giovedì 16 aprile 2015

SWAMP DOGG



Swamp Dogg
The White Man Made Me Do It
(Alive Naturalsound, 2014)
File Under: Total Reconstruction of your Soul

Perché poi alla fine succede sempre così: il New Soul ha vissuto bene negli anni 2000, grazie a tante giovani leve (da Sharon Jones a Black Joe Lewis) e qualche vecchio miracolosamente promosso in serie A dopo una esistenza nell’ombra (Lee Fields, Charles Bradley), ma alla fine è quando si muovono i grandi nomi del passato che le cose acquistano un grande spessore. E così se purtroppo Solomon Burke ci ha abbandonato proprio sul più bello, dal passato si risveglia improvvisamente Swamp Dogg, nome meno altisonante solo per chi non ha mia veramente studiato black music. E basterebbero anche solo i sette minuti della title track che aprono questo The White Man Made Me Do It a spazzare via tutti questi anni di soul rigenerato, con una funky-song che insegna a tutti come si arrangiano i fiati, come si tiene un ritmo, e come si può fare critica sociale con tagliente ironia. Autore di una serie di album straordinari all’inizio degli anni settanta (non tornate a casa senza avere una copia di Total Destruction to Your Mind del 1970), in cui praticamente scrisse tutto quello che il new soul odierno ha poi riletto fedelmente, Swamp Dogg è stato artista intelligente quanto discontinuo. Colpa proprio di quella sua versatilità e capacità di bypassare gli schemi classici del soul, di proporre con ironia e un pizzico di irriverenza anche una Sam Stone di John Prine al pubblico nero in piena guerra era del Vietnam, di usare liriche spesso volgari e politicamente scorrette, tanto da essere stato visto un po’ come il Frank Zappa della black music. S’era un po’ perso fino ad oggi, come tutti, ma The White Man Made Me Do It lo rimette in pista alla grande. E ce lo restituisce esattamente come ce lo ricordavamo: autoironico (“sono il più riuscito fallimento degli Stati Uniti” ha dichiarato presentando il disco), socialmente irriverente (il titolo rievoca vecchie battaglie anti-razziste, combattute sempre con l’arma del sarcasmo e non con quella della rabbia, come suo stile) e con la solita vecchia gran bella voce a condire irresistibili funky jam e intense soul-ballads. Album lungo (14 brani per più di sessanta minuti) ma in fondo necessario, The White Man Made Me Do It è una piccola festa che fa un riassunto di una carriera attraverso suoni e melodie certo non innovative. La chitarra acida di Lying Lying Lying Woman è ancora oggi la partitura su cui Lenny Kravitz ha costruito una ben più fruttuosa e furba carriera, Il solare reggae-soul di Renae, soul-ballad da manuale (You Send Me), blues (Let Me Be Wrong) rhythm & blues (Your Cash Ain’t Nothing But Trash) e qualche azzeccata cover (la sempre trascinante Smokey Joe’s Cafe di Leiber e Stoller) . Non manca nulla, neanche un tributo a Sly Stone in Can Anybody Tell Me Where is Sly? che sa di nostalgia per i tempi in cui questa musica segnava la via a mille artisti, con una punta anche di autoironia sulla consapevolezza di quanto anche questo disco sia ormai fuori dal tempo. Eppure il soul che passa nelle vene di questi brani è lo stesso che ha ripopolato gli stereo di questi anni, per cui ben venga che ci sia qualche vecchio professore che ne ribadisca l’eterna modernità.


Nicola Gervasini

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