domenica 20 dicembre 2020

DEAD FAMOUS PEOPLE

 


  

 

Dead Famous People
Harry
[Fire records 2020]

 Sulla rete: deadfamouspeoplefire.bandcamp.com

 File Under: Old Zealand


di Nicola Gervasini (12/11/2020)


La storia dei Dead Famous People ha origini lontane, addirittura nel 1986, quando ad Aukland, in Nuova Zelanda. Dons Savage e Elizabeth (Biddy) Leyland fondarono il quintetto. Qualcuno magari si ricorda la loro versione di True Love Leaves No Traces di Leonard Cohen contenuta in uno dei primi tribute-records dedicati al canadese (I’m Your Fan del 1991), oppure il loro disco di esordio del 1989 Arriving Late in Torn and Filthy Jeans, fortemente voluto da Billy Bragg, che lo fece uscire per la sua Utility. Harry è però soltanto il terzo album della band (il secondo, Secret Girls Business, uscì nel 2002), perché i due negli anni hanno avuto tante pause, ma sono stati comunque semore attivi, anche con collaborazioni di rango (la voce di Dons Savage si può sentire in alcuni brani dei Saint Etienne e dei Chills).

Sarà forse per questo che Harry, disco realizzato grazie alla Fire Records, suona davvero come un freschissimo disco di power-pop degli anni 80, in cui la scuola Elvis Costello (l’organetto che segna l’iniziale Looking At Girls è tutto suo, e Dog addirittura potrebbe appartenere a Graham Parker) e quella di tutto il college-rock di quel decennio, si fonde con lo spirito indie degli anni 2000. E così i fiati e campanelli di perfette pop-song come Safe and Sound Turn On The Light fanno ben capire come si è arrivati nel tempo a certe ariose aperture pop di Belle And Sebastien, così come il piglio puramente pub-rock di Goddes of Chill ricorda quanto la filosofia della chitarra jingle-jangle resti la colonna portante di tutto un mondo indie-pop. Ovvio che nel 2020 sia tutto un “già sentito”, perché poi forse basta prendere un disco dei Sundays dei primi anni 90 o degli Shins nei 2000 per ritrovare gli stessi sapori, ma qui abbiamo dei veterani che semplicemente cercano di riprendersi qualche onore perso per strada in una carriera a singhiozzo.

E allora prendete una ballata come Dead Birds Eye, immersa in una costruzione armonica fatta di cori, organi e chitarre e un basso che governa il tutto, e vi rendete conto di quando l’arte dell’arrangiamento pop, al limite del wall of sound di Phil Spector, è qualcosa che pochi sanno maneggiare con destrezza, evitando quindi lo stucchevole. Harry è un disco che prende fin dal primo ascolto, non cerca di complicarsi la vita con canzoni troppo intricate (Groovy Girl sa di brano scritto in due minuti, ma funziona alla grande forse proprio per quello), ma ha comunque sostanza anche nella scrittura (l’intensa The Great Unknown con il suo cambio di passo improvviso è veramente un piccolo manuale in tal senso), arrivando anche con la title-track finale a toccare corde melodiche da pop anni 80 alla Aztec Camera o Prefab Sprout.

33 minuti il minutaggio finale, non uno di troppo, e se non è Harry il disco che cambia le sorti di questo infausto 2020, sicuramente lo rende più allegro e sopportabile.


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