Hayes Carll
We’re Only Human
(2025, Hwy 87 Records)
File Under: Making Amends
Prima o poi arriva un momento nella vita di un uomo in cui ci si auto-rivolge qualche pensiero
motivante, in cui si riguarda agli errori del passato e si fanno buoni propositi sul futuro, o in cui
si decide cosa veramente conta, e quale, delle innumerevoli voci che ci parlano, seguire. Non è
facilissimo per molti, ma sicuramente un artista ha un modo ideale per farlo attraverso la sua
opera. Ed è così che anche per un musicista come Hayes Carll, ormai sulla strada del
cantautorato americano da più di vent’anni, pare ovvio arrivare a scrivere un disco come We’re
Only Human, chiaramente un album rivolto prima di tutto a se stesso, prima ancora che ad un
pubblico. E non parliamo neanche di un album “intimo”, nel senso di confessione di una
“another side“ di se stessi (per dirla alla Dylan), ma proprio di una sorta di lunga predica auto-
rivolta, e quindi per forza di cose autoreferenziale.
Bisognoso di una disperata ricerca di risposte, Carll usa il veicolo di una religiosità laica mai
direttamente espressa, con temi ricorrenti come la ricerca di un perdono o di una grazia (ad
esempio in Make Amends), che sono cari al cattolicesimo americano, ma che rimangono
comunque sospesi ad un livello di riflessione personale. Il titolo infatti parla di umanità, parla a
se stesso usando però un plurale, anche quando nella title-track ricorda che nel mondo si
parlano seimila lingue, ma per dire tutti le stesse cose. E così il disco cerca la pace, interiore
(What I Will Be), o anche quella donata da un uccellino che canta visto dalla veranda di casa
(Stay Here a While, scritta con MC Taylor, aka Hiss Golden Messenger).
Di fatto la condizione di Hayes è la stessa di molti di noi, con una modernità che ci pare fuori
controllo o fuori logica, cantata in Progress of Man (Bitcoin and Cattle), o con la ricerca di
contatti umani affini che non siano solo virtuali di Good People (Thank Me). Nato alla scuola di
songwriting di John Prine e Loudon Wainwright III, Carll non evita ogni tanto qualche tono
ironico o sarcastico (High), ma il clima è decisamente più serio dei suoi standard abituali, e in
casi come I Got Away with It, anche abbastanza drammatico. C’è comunque gran spazio per la
speranza (One Day), e per una riconciliazione finale con il mondo, resa in un pezzo cantato a
più voci come May I Never (una idea simile alla chiusura che fece Nick Cave del disco Murder
Ballads), dove Carll chiama a raccolta alcuni amici a noi ben noti come Ray Wylie Hubbard,
Shovels & Rope, Darrell Scott, Nicole Atkins e Gordy Quist e Ed Jurdi dei The Band of Heathens.
Disco formalmente ineccepibile, prettamente acustico ma con anche molti interventi esterni
(compresi i fiati), We’re Only Human è un album intenso e importantissimo per il suo percorso
di crescita, che conferma però i pregi e difetti che da sempre ha caratterizzato la sua
produzione, con quel vago “accontentarsi” di soluzioni semplici e raffinate, quanto un po’ ovvie,
che impedisce un po’ di caratterizzarlo e identificarlo con uno stile tutto suo subito
riconoscibile.
Nicola Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento