Immaginate un Lee Hazlewood riletto da Nick Cave, Mark Lanegan o soprattutto Bill Callahan (davvero simile la voce in alcuni momenti), con una produzione decisamente più britannica che potrebbe anche richiamare alla mente il Richard Hawley di Cole's Porter. Il bello sta tutto nella perfezione formale che fa si che questo album stia ottenendo più attenzioni del solito, grazie a brani come la title-track o l'ottima The Stranger. Crowley cerca il punto di svolta della sua carriera attraverso brani decisamente suggestivi, e in parte riesce ad impressionare, ma scivola poi però nell'insistenza su un manierismo programmatico che rende la sua proposta infine un po' monocorde. Derivazioni di folk irlandese (molto bella The Magpie Song in questo senso) e new wave britannica vecchia e meno vecchia (The Hungry Grass sta tra gli Echo & The Bunnymen e i Tindersticks come ispirazione) si mischiano in un suono caratterizzato spesso dagli archi forniti da alcuni membri dei Geese, un ensamble londinese di archi molto noto nell'ambiente classico. La produzione di Steve Shannon, da sempre suo collaboratore , è patinata e decisamente estetizzante. Il limite è implicito: Crowley non cambia mai registro, e talvolta esagera nel buttarsi in atmosfere nebbiose (Follow If You Must suona come un omaggio al Leonard Cohen prima maniera, ma non ne eguaglia né la liricità, né la grazia, mentre il lungo spoken di The Wild Boar appare un momento di inutile calo di tensione). Dopo un inizio brillante, la parte finale del disco stanca e annoia e richiede a gran voce un cambio di ritmo che non arriva mai. Sarà forse per questo che Crowley continua a essere una promessa non mantenuta, anche quando con Some Blue Morning raggiunge la sua personale maturità. |
lunedì 27 aprile 2015
ADRIAN CROWLEY
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