce oggi vale soprattutto per sé stessi (“Mi son fatto molti amici grazie alle canzoni, poi loro hanno incontrato nuovi amori, e si sono dimenticati le mie canzoni”), o più avanti in Until I Run Out Of Songs (“Vi lascerò alcune buone canzoni, ho fatto del mio meglio, sono nate senza qualità e ci ho lavorato, e andrà avanti, finché non finirò le canzoni”). Insomma, le canzoni servono a vivere, (“Un’altra canzone da cantare, un altro sospiro sulla tua macchina” canta in Lights), solo questo ha senso.

Meglio comunque cantarle, scriverle, e auto-prodursele attorniato dagli amici più noti (Grayson Capps interviene nella ispirata Away From Home, Don Antonio sfoggia la sua sei corde in Until I Run Out Of Songs e Rest and Survive), o dai tanti compagni di viaggio come l’armonicista Marco Pandolfi, Jama, Chris Horse, Thomas Guiducci , Enrico Cipollini, Bati Bertolio, Francesco Boadene e  Andrea Taravelli. Partiamo dunque da questo disco per ritrovare il senso di quella strana pazzia di voler fare questa musica oggi in Italia, perché, come canta lui in Rest And Survive, “Tieni da parte un po’ di follia per sopportare il dolore”.

Nicola Gervasini

ANDREA VAN CLEEF

 

Andrea Van Cleef

Horse Latitudes

(2024, Rivertale Productions)

File Under:The Dark Side of Italy

 

Lo seguiamo da tempo il bresciano Andrea Van Cleef, fin dai tempi dei Van Cleef Continental o di album come il westcoastiano Sundog (2012), il più essenziale Tropic of Nowherem dove riaffioravano le sue origini di stoner-rocker, o la collaborazione, uscita in pieno lockdown, con Diego Deadman Potron (Safari Station, prodotto da Don Antonio), per citare quelli più significativi. Ed è quindi senza sorpresa che lo ritroviamo autore di un prodotto decisamente maturo e di livello come Horse Latitudes, disco che unisce le due anime dei luoghi in cui è nato, visto che è stato registrato parzialmente in USA negli  Smilin' Castle Productions di Rick Del Castillo (spesso collaboratore per le colonne sonore di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez), in cui sempre più spesso anche gli autori nostrani trovano modo di respirare l’aria giusta per un più fedele sound americano (anche Cisco Bellotti ci ha registrato il suo Indiani e Cowboy ad esempio).

Il grosso del lavoro è stato comunque realizzato a Montichiari, dove Van Cleef ha riunito una serie di collaboratori fidati per un album che ancora più che in passato sottolinea l’amore per un certo gothic-country o dark-folk, che rievoca ovviamente Mark Lanegan (la voce di Van Cleef lo cerca spesso), Woven Hand o Handsome Family, ma anche il mondo musicale che ruota in torno a Nick Cave (in particolare ci trovo affinità con il lavoro di Hugo Race in questo album).

Esauriti i crediti e i riferimenti però, resta un disco di ottimi brani autografi che colgono in pieno il sentimento dei nostri tempi, come The Longest Song, Come Home o Fire In My Bones. Buon peso hanno anche le collaborazioni, come le voci degli The BlackJack Conspiracy nella iniziale Horse Named Cain (anche singolo dell’album, con video girato sul Tonale), l’intervento della cantautrice Ottavia Brown (anche lei bresciana, nota anche come illustratrice) in Love Is Lonely e, soprattutto quella del mitico sassofonista dei Morphine Dana Colley nell’intenso finale di The Real Stranger. Si segnalano particolarmente Slaughter Creek per il fine arrangiamento e il quasi brit-folk di The Disappearing Child, e soprattutto una convincente cover di Ooh La La, brano dei Faces (lo cantava Ron Wood nell’originale, anche se Rod Stewart poi ne farà una versione propria), che pare discostarsi un poco dalla sensibilità dark del disco, ma costituisce forse un necessario elemento di rottura di un album molto omogeneo e senza sbavature. Horse Latitudes conferma infatti  quanto la scena “roots” italiana abbia particolarmente a cuore i toni del lato più oscuro della scena americana, suono che direi che Andrea Van Cleef governa al meglio ormai non da pochi anni.

 

Nicola Gervasini

 

BILL FAY

 

Bill Fay Group

Tomorrow Tomorrow And Tomorrow

(Dead Oceans, 2024)

File Under: Lost years

Sono passati solo due anni da quando vi abbiamo parlato dell’album di inediti Still Some light di Bill Fay, ed eccoci di nuovo a scandagliare gli archivi di questo poco prolifico eroe d’atri tempi. La sua storia ve l’abbiamo raccontata più volte, artista titolare di due splendidi album pubblicati tra il 1970 e il 1971, e di tre dopo il 2012, in cui, risvegliato dall’interesse di molti giovani colleghi, ha dimostrato di non essere affatto arrugginito dopo tanti anni di attività.

In verità le cronache sulla sua discografia parlavano anche di un perduto episodio in cui Bill tentò, dopo alcuni anni di oblio e depressione da fine contratto con la Deram, di far ripartire la propria carriera, Era il 1978, l’anno sbagliato forse per una proposta musicale come la sua, con la new wave e gli anni ‘80 alle porte con la loro piazza pulita di tutti gli artisti che avevano caratterizzato il cantautorato degli anni settanta. Tomorrow Tomorrow And Tomorrow, infatti è stato registrato nell’arco dei tre anni, dal 1978 al 1981, che hanno cambiato tutto il mondo del rock, figuriamoci la confusione che poteva avere un artista dimenticato, in cerca di un proprio nuovo suono.

 

Il disco non uscì fino al 2005, quando il recupero di vecchi artisti dimenticati stava cominciando a diventare una utilissima moda tra le etichette e gli artisti  indipendenti, ma ora ne esce una versione espansa con le sessions al gran completo. Il gruppo assemblato e ribattezzato Bill Fay Group era un trio di jazzisti dediti a quel mondo sul confine tra jazz e pop tutto sommato di moda (si pensi ad Aja degli Steely Dan come vago riferimento), e cioè Bill Stratton, Gary Smith e Rauf Galip, tre coraggiosi musicisti che invitarono per un lungo periodo Fay per delle sessions registrate nell’appartamento del primo, cercando di trovare la quadra giusta per un disco che purtroppo nasceva e moriva senza una casa discografica interessata a pubblicarlo.

 

D’altronde anche i due album storici di Fay in quegli anni erano scomparsi dal mercato, per cui sarebbe stato davvero difficile imbastire una campagna marketing su un personaggio che era di fatto la perfetta antitesi degli anni ottanta. Peccato, perché tra queste 28 canzoni, che non è sempre facile capire se sono rimaste abbozzate o se Fay le considerasse davvero finite così, si nasconde del materiale (penso a Life ad esempio) che in mano al produttore giusto (provo ad immaginare uno Steve Lillywhite dei tempi), potevano avere anche del potenziale radiofonico. Ma la storia non si fa con i “se”, per cui nel 2024 ben felici recuperiamo questo materiale, atipico per Bill Fay nel suono, ma non certo nell’atteggiamento dimesso e sofferto del suo songwriting e canto. Se volete conoscere il personaggio non partite da questa che resterà un’opera minore della sua carriera, ma per capire come mai avesse ancora tante idee e energie dopo decenni di assenza dalla scena, questo album resta fondamentale.

 

Nicola Gervasini

PAOLO ZANGARA

 

Paolo Zangara

Scusi dov’è il Bar?

(Snowdonia, 2024)

File Under:  Sotto le stelle del Jazz

Se una sera raminga vi perdete nella nebbia del varesotto (dopo anni  è tornata!), potreste incappare in un paese alle porte di un nascosta vallata piena di opere d’arte (il Monastero di Torba) e fabbriche abbandonate che si chiama Lonate Ceppino. E’ lì che da qualche anno vive, grazie ad una associazione culturale, un piccolo club notturno chiamato Black Inside, dove ogni settimana si suona ogni tipo di musica,  dal metal (Varese è da sempre patria feconda per il genere) al jazz, fino a proposte più coraggiose di rock alternativo. E’ lì che l’etichetta Snowdonia ha recentemente tenuto il primo festival con i propri artisti, che hanno partecipato ad un curioso quanto riuscito disco tributo al dimenticato Rodolfo Santandrea. E tra gli invitati c’era anche lo stesso padrone di casa, Paolo Zangara, sia perché aveva contributo al cd con una sua versione di Un Delfino, sia perché proprio con la Snowdonia Paolo trova l’occasione per pubblicare il suo primo album a proprio nome, Scusi dov’è il Bar?. Frase che magari qualcuno assocerà all’urlo, così in italiano, che si sente verso la fine di Not Now John dei Pink Floyd , ma in verità un naturale pensiero di chi gira solitario di notte e cerca una boa per aggrapparsi, meglio se poi con anche con buona musica da sentire.

Zangara è musicista scafato, sulla scena fin dai primi anni 80 con un curriculum lunghissimo di band e collaborazioni che hanno abbracciato blues, drum’n’bass, musica sperimentale e rock italiano, ma mai si era cimentato in questo stile da cantautore italiano anni 60-70. Lui infatti cita Tenco e Ciampi come fari nella notte, e ovviamente Fred Buscaglione per il suono adottato. Il disco è stato ben registrato dal chitarrista Lory Muratti,  con uno stuolo di musicisti legati al mondo del pop e del jazz, tutti adatti allo stile da chanssonier alla Paolo Conte o Vinicio Capossela prima maniera di queste canzoni. I sapori jazz sono dunque preponderanti grazie alla sezione fiati di Tarcisio Olgiati e Mauro Brunini, al contrabbasso da locale fumoso (ma non si può più fumare, mi raccomando, resta solo il sapore nella musica) di Francesca Morandi, e dal pianoforte di Mauro Banfi. In questo scenario si inseriscono le chitarre flamenco di Marco Talamona e la batteria di Pier Tarantino, che si mette in gran evidenza nella più sperimentale Parole.

Per il resto Zangara canta con tono basso e quasi sospirato come il genere richiede, e brani come Una Corsa o Dall’altra parte del Mare si rivelano essere più che finemente arrangiati anche grazie al gioco di voci jazz di Leila Rossi eElisabetta Girola. I testi seguono il flusso di pensieri dell’uomo che vive la notte come momento intimo, sia per ricordarsi di passati amori (Giorni e Notti), sia per vivere la propria solitudine, sofferta (Silenzi  Irrequieti) o fiera (Sono Quel che Sono), il tutto ammantato da quell’amore per il jazz raccontato benissimo nel finale di Senza Meta. Consigliato agli spiriti della notte.

 

Nicola Gervasini

 

KAIA KATER

 

Kaia Kater

Strange Medicine

(2024, Free Dirt Records)

File Under : Talkin’ Bout the Revolution 

 

Non so se vi ricordate ancora uno dei più controversi episodi della storia militare statunitense, l’intervento a metà anni 80 nell’Isola di Grenada per destituire il governo filo-comunista di Maurice Bishop, perché proprio il padre di Kaia Kater fu uno degli abitanti dell’isola che nel 1986 approfittò di un programma di emigrazione in Canada conseguente a quella invasione. E deve essergli sembrata un paradiso Montreal dopo una esperienza di guerra, come anche poter realizzare il sogno di poter mandare la figlia a studiare in una esclusiva Università del West Virginia. Ma lì la giovane Kaia ha dovuto sperimentare sulla propria pelle quanto razzista, patriarcale e per nulla inclusiva possa essere la società statunitense, ma per fortuna poi esiste la musica a salvarci l’anima, e forse anche la pelle. Nasce da lì il suo interesse per il folk di protesta tradizionale, più che di Bob Dylan parliamo proprio di quello di Odetta o Pete Seeger, e anche l’indicare Nina Simone come proprio punto di riferimento umano e artistico la dice lunga sulla sua formazione.

Già nell’album Grenades del 2018 ci aveva raccontato la storia della sua famiglia e le sue sofferenze, ma con Strange Medicine la giovane folksinger fa davvero un gran passo avanti in termini sia di scrittura che di produzione. Nonostante i suoni siano decisamente più pieni ed elaborati, restiamo comunque sempre in ambito folk, anche fieramente come ci racconta Maker Taker, piccola invettiva contro le logiche del mercato artistico. Ma già la partenza un po’ allucinata di Witch fa capire che ci stiamo muovendo su terreni anche più sperimentali (anche grazie ai corposi arrangiamenti di Franky Rousseau, già visto all’opera al fianco di Andrew Bird), quasi più alla Donovan nella sua seconda fase mi viene da dire, tornando a citare eroi di altri tempi, ma potremmo anche citare Emma Tricca ad esempio. E proprio Witch fa capire che la Kater va oltre i racconti personali e passa direttamente all’ invettiva sociale prendendo a prestito la vicenda delle streghe al rogo, probabilmente il simbolo storico preferito quando si deve parlare di oppressione delle idee e negazione delle libertà. Salvo poi tornare sulla storia di Grenada coinvolgendo nientemeno che Taj Mahal in Feldon, o alle riflessioni più personali di In Montreal (un bel duello tra banjo e volino) e Often As An Autumn.

Il campionario acustico si completa con il fingerpicking di The Internet o le atmosfere un poco più sofisticate di Foodlights. Anche se la vocalità è molto diversa, non può non venire in mente la prima agguerritissima Tracy Chapman vedendola in azione, anche se la Kater pare voler far tesoro di più influenze per arricchire il suo folk, pur rimanendo ancora concentrata sulla serie di messaggi al mondo (History in Motion sa quasi di proclama) di una donna che ha tanta energia, ma anche tanta rabbia da sfogare. Un disco antico nell’ossatura ma moderno nella forma, ma soprattutto vivissimo nello spirito, che soprattutto ci porta la buona notizia di una nuova canzone militante che pareva ormai sparita da un mondo indie-folk tutto rivolto al racconto della propria sofferta intimità.  E’ invece il momento di “trasformare ogni veleno in una medicina”, e sono proprio queste le parole di Herbie Hancock che la Kater cita per spiegare il titolo del disco. E noi da buoni dottori del folk questa medicina ve la prescriviamo con l’avvertenza di eccedere pure nel dosaggio.

Nicola Gervasini

 

MARINA ALLEN

 Marina Allen

Eight Pointed Star

(Fire Records, 2024)

File Under: Absolute Beginners

 

Marina Allen è solo una delle più giovani autrici di una lista ormai lunghissima di artiste, da Laura Marling ad Aldous Harding, fino a Angel Olsen o Courtney Barnett (ma ne dovrei citare davvero più di duecento), che hanno creato un onda tutta femminile di nuovo cantautorato che parte sempre da basi storiche solide (in genere potremmo dividere le “JoniMitchelliane” dalle “Laura Nyriane” o “CaroleKinghiane”, ma sempre lì si va a parare con i riferimenti), aggiungendo via via elementi che, a seconda dell’ispirazione, arrivano dalla dark/new wave (la sottocorrente delle “Katebushiane o Siouxiesiane”), come dal pop (Debbie Harry, ma persino Madonna, sono ancora i poster nelle camerette di molte di loro), dal folk e dalla country music, senza porsi troppi limiti.

 

In questo scenario l’americana Marina Allen si è mossa secondo un percorso direi quasi obbligato, con inizi di alt-folk scarno con l’EP Candlepower, l’affinamento degli arrangiamenti del primo album Centrifics, e ora questo Eight Pointed Star, dove in un soliloquio (suona quasi tutti gli strumenti lei, sotto al guida del produttore Chris Cohen), cerca una via più personale, e se vogliamo anche sperimentale, per la sua proposta musicale. L’album, 9 canzoni per mezz’oretta di musica, è un intenso viaggio attraverso testi dedicati ad alcuni artisti dilettanti che lei ha incontrato nel suo percorso, e di cui dice di sentirsi ancora parte, prima fra tutte la regista sperimentale Maya Deren a cui dedica l’ossessiva Deep Fake. Gli elementi musicali invece sono quelli di un folk elaborato, con voci e suoni ad intersecarsi e sovrapporsi, con qualche tastiera in più del solito (ma senza mai poter far parlare di vero e proprio uso di elettronica), il tutto a creare una avvolgente atmosfera quasi psichedelica. E se forse resta la sensazione che possa ancora spingersi oltre, brani davvero notevoli come Red Cloud o lo splendido finale di Between Seasons indicano che il percorso è quello giusto per lei.

 

La brevità dell’album evita forse di farsi venire a noia un disco che comunque evita i cambi di passo e i salti stilistici (Love Comes Back prova ad alzare il ritmo ma non esce dall’amalgama di suoni e voci complessivo). Il discorso generale da fare sarebbe magari notare come, con tutte le loro peculiarità, tutte queste cantautrici nella stragrande maggioranza dei casi giocano la carta dell’arrangiamento raffinato e studiato, della canzone intima ed eterea, e comincia a serpeggiare un po’ il dubbio che un certo nuovo manierismo affiori anche in quella che resta comunque la corrente musicale che più di tutte sta salvando la musica folk e derivati in questi ultimi anni. Normale che sia così, la Allen arriva quando ormai già tante colleghe sono avanti con la carriera, e si accoda alla schiera con un album che suona bello, ma è difficile dire quanto riuscirà a diventare anche importante. Intanto godiamocelo.

 

Nicola Gervasini

LAETITIA SADIER

 

Laetitia Sadier - Rooting For Love

Drag City - 2024.

Ha  56 anni Laetitia Sadier, e un curriculum lungo più di 35 anni tale da renderla una delle indiscusse icone del mondo alternative/indie degli ultimi anni, soprattutto grazie alla band che fondò a Londra nel 1990, gli Stereolab. Lei è da sempre membro fondamentale per la band con la sua voce e tastiera (e all’occorrenza anche chitarre), con il sodalizio compositivo con Tim Gane che ha fatto funzionare il loro ambient-pop per 20 anni, fino al 2010, quando il decimo album Not Music ha chiuso per ora la loro storia discografica (ma non quella del gruppo, che resta attivo in tour). Da allora la Sadier, ha chiuso anche l’esperienza dei Monade, il suo side-project storico (3 album all’attivo), per cominciare a pubblicare a proprio nome, una carriera solista che arriva con questo Rooting For Love al quinto capitolo. Disco che ha tutta l’aria di poter rappresentare un punto di svolta, perché dopo quattro album che parevano cercare una marca personale, qui la Sadier pare avere le idee chiarissime su dove vuole andare, abbracciando tutta la tradizione francese ancor a più di quanto abbia mai fatto con gli Stereolab o da sola.

Per cui, in una curiosa ma avvincente alternanza di brani francofoni e anglofonI, via a rimandi a Françoise Hardy (The Inner Smile), al pop della  Jane Birkin degli anni settanta, ma ancor più a quel mix di elettronica e easy-pop dei dischi migliori della figlia Charlotte Gainsbourg. In più, sperimentalismi e azzardi vari (La Nageuse Nue), e un grandissimo lavoro di arrangiamenti vocali (ospite fisso è un intero ensamble vocale chiamato semplicemente The Choir) e strumentali (con lei fanno tutto Hannes Plattmeier  e Emmanuel Mario, noto come Astrobal).

Ma al di là di aver trovato i collaboratori più adatti a questo suono, che unisce sapientemente sonorità vintage e modernità varie (tra i vari aiuta molto anche il bassista degli Stereolab Xavi Muñoz, con i suoi groove da funky-dance di altri tempi), traspare in questi dieci pezzi una consapevolezza maggiore di avere voglia di proseguire da sola, portando sempre più fieramente nel mondo anglosassone la propria cultura musicale francese (il singolo Panser L'inacceptable avrebbe fatto innamorare perdutamente Serge Gainsbourg), ma non dimenticando tutto il proprio amore per il pop indipendente londinese (Who + What o New Moon, quest’ultimo brano che era già uscito in periodo di lockdown). E non dimentichiamo poi i testi, da sempre molto impegnati nelle lotte sociali ed ecologiche, e spesso sfocianti in vere e proprie polemiche politiche, qui forse tenuti più a freno del solito in nome di una generale ricercata eleganza, ma pur sempre presenti nella sua scrittura. Non è per tutti palati Rooting For Love, ma consigliamo a tutti di provare un assaggio che potrebbe rivelarsi assai gustoso.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

THE BEVIS FROND

 

The Bevis Frond - Focus On Nature

2024, Fire Records

Probabilmente esiste una sorta di universo parallelo in cui vivono una razza di musicisti marziani che paiono completamente avulsi dal mondo dello show business o da qualsiasi scena del mondo del rock, e vivono nel loro mondo da decenni pubblicando la loro musica fuori dal tempo, dalle mode, e probabilmente fuori anche dal pianeta terra appunto. Gente come Robyn Hitchcock, Julian Cope, o come anche Nick Saloman, che alimenta da anni il rock più psichedelico e sotterraneo di terra britannica con una produzione da sempre pingue e continua. Con la sigla The Bevis Frond Saloman è arrivato al ventinovesimo titolo dal 1987 ad oggi, ma potrei anche aver sbagliato i conti visto il disordine dato dall’autoproduzione tramite la sua Woronzow Records e altre etichette, e davvero dovessi consigliare qualche suo titolo dovremmo scrivere un libro a parte.

Ci importa segnalare però che in un epoca di album di vecchie glorie del classic-rock che, nonostante abbiano ancora qualcosa da dire, ci fanno scrivere “se non conoscete questo artista non partite da questo ultimo album, ma dai suoi classici”, questo doppio e lungo Focus on Nature potrebbe invece davvero rappresentare un ideale “Greatest Hits” del personaggio, nonostante di vere “Hit” lui non ne abbia mai avute, e soprattutto nonostante questo materiale, ben 19 canzoni, sia tutto nuovissimo e non certo d’archivio. Ma stilisticamente qui c’è tutto il suo mondo, prodotto al meglio tra l’altro, visto che dopo il precedente (sempre doppio) Little Eden, che era frutto di registrazioni casalinghe da era-lockdown, qui Saloman ha riunito in uno vero studio di registrazione di Bexhille-On-Sea alcuni ottimi musicisti della scena UK come Dave Palmer, Paul Simmons Dave Pearce e Louis Wigett.

Per cui non spaventatevi troppo per la mole dell’album, e, soprattutto, chi segue The Bevis Frond, sa benissimo che è inutile fare discorsi di opportunità discografica e strategie di mercato, se si entra in questo album si accede quasi in una sorta di setta religiosa dedita a quel mondo folk e psych-rock di derivazione sixities che ha sicuramente in Syd Barrett l’indiscusso capostipite e gran maestro. Poi Saloman ci mette in più chitarre distorte, tra Jimi Hendrix (The Hug) e John Cipollina (godetevi quel lungo gioiello che è Mr. Fred Disco), ci mette melodie da pop band lisergica d’altri tempi tipo i Blus Magoos o similari (Happy Wings), ci aggiunge tutta la lezione dell’underground anni 80 (God’s Gift), e condisce il tutto con testi divertenti o volutamente stralunati (A Mirror). Ci mette, insomma, la propria fiera appartenenza ad una cultura che era lontana dalla modernità già fin dalla nascita.

Poi qui e là ci mette pure il fatto che se vuole scrivere una grande canzone lo sa fare (vedi ad esempio Brocadine), e avrete già abbastanza buone ragioni per comprare un album che, al di là di un vago filo conduttore ecologista che lo anima nelle liriche, rappresenta un piccolo manuale di un suono che non conosce davvero stanchezza e vecchiaia.

 

Nicola Gervasini

VOTO:7,5

THE JESUS AND MARY CHAIN

 

The Jesus and Mary Chain - Glasgow Eyes

2024, Fuzz Club

Chi c’era se lo ricorderà, era il 1989, e dopo due album come Psychocandy (1985) e Darklands (1987), che avevano già fatto in tempo a diventare di culto e a dare il via ad un domino di band che amava nascondere il volto dietro un muro di chitarre distorte (di fatto si erano inventati lo shoegaze senza saperlo), i Jesus and Mary Chain fecero con Automatic il fatidico passo che non ti aspetti. Oggi, pronti a celebrare i 40 anni di vita con un Tour (per ora unico appuntamento italiano a Milano il prossimo 17 aprile), una autobiografia e un nuovissimo album intitolato Glasgow Eyes, ecco che la band dei fratelli Reid ci riprova a rimescolare le carte, e se nel 1989 era una drum-machine e un basso sintetico (a posteriori anche abbastanza pesanti e grezzi, sebbene Automatic resti un disco pieno di canzoni importanti) la pietra dello scandalo, oggi sono delle basi elettroniche che sorreggono praticamente tutti i brani del nuovo album.

La differenza è che oggi nessuno griderebbe mai allo scandalo se i Reid si presentano citando Kraftwerk e Suicide come numi tutelari del nuovo disco, se si azzardano a dire che stavolta la libera improvvisazione delle chitarre si ispira ai loro ascolti jazz, perché è il 2024, e gli steccati mentali che negli anni 80 animavano pubblico e critica sono ormai cambiati, se non proprio caduti. Semmai è positivo che dopo un comeback-record che semplicemente cercava di recuperare il suono di un tempo per dimostrare che nulla era cambiato (Damage and Joy del 2017), Glasgow Eyes dimostra un po’ più di coraggio e voglia di metterci la testa. Inutile quindi fare paragoni con il loro passato, i fratelli Jim e William Reid qui sfornano tutto il loro migliore campionario di chitarre acide, voci sofferte e strozzate, e brani come l’accattivante singolo Jamcod o American Born suonano come dei nuovi classici della band.

Ma al di sotto pulsano ritmiche e suoni sintetici che in alcuni casi ottengono l’effetto desiderato (Venal Joy), in altri magari paiono più forzati e in fondo non così né nuovi né necessari (Chemical Animal). Quella di sposare un suono per un intero album, a costo anche di finire a ripetersi, è sempre stata un po’ una loro peculiarità, pensiamo, oltre al già citato Automatic, anche al sound elettro-acustico adottato in Stoned & Dethroned del 1994, che veniva reiterato per tutto il disco, con l’effetto di far sembrare un po’ tutte simili le canzoni, e anche qui, trovata la formula, eccoli seguirla fedelmente dall’inizio alla fine. Rispetto al tutto sommato dimenticabile predecessore però qui i Reid scrivono brani più convincenti, che parlano ad un pubblico ormai invecchiato che sorriderà per un titolo come The Eagles and The Beatles, o per l’autoironica Hey Lou Reid, o valuterà pure positivamente la finta soundtrack, sperimentale quanto sarcastica, di Mediterranean X Film.

Insomma, i Jesus and Mary Chain si sono convinti che se proprio bisogna vivere di revival e festeggiare compleanni importanti come i 40 anni di attività, meglio farlo con un minimo di umorismo ed energia, e magari rimestando un po’ la minestra del classic rock, che ormai comprende anche questo tipo di elettronica essenziale, che sperimentale ormai non è più da anni.

Nicol Gervasini

VOTO: 7

 

AGNESE VALLE

 

Agnese Valle - I Miei Uomini

Maremmano Records, 2024

 

Nata clarinettista classica, con tanto di diploma al conservatorio, Agnese Valle si è trasformata in una delle più interessanti cantautrici del sottobosco musicale italiano. Tre album all’attivo, fin dall’esordio Anche Oggi Piove Forte... che nel 2014 la portò subito tra i finalisti della Targa Tenco come opera prima, seguito poi da Allenamento al Buonumore del 2016 (che è anche il titolo di una trasmissione radiofonica tenuta su Radio Elettrica) e Ristrutturazioni del 2020. Per il suo quarto album l’artista romana ha voluto comporre un omaggio alle maggiori influenze della sua arte, con un disco di cover italiane significativamente intitolato I Miei Uomini. Oltre ad esser un disco ben prodotto e arrangiato, l’album è anche un significativo esempio di come in fondo il cantautorato classico italiano (ad esempio quello di Francesco Guccini, di cui qui si riprende in chiave quasi trip-hop la splendida Autogrill) e quello più indipendente degli anni 2000 (ad esempio Brunori Sas, di cui si rilegge Kurt Cobain) siano figli della stessa musa ispiratrice. Poi, si sa, quando si tratta di cover così  sta a voi decidere se ha senso fare il confronto con l’originale o se lasciarvi trasportare da una interpretazione che in fondo riscrive il brano come se fosse un inedito.

 

In ogni caso ci sono i grandi nomi del nostro panorama musicale, da Francesco De Gregori reso in chiave melò con La Valigia dell’Attore, una rilettura decisamente dance di Baratto di Renato Zero (piacerebbe ai La Rappresentante della Lista fatta così, ma credo anche al suo stesso autore), un Lucio Dalla del periodo d’oro con una curiosa ma riuscita versione di Telefonami Tra Vent’Anni. Il percorso è scandito da un sottotitolo che la cantautrice si permette di aggiungere ad ogni brano (ad esempio Autogrill è “L’incontro”), creando così un ideale concept-album scritto da penne altrui, ma decisamente personalizzato, con tanto di “Sipario” finale in cui la cantautrice presenta a voce il disco, idea decisamente insolita di fare crediti e ringraziamenti a tutti gli attori coinvolti nel progetto, e che serve anche ad auto-festeggiare i suoi primi dieci anni di carriera.

 

Brani classici come Ragazzo Mio di Luigi Tenco (ma portata al successo da Loredana Bertè, che l’ha riproposta come auto-cover anche nel recente Festival di Sanremo) si intersecano perfettamente con testi più recenti (ad esempio Altrove, bel brano di Morgan, che la Valle rende quasi in stile Mina). Tra i brani compare comunque un inedito, La Fioraia, bel pezzo firmato da Pino Martino. Prodotto da Fabrizio Fratepietro con un gusto perfettamente calibrato tra fruibilità pop e velleità autoriali, I Miei Uomini è un album che offre riletture intelligenti e comincia anche a fare un punto della situazione su dove sia arrivata la canzone d’autore nostrana che potrebbe essere utile a tutti. Costituisce in ogni caso una “milestone” importante nella carriera di questa autrice che attendiamo presto con un nuovo lavoro di inediti

 

Nicola Gervasini

VOTO: 7

BETH GIBBONS

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