martedì 28 dicembre 2010

DAVID LEONARD - The Quickening


Ci sono copertine che gridano "stammi lontano! Non comprarmi! Sono robaccia da scartare dopo due note!", e The Quickening di David Leonard nel genere è davvero da competizione, con buone probabilità di vittoria come cover più pacchiana dell'anno. Come se non bastasse, sul retro si legge che il buon Leonard ha fatto tutto da solo (coadiuvato dal batterista Steve Holley), ma in studio ospita una bella accolita di attempati sopravvissuti del rock anni '70, la classica compagnia che si ritrova dopo anni per fare uno un cd che definire "nostalgico" è l'eufemismo giusto per non dover sparare un "vecchio" che non lascia scampo. Ma prima serve fare un passo indietro, perché vi starete ancora chiedendo "Sì, va bene, ma chi diavolo è David Leonard"? E' una vecchia anticaglia del mondo del rock pure lui, con anni da turnista delle sei corde alle spalle dell'ex Television Richard Lloyd, e poi lavori in back-office per Chuck Berry, Cindy Lauper, e una nutrita e musicalmente variopinta schiera di artisti, come da copione di un tipico session man.

E che fa un uomo del genere, con alle spalle un solo album solista del lontano 1984, e nulla da perdere? Semplice: scrive tranquillamente canzoni, le registra tra Brighton e New York in studi di registrazione da sogno, e si porta appresso i figli piccoli (è una vocina infantile infatti che batte il tempo iniziale di Turn The World). E incontra vecchie conoscenze dicevamo: in tre brani suona alla grande il chitarrista Rick Derringer, sei corde dei McCoys negli anni 60 (la ricordate Hang On Sloopy?), sparring partner dei fratelli Johnny e Edgar Winter negli anni 70 (con anche qualche breve successo personale, ricordate Rock 'n Roll Hoochie Koo?), e infine negli 80 scopritore e produttore del talento comico di Weird Al Yankovic. Altrove appaiono invece le percussioni di Mick Fleetwood, padre-padrone dei Fleetwood Mac e la chitarra di Chris Spedding (anche lui ha suonato con il meglio degli anni 70, da Elton John ai Roxy Music). A valle di tutto c'è però una sorpresa: The Quickering, lungi dall'essere un disco che cambia qualcosa nelle nostre vite, è un prodotto comunque piacevole, che scava a piene mani nel garage-rock degli anni 60, mischiando lunghe schitarrate bluesy (Turn The World e She's A Woman) a qualche buona prova d'autore (Garden Of Regrets).

Le due cover presenti d'altronde sono lì a chiarire gli intenti, visto che si parte da I Had To Tell You dei 13th Floor Elevators, per poi approdare ad una dylaniana My Back Pages, un brano che Bob scrisse guardando al passato dopo solo 4 anni di carriera, mentre questi onesti vecchierelli possono permettersi di cantarlo al massimo dopo 40, ma ad ognuno il suo giusto tempo. Nostalgico e retrogrado, questo è The Quickering, un disco che ti lascia con l'idea che un giorno, quando questo rock sarà morto veramente, forse avremo nostalgia noi stessi anche di questi bei sottoprodotti generazionali.
(Nicola Gervasini)

martedì 14 dicembre 2010

TOP 2010: Le mie classifiche di fine anno




Diciamolo subito: il 2010 non è stata una grande annata per me. Sono pochi i dischi che mi resteranno nella memoria, e per fare la mia tradizionale top 50 alla fine ho pure trovato spazio anche per Le Noise di Neil Young - il che è tutto dire - e cose comunque non eccelse. Tra le 10 delusioni ci sono anche dischi discreti (i National restano un bel sentire), ma qualche alunno in castigo ci vuole per mantenere l'ordine. Vittoria a 3 vecchi quindi, uno pure morto mentre promuoveva il disco, il primo che ancora ci chiediamo come mai non sia morto, mentre Wolf salta ancora come un ragazzino ma bazzicava il grande rock già a fine anni 60

E allora se classifica vecchia deve essere, che lo sia veramente, e premio al duo Elton John - Leon Russell, il loro disco non vale più dei dischi caldi dall'11 al 20, ma semplicemente loro mi sono più simpatici



LA MIA TOP 10






1 ROKY ERICKSON & OKKERVIL RIVER True Love Cast Out All Evil


2 SOLOMON BURKE & DE DIJK Hold On Tight
3 PETER WOLF Midnight Souvenirs

4 HOODOO GURUS Purity Of Essence
5 NATALIE MERCHANT Leave your sleep
6 JOHN GRANT Queen Of Denmark
7 DELTA SPIRIT History From Below
8 ALEJANDRO ESCOVEDO Street Songs Of Love
9 JAMEY JOHNSON The Guitar Song
10 ELTON JOHN + LEON RUSSELL The Union


DISCHI CALDI (applausi)

11 JACK SAVORETTI Harder Than Easy
12 JASON & THE SCORCHERS Halcyon Times
13 JOHN MELLENCAMP No Better Than This
14 JESSE MALIN Love It To Life
15 MAVIS STAPLES You're Not Alone
16 DIRTMUSIC Bko
17 MARY GAUTHIER The Foundling
18 RON WOOD I Feel Like Playing
19 RICHARD THOMPSON Dream Attic
20 RAY LAMONTAGNE God Willin' & The Creek Don't Rise

il resto della TOP 50 (applausi, critiche ma grazie comunque)

21 SLUMMERS Love Of The Amateur
22 LEE HARVEY OSMOND A quiet Evil
23 PATTY GRIFFIN Downtown Church
24 JOSH RITTER So runs the world away
25 TOM JONES Praise and Blame
26 RAY WILIE HUBBARD A. Enlightenment B. Endarkenment (Hint: There is No C)
27 ALOE BLACC Good Things
28 DR. JOHN Tribal
29 STAN RIDGWAY Neon Mirage
30 SHARON JONES & THE DAP-KINGS I Learned The Hard Way
31 JOHNNY CASH American VI: Ain't No Grave
32 WILL KIMBROUGH Wings
33 PHOSPHORESCENT Here's to takin'it Easy
34 RYAN BINGHAM Junky Star
35 ROBERT PLANT Band Of Joy
36 TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS Mojo
37 OTIS GIBBS Joe Hill's Ashes
38 NEIL YOUNG La Noise
39 TRUTH & SALVAGE CO Truth & Salvage Co
40 JIM JONES REVUE Burning Your House Down
41 PAUL WELLER Wake Up The Nation
42 DAVID FORD Let The Hard Times Roll
43 LOS LOBOS Tin Can Trust
44 MIDLAKE The Courage Of Others
45 ANAIS MITCHELL Hadestown
46 VILLAGERS Become a Jackal
47 TITUS ANDRONICUS The monitor
48 DAVID GRAY Foundling
49 US RAILS Us Rails
50 ADMIRAL FREEBEE - The Honey and The Knife

ITALIAN FILES

1 CHEAP WINE - Stay Alive
2 LOWLANDS - Gypsy Child
3 EVASIO MURARO - O Tutto O L'Amore


citazioni per:
MISS FRAULEIN - The Secret Bond
LUCA MACIACCHINI - Il Boomerang di Dante
SERGIO MARAZZI This Man
FRANCESCO LUCARELLI - Fnd The Light
M. "Gnola" Glielmo & J. Ragazzon - Blues, Ballads and Songs
Lorenzo Bertocchini Hearts of Stone. Some Bruce Springsteen Songs
Daniele Tenca Blues for the Working Class

3 EP per un album che promette bene....
CESARE CARUGI Open 24 Hours
MANDOLIN BROTHERS Moon Road
MOJO FILTER The Spell

3 Canzoni
Se Evasio Muraro
Why You Wanna Go and Do a Thing Like That For Ron Wood
Folk Bloodbath Josh Ritter

Concerto del 2010
a parimerito

Son Volt Cava Di Pusiano
Ian Hunter Alcatraz Milano



LE 10 DELUSIONI DELL'ANNO (clamorosamente fuori dalla top 50:)

1 BONNIE PRINCE BILLY The Wonder Show Of The World
Dopo due capolavori sciorina il peggior disco della sua carriera, dando ragione, per una volta, a chi lo trova infinitamente palloso

2 SHEARWATER The Golden Archipelago
della magia del precedente Rook è rimasto solo il suono, sono scomparse le canzoni

3 MARK OLSON Many Coloured Kite
Lui spesso tende al tedioso. Qui è cpmpletamente teso.

4 GRAHAM PARKER Imaginary Television
Per lui un posticino nei 50 lo si trova sempre. Però ora se ne approfitta, così è davvero troppo poco.

5 MARAH Life Is A Problem
nelle intenzioni un disco ruspante e casalingo. Nel rislutato un indiscrivibile e confuso pasticcio

6 GASLIGHT ANTHEM American Slang
Non è un brutto disco. Ma nel momento di dare il colpo del KO, loro fanno un passo indietro. Sono cose che non si perdonano ad una band pronta a decollare, fuori dalla top 50 per punizione

7 NATIONAL High Violet
Dopo due grandi dischi l'assestamento e la pancia piena. Restano da Top, ma stavolta vanno in castigo

8 SPOON Transference
Il loro genio era la varietà e la capacità di sorprendere. Qui si sono sorpresi da soli.

9 HOLD STEADY Heaven is whenever
Il gioco è bello se dura poco. Sono arrivati al "solito disco" senza passare dalla maturità

10 DRIVE BY TRUCKERS The Big To-Do
Il primo disco "stanco" della loro carriera. Glielo si perdona, ma che non si ripeta più



lunedì 6 dicembre 2010

FOR YOU 2, A tribute To Bruce Springsteen




Il gioco funziona così: innanzitutto definite voi stessi in una di queste tre categorie di fans springsteeniani: A) Monoteista, B) Enoteista, C) Politeista. Aggiungo, per stretta osservanza alle regole statistiche, la quarta opzione: D) Ateo. A questo punto potete leggere la vostra recensione personalizzata.

A) Se siete un
monoteista, quando leggerete queste righe avrete già comprato For You 2, e probabilmente siete finiti qui perché avete come tutte le mattine googlato "Springsteen", arrivando a noi intorno alla 146esima pagina dei risultati. Per voi è quindi superflua la domanda che tutti vorrebbero porre a Ermanno Labianca (deus ex machina del tributo e storico giornalista ben noto al popolo del Boss), e cioè "a che ci serve un nuovo disco tributo a Bruce"?. Semmai vi starete chiedendo a cosa servono tutti gli altri CD dove Bruce non compare. E quindi godrete nel sentire nuovamente i brani del vostro dio, senza magari chiedervi come sia l'ultimo buon disco di quei Lowlands che vi rammentano così bene dell'esistenza di Soul Driver o magari senza arrivare a sapere che quei Rusties che ricalcano paro paro dall'originale Adam Raised A Cain sono ormai qualcosa di più di una semplice cover band di Neil Young in gita premio nel New Jersey. Amerete questo disco per le sue canzoni e per il fatto che sono anche state ben realizzate, e ribatterete alle facili ironie facendo notare che più o meno tutti gli artisti coinvolti sono nati monoteisti come voi, e che quindi nulla di male se li amerete solo per l'appartenenza alla stessa parrocchia.

B) L'
Enoteista (mi faccio aiutare senza vergogna da Wikipedia perché la Treccani ce l'ho nell'altra stanza) indica "la preminenza di un dio su tutti gli altri, tale da accentrare su di esso tutto il culto" (cit. Muller). In altre parole Springsteen è il vostro dio, ma al vostro Olimpo sono ammessi anche altri dei, seppur in totale stato di sudditanza, siano essi Bob Dylan o Joe Grushecky. In questo caso For You 2 non sarà per voi una grande sorpresa, quanto un oggetto prezioso per ricordarvi tutto quel sottobosco italiano che da Springsteen è partito per produrre dischi di gran valore. Per cui magari state già come noi seguendo la progressiva quanto encomiabile maturazione di personaggi come Daniele Tenca, i Cheap Wine, Lorenzo Bertocchini e tanti altri, ma a patto che non si allontanino troppo dal seminato del jersey-sound.

C) Se invece Springsteen è per voi uno dei grandi, ma non necessariamente IL più grande, allora For You 2 potrebbe davvero sembrarvi superfluo, visto che c'è molto di più urgente da sentire nel mercato discografico. Ma se devo spezzare una lancia in favore di questa operazione ("devo"? Anche no, volendo, ma, potendo, lo faccio volentieri), c'è il fatto che, al di là della buona cura con cui è stata realizzata, Labianca è riuscito (molto più che in occasione del primo volume del 1995) a creare un riassunto convincente e quasi completo dello scenario roots-rock italiano (perdonate se non citiamo i singoli, ma il Direttore impone limiti di battute, spazi inclusi). In questo senso qui Springsteen diventa un pretesto e non più il motivo principale, quanto basta per farvi scoprire che springsteeniani magari si nasce, ma imbracciando una chitarra a proprio nome, qualcuno sta riuscendo anche a non morirci.

D) Bruce Springsteen non vi piace, per cui perché interessarsi a For You 2? Magari perchè avete scoperto che per partecipare al progetto si può anche inviare la propria cover tramite il sito ufficiale www.foryouspringsteen.com, e allora perché non sognare un bel For You 3, più alternativo quanto più stimolante, fatto solo da artisti che non amano Springsteen o che comunque non masticano abitualmente il suo verbo? Fatevene promotori, magari la cosa potrebbe piacere anche agli ascoltatori A,B e C.
(Nicola Gervasini)

www.foryouspringsteen.com
www.route61music.com


:: La Tracklist

CD 1
Riccardo Maffoni - "It's hard to be a saint in the city"
Brando - "Johnny bye bye"
Massimiliano Larocca - "Iceman"
Modena City Ramblers - "The ghost of Tom Joad"
Tenca/Severini/Basile - "Eyes on the prize"
Lorenzo Bertocchini & Elizabeth Lee - "Be true"
PJ Faraglia - "State trooper (instrumental)"
Andrea Parodi & JT Van Zandt - "Racing in the street"
Rusties - "Adam raised a Cain"
Luigi Mariano - "Matamoros banks"
Daniele Groff - "Radio nowhere"
Mardi Gras - "Land of hope and dreams"

CD 2
PJ Faraglia - "Cadillac ranch (instrumental)"
Lorenzo Bertocchini - "Sherry darling"
Srl Freeways - "The train song"
Dust n' Bones - "Guilty (the judge song)"
Daniele Tenca - "Factory"
Joe Slomp - "Jesus was an only son"
Lowlands - "Soul driver"
Wild Junkers - "Better days"
Sergio Marazzi & Oil - "Nothing man"
Cheap Wine - "Youngstown"
Antonio Zirilli - "Growin'up"
Miami & The Groovers - "Shut out the light"
Francesco Lucarelli - "Tomorrow never knows"


lunedì 29 novembre 2010

TIM ROBBINS - Tim Robbins and The Rogues Gallery Band


Ci sono dischi che un recensore spera ardentemente siano all'altezza delle aspettative, fosse solo per il fatto che certi personaggi predispongono a particolar benevolenza. Tim Robbins è uno di questi, un bravissimo attore, ma soprattutto un esempio di artista capace di coniugare successo, impegno e qualità come pochi ormai nel panorama hollywoodiano riescono a fare. Robbins è un uomo che ama raccontare storie, lo ha fatto tante volte attraverso le sue pellicole, spesso scomode e spinose, quanto sempre significative, ma evidentemente ne aveva troppe nel cassetto per poterle trasformare tutte in valide sceneggiature. Logico quindi riesumare quella parte del suo DNA che risale alla vita e carriera da folk singer del padre Gilbert Robbins, uno che bazzicava il Greenwich Village quando aveva senso farlo con gli Highwaymen (da non confondere con quelli di Willie Nelson e soci), e via dunque all'ennesimo salto di confine tra cinema e musica da parte di un attore in cerca di nuove vie espressive.

Robbins ha fatto le cose per bene, ha scritto nove splendidi racconti folk, con storie di vite altrui (agghiacciante la confessione del reduce dell'Irak in Time To Kill) mischiate alla propria, dove il recente divorzio dalla storica moglie Susan Sarandon aleggia come uno spettro senza però mai essere veramente affrontato (Queen of Dreams). "Non è un album sul divorzio, ma sul pre-divorzio" spiega lui, che avrebbe voluto infatti intitolarlo Midlife Crisis, proprio quella crisi di mezz'età in cui si mette in subbuglio una vita e ci si chiede come mai nel cassetto ci siano una quindicina di canzoni che nessuno ha mai sentito. Lui, nel pieno di questa depressione (complice anche una mezza bancarotta per un film mai andato in porto), le ha fatte sentire ad un produttore di serie A come Hal Willner, che gli ha subito procurato una band di prim'ordine (la Rogues Gallery Band) che annovera musicisti come Andy Newmark alla batteria (uno che dal 1970 ha suonato con il gotha del rock), la bella Kate St John ai fiati e fisarmonica e pure Roger Eno (fratello di Brian ovviamente…) alle tastiere.

Tutto bene quindi, salvo un piccolo ma non trascurabile problema: Tim non sa cantare, e non nel senso che non ha una gran voce (anzi, il timbro profondo potrebbe anche funzionare), ma proprio che non riesce mai dare vitalità al suo monotono colloquiare. E per una serie di brani molto verbosi, che si aggirano sempre tra i quattro e i sei minuti, la cosa non appare irrilevante, anzi, alla lunga rende l'ascolto difficoltoso, nonostante l'ospite d'onore Joan Wasser - alias Joan As Policewoman - si prodighi ad armonizzare con la voce il non armonizzabile. Un vero peccato, perché il personaggio meritava davvero una nuova occasione di applausi e perché i brani sono davvero di gran valore. Potremmo magari proporre un bel disco intitolato "Billy Bob Thornton sings Tim Robbins", e forse davvero il cinema invaderebbe la nostra musica con qualcosa di più che dei semplici capricci da star.
(Nicola Gervasini)

www.timrobbins.net

giovedì 25 novembre 2010

MISS FRAULEIN - The Secret Bond


O voi orfani del grunge, che dalla metà degli anni 90 state ancora cercando disperatamente la nuova Seattle, vi esortiamo a percorrere la Salerno-Reggio Calabria invece che la Interstate 90 per una volta. Non garantiamo la stessa velocità di percorrenza, ma passando da Cosenza potreste scoprire i Miss Fraulein, 5 ragazzi innamorati di un suono tutto chitarre realizzato con grande cura e maturità. Gli elementi tipici del genere ci sono tutti, con la band che si ritrova a cercare gli stessi impasti voci-chitarre degli Alice In Chains (Grown High), qualche riff alla Pearl Jam (Battle On Ice) o qualche ruvidezza alla Soundgarden (In Confidence, quasi una outtake di Badmotorfinger), e al massimo, per divagare sui generi, si potrebbe sconfinare nello stoner-rock alla Kyuss. Ma soprattutto "fa grunge" il modo di cantare un po' posseduto di Giulio Ancora, la chitarra sempre in bilico tra metal e rumorismo alternativo di Aldo D'Orrico, e i testi che ti aspetti da una band che esprime tutto il disagio umano di una città, e forse non solo quella, che sta stretta a tutti. E a ben vedere, persino il divertente video realizzato dall'attore Max Mazzotta (You Know Why) sa di anni 90, con quel gusto tra l'allucinato e il grottesco che ricorda molte cose viste in MTV in quegli anni. Una minestra riscaldata potrebbe opinare qualcuno, ma quando ti fai produrre dal bravo Maurice Andiloro (una vita da sala di registrazione per mille artisti italiani, dagli Afterhours a Vinicio Capossela, fino a nomi grossi come Celentano e Ruggeri), quando comunque ci metti fantasia (lo strumentale The Secret Bond, con la sua guerra tra fiati e sei corde, finisce per essere una delle cose più sorprendenti del disco) e ispirazione (la dark Human Hunter), capace pure che ne esca una minestra sicuramente più buona di quella cucinata da gran parte delle dimenticate (in quanto dimenticabili) band della seconda generazione grunge. ( 7)

martedì 23 novembre 2010

SOUTHISIDE JOHNNY - Pills And Ammo


Magazzino di Rootshighway: stamane arriva una cassa di nuovi cd di Southside Johnny. Il nostro magazziniere, uomo di grande esperienza, per accettare la merce prende l'apposito modulo e comincia a spuntare la checklist. Senza i dovuti requisiti richiesti ad un cd di Southside Johnny, questo Pills And Ammo non verrà accettato e verrà restituito al mittente. Il bravo uomo comincia dunque la spunta. C'è passione? Ok, c'è. C'è energia? Alla grande direi, il buon John Lyon sembra un ragazzino che ancora cerca fortuna nei locali del New Jersey. C'è ritmo? Ok anche qui, se riuscite a stare fermi ascoltando un disco come questo potete anche darvi al taglio e cucito e lasciar perdere con la musica. C'è sudore? Sì, sì, i dischi del buon Southside sono gli unici che lasciano anche l'alone nel lettore. Ci sono grandi canzoni? Qui il magazziniere si sofferma un attimo a riflettere: Pills And Ammo è composto da 11 brani, e per la prima volta nella sua carriera Johnny compone tutto il materiale (in collaborazione con il tastierista Jeff Kazee), un grande atto di coraggio che attesta la persistente vitalità del personaggio, quanto un piccolo tallone d'Achille, perché come era già successo in Going To Jukesville del 2002, la sua scrittura tende sempre a cercare lo stesso groove, lo stesso riff, la stessa melodia costruita ad arte per sposarsi con il wall of sound tutto fiati degli Asbury Dukes.

In ogni caso il magazziniere registra che se nessuno di questi brani potrà mai essere un classico, la ballatona soul (Lead Me On) a lui viene pur sempre bene, il blues (Woke Up This Morning) l'ha imparato egregiamente strada facendo, mentre sul rock da bar viaggia ancora nel mille volte sentito (Cross That Line, per non dire di One More Night To Rock, party-hymn che in uno slancio di incredibile originalità prosegue con un bel one more night to roll…). E il suono, è tutto a posto? A posto sì, il sound stavolta è solo più decisamente sporco e guitar-oriented, ci sono più Stones e meno soul rispetto al solito, ma dal punto di vista delle soluzioni musicali siamo ancora fermi alle idee di Steve Van Zandt degli esordi, e se il suo resta sempre il migliore e più puro esempio di Jersey-sound della storia del rock, l'idea che la sua carriera sia comunque solo uno spin-off dell'epopea springsteeniana sarà difficile da estirpare dalla testa dei suoi detrattori.

Ad ogni modo il nostro fido magazziniere si ritiene soddisfatto, mette il timbro di Rootshighway alla voce "Accettato" e ripone i cd nello scafale. Torneranno utili alla redazione quando si dovranno stilare le liste di fine anno, non perché Pills And Ammo abbia grandi speranze di rientrarvi, quanto perché finite le notti di gran lavoro e ardue decisioni, sarà questo il disco che metteremo per sfogare la tensione e ricordarci perché mai perdiamo tempo a fare questo sito.
(Nicola Gervasini)

lunedì 22 novembre 2010

RA RA RIOT - The Orchard


I Ra Ra Riot vengono da Syracuse, nello stato di New York, e sono una delle più recenti new thing dell’indie-rock statunitense. Sono saliti alla ribalta con il disco d’esordio del 2008 (The Rhumb Line), album che univa tutta la frizzante verve dei loro concerti con la malinconia per la sfortuna che sembrava perseguitare la band nei primi anni della loro carriera (il primo batterista è stato ritrovato morto annegato dopo un concerto ad un festival). The Orchard è il secondo disco, pubblicato sempre per la Barsuk Records, vera e propria fucina di talenti del sottobosco statunitense (Death Cab For Cutie, Rocky Voltolato,…), e continua la strada di uno strano folk-pop caratterizzato dalla voce stridula ed effeminata del vocalist Wes Miles (uno che deve molto a gente come Rufus Wainwright nel suo metodo espressivo), ma soprattutto dagli archi suonati da Alexandra Lawn (violoncello) e Rebecca Zeller (violino). La band stessa ha annunciato il disco come “la nostra svolta poppy”, e c’era davvero da credergli se è vero che The Orchard apre il disco ammantata di tutta la maestosa che possono comunicare gli archi, e Boy spara subito un micidiale giro alla Cure che mette subito le cose in chiaro. E si prosegue con veri e propri trattati nuovo pop come Too Dramatic con i suoi urletti, e con un po’ di energia rock in Foolish, ma proprio quando ci s’incomincia a divertire, la pasticciata Massachussets impantana tutto, e la successiva dolce ma melmosa ballata cantata da Rebecca (You And I Know) riesce solo a peggiorare le cose. Shadowcasting e Do You remember riprovano a ridare ritmo con la loro batteria pompante, ma il finale di Kansai e Keep It Quiet conferma la confusione tra voglia di cercare arrangiamenti elaborati e la salvaguardia di freschezza e immediata orecchiabilità. The Orchard è un disco irrisolto, una svolta non conclusa di una band che potrebbe anche diventare adulta, ma che deve ancora macinare qualche chilometro in più.

(Nicola Gervasini)

mercoledì 17 novembre 2010

ERIC CLAPTON - Clapton


Esiste una legge non scritta (o forse realmente messa nero su bianco dal suo ufficio marketing) che vuole che Eric Clapton da anni pubblichi sempre gli stessi due album con precisa alternanza. Una volta è il disco radiofonico per il grande pubblico, quello raccolto durante gli anni 80, l’altra volta invece è il contentino per i vecchi fans, vale a dire i buoni cd di blues da salotto come il disco con B.B.King o il tributo a Robert Johnson. Come successore del dimenticabile (e forse già dimenticato) Back Home del 2005, l’indetronizzabile dio dei chitarristi inglesi ha quindi organizzato un happening di vecchi amici per ricordare neanche i bei tempi andati degli anni sessanta, quanto addirittura quelli mai vissuti del pre-blues bellico, del dixieland di New Orleans e di quel confine tra blues e jazz che negli anni quaranta risultava spesso impercettibile. La vera sorpresa è che quello che poteva essere il disco più inutile e lezioso dell’annata finisce pure per essere la sua cosa migliore per lo meno da From The Cradle, vuoi perché gli amici che lo vengono a trovare (Steve Winwood, Derek Trucks, Sheryl Crow e tanti altri) sono un po’ meno svogliati del solito (si esalta persino JJ Cale, che con lui aveva ronfato non poco nel pigrissimo Road To Escondido), vuoi perché Eric appare realmente coinvolto in queste rivisitazioni. Certo, c’è da chiedersi se davvero ci mancava la sua versione di Autumn Leaves di Jacques Prévert, ma magari una Run Back To Your Side che lo vede schitarrare convinto senza sonnecchiare sugli allori ci voleva proprio. La scaletta è talmente varia da risultare indefinibile, tanto che il nostro neanche è riuscito ad inventarsi un titolo che comprendesse il tutto. Noi diamo la colpa al consulente marketing di cui sopra, il cui licenziamento ci eviterebbe il prossimo disco easy-pop. A quel punto resterebbero da silurare anche il parrucchiere e il grafico della copertina, e le basi per una pensione degna del suo blasone sono gettate.
Nicola Gervasini

da FILM TV Novembre 2010

lunedì 15 novembre 2010

CESARE CARUGI - Open 24 Hours


Recensire un disco che ci annovera nei ringraziamenti non è esattamente la prassi, per cui giochiamo a carte scoperte: Cesare Carugi lo abbiamo conosciuto qualche anno fa come appassionato lettore del nostro sito, e oggi lo accogliamo sulle nostre pagine come artista (ci era già finito in occasione della serata tributo a Townes Van Zandt dello scorso anno). Cesare non è uno che ha fretta, ci è voluto lo sprono di un gruppo di artisti che ruota intorno al mondo del duo Massimiliano Larocca-Andrea Parodi per superare la fase di qualche scolastica cover suonata per gli amici, periodo rappresentato da una Open All Night (è la bonus track del Cd) che risulta infatti troppo ricalcata sull'originale springsteeniano (coretti a parte…) per risultare significativa. Invece i quattro brani autografi registrati per questo Open 24 Hrs ci sorprendono, perché seppur lo stile sia ancora "derivativo" (Jackson Browne e Springsteen i riferimenti più evidenti), l'interpretazione non lo è davvero, ed è proprio per la sua ottima voce (con pronuncia inglese impeccabile, e già qui parte avvantaggiato rispetto al 95% dei colleghi italiani), che brani come Carry The Wind Home o Further On riescono ad uscire dall'anonimato di un genere iper-inflazionato. La penna è comunque già ben avviata, e il testo di 24 Hrs è quello di una artista che non si basa solo su clichès consolidati. Certo, la produzione casalinga fa sì che il finale quasi-gospel di Boulevards faccia rimpiangere rifiniture più maestose, ma per ora basta così, il primo vero disco è in cantiere, e questa volta arriverà seguito dalle nostre alte aspettative. Non le deluda.
(Nicola Gervasini)

www.cesarecarugi.com
da Rootshighway

sabato 13 novembre 2010

Una serata con EVASIO MURARO...


Quando Ulisse tornò nella sua Itaca scoprì che qualcuno aveva approfittato della sua assenza per impadronirsi della sua casa, si ritenga quindi fortunato il navigatore Evasio Muraro, che nella sua terra natia la sera del 23 ottobre non ha trovato orde di proci da scacciare, ma di nuovo tutto il suo mondo, intatto e sempre pronto a riaccoglierlo in seno. Vizzolo Predabissi è un piccolo e sconosciuto centro di 4000 anime, perso nella campagna milanese, probabilmente fuori da ogni rotta turistica, e potrebbe essere un peccato, perché per arrivare all’auditorium che ha ospitato il concerto di chiusura del “Distrattour” di Muraro, si passa di fronte alla bella e imponente Basilica di Santa Maria in Calvenzano, opera del XI-XII secolo dei monaci cluniacensi. Una chiesa che fa sentire la sua influenza evidentemente, perché i cluniacensi furono dei monaci barricaderi, anche perseguitati per le loro idee contro l’eccessiva secolarizzazione del clero, o forse proprio perché il loro ordine si è caratterizzato nei secoli per l’amore per le arti e la letteratura, esattamente lo spirito che ha animato una serata fatta di “esposizioni” di libri, arte e musica. La performance di Evasio Muraro è stata davvero impressionante, e forse aumenta il rammarico per le troppe volte che artisti come lui devono accontentarsi di spartani set acustici per mere problematiche logistiche ed economiche. Presentato da Gianni Del Savio e Fabio Cerbone, Evasio è arrivato sul palco shakerando percussioni e duettando con il tastierista Fidel Fogaroli inDistratto, Vedo la tua ombra e O tutto o l’amore, e da lì in poi il palco ha cominciato a popolarsi gradualmente, prima con l’arrivo dell’ottimo batterista Stefano Bertoli, blasonato jazzista prestato alla canzone d’autore, infine, in occasione di una tesissima Smetto quando voglio, con l’entrata dei fratelli Marco eDaniele Denti, il primo giornalista musicale prestato con successo al basso, il secondo chitarrista e produttore che Muraro si guarda bene di prestare ad altri. Lo spettacolo ha raggiunto qui il suo highlight, sono passate Semino errori, Raccolgo la vita, Il granchio, e tutto il meglio del nuovo songbook di Evasio è stato filtrato da una band affiatata, fino ai momenti più esaltanti diUn’ora d’aria e Se. A questo punto, come a voler seguire una linea gaussiana, il mondo di Muraro è tornato a spogliarsi gradualmente, la band è uscita nuovamente di scena, e allora c’è stato più spazio per gli amici, prima quel gianCarlo Onorato che è salito sul palco per duettare nella sua Ballata dell’estate sfinita,poi invece con il trio vocale dei Gobar (Paolo Ronchetti, Cristina Gambalonga e Renato Pacchioni), che di nuovo in veste acustica hanno impreziosito la Se perdo anche te che Gianni Morandi tradusse da Neil Diamond, e il finale di Vivo, Tuffati e Lello. Dopo una serie di canzoni che parlano di un autore perso nel suo mondo d’intrecci di pensieri e sensazioni, apparentemente slegati dalla realtà, arrivano solo nei bis due brani impegnati (forse più “sociali” che “politici”) come Cara moglie di Ivan Dalla Mea e Il disertore che l’Ivano Fossati dell’era Lindbergh aveva tradotto da Boris Vian, un finale che riporta Muraro alle battaglie quotidiane, in attesa di partire per un prossimo sogno. Alle sue spalle durante lo show campeggiava una sua foto di un albero spoglio e innevato che lui dice essere stata scattata nei dintorni di Vizzolo Predabissi, ma di non ricordare assolutamente dove con esattezza. Probabilmente perché anche quell’albero esiste solo nella sua fantasia, talmente fervida da imprimere le pellicole e creare immagini vere, le stesse che speriamo popoleranno anche il suo prossimo disco. (Nicola Gervasini)
Foto di Elena Barusco

lunedì 8 novembre 2010

JOSHUA RADIN - The Rock And The Tide


Secondo un calcolo, non so quanto ancora aggiornato, le canzoni di Joshua Radin sono state utilizzate negli ultimi 5 anni per commentare le immagini di ben 75 pellicole, tra film e note serie televisive, non male per un ragazzo con soli tre album all’attivo. La statistica è in grado di dirci già quanto la musica di Radin sia buona per diversi palati, ma ovviamente non ci parla di quanto poi questa musica sia davvero buona. Il suo secondo disco (Simple Times del 2008) era piaciuto parecchio anche alla stampa specializzata, spingendo il suo nome in coda ai nuovi paladini del folk-pop come Joshua James o Brett Dennen, sicuramente i due nomi a lui più accomunabili qualora qualcuno si volesse prendere la briga di dare un nome ad un nuovo genere. The Rock And The Tide ribadisce ancora una volta la voglia di Radin di risultare incatalogabile, un uomo con il DNA nel folk e nel roots-rock, che però ama mettere un piede anche nell’indie-folk (la title-track potrebbe anche arrivare da un disco degli Iron & Wine ) oppure addirittura azzardare una dance-song tutta elettronica come Here We Go, più o meno quello che potrebbe succedere dall’incontro tra Ray Lamontagne e i Pet Shop Boys. Il tentativo di allargare il proprio raggio di azione è evidente, magari non così spudorato come l’ultimo Brett Dennen, ma è ovvio che una pop-song come We Are Only Getting Better abusa di ritmo calzante e di una catchy-melody in maniera quantomeno sospetta. In ogni caso il risultato finale appare anche ben riuscito, il disco parte benissimo con l’accoppiata Road to Ride On e Streetlight, che sono forse le prove di scrittura migliori del lotto, visto che poi i repentini cambi di stile fanno perdere di vista un po’ l’importanza delle canzoni (la lenta e strascicata You Got What I Need si risolve in una bella atmosfera gospel fatta di mugugni e organi hammond , ma il brano non è certo memorabile). In ogni caso ce n’è per tutti i gusti, con lotte tra chitarre vintage e melodie mielose alla Chris Isaak (Nowhere To Go), sofferte ballate notturne per chitarra e piano (Think I’ll Go Inside) e frizzanti power-pop (You’re Not As Young). Il finale è in tono minore, con una One Leap che cerca Josh Ritter senza eguagliarlo, e Brand New Day che chiude le danze con qualche leggerezza di troppo, ma sono peccati veniali, perché The Rock And The Tide conferma Radin come un nome da seguire, proprio perché se non è questo il disco da acclamare, il suo eclettismo, misto all’ indubbio talento, potrebbero prima o poi regalarci il botto.

Nicola Gervasini

sabato 6 novembre 2010

THE GRANFALLOONS - Songs To Sing


Vengono da Athens i Grandfalloons, e in quella città ormai mitica per il rock americano hanno incamerato il gusto della soluzione semplice, dell'arpeggio immediato o della melodia rimarcata che è stato dei concittadini R.E.M. e Jayhawks. Semplici canzoni da cantare e fischiettare nei momenti più rilassati, o semplicemente quando si è sopra pensiero, esattamente come proclamato dal titolo del loro primo album, un disco realizzato con molta professionalità da un quartetto che ha la particolarità di non avere un vero leader, ma tre autori-cantanti (Matthew Williams, Tommy Sommerville e AJ Adams) che si alternano in prima posizione barcamenandosi tra chitarre, mandolini, lap steel e tastiere varie. Completa il combo il batterista Seth Hendershot (lui dal percorso creativo sembra escluso, ma si sa, di Levon Helm ne nascono uno ogni dieci anni…), mentre appare bizzarro constatare che il gruppo manca di un bassista, interpretato in studio da un session-man occasionale (Chack Bradburn). Songs To Sing è un disco di facile ascolto e prettamente acustico, inizia con una puntina di un vinile che zoppica sulla polvere (idea ormai abusata per rivendicare il proprio attaccamento alle radici del passato) e parte con una Nobody's Singin per la quale spero abbiano già versato il dovuto copyright alla coppia Gary Louris - Mark Olson. Fortuna che il brioso country-rock di Real Life cambia subito registro, e proseguendo in mezzo a tanto buon mestiere (End Of The Day) e qualche riff fin troppo già noto (Gave Up On You) affiora anche qualche piccola zampata (la sgangherata Pura Vida diverte molto, così come la jazzata Pepper o la balcanica Dimitri's Demise). Songs To Sing è uno di quegli esordi che lascia il giudizio sospeso, perché tanta sufficienza basta giusto per notarli, ma non è ancora abbastanza per ricordarli.
(Nicola Gervasini)

www.cowboyangelmusic.com
www.myspace.com/thegranfalloons

giovedì 4 novembre 2010

THE WEEPIES - Be My Thrill


"Non si può tornare indietro adesso" cantavano i Weepies durante la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008. Sembra passata una vita, ma per questo duo di Cambridge il fatto che il loro singolo Can't Go Back Now sia stata una delle canzoni simbolo della campagna del presidente statunitense è stato il primo vero punto di arrivo di una carriera sotterranea da veri indie-folker, iniziata senza grandi ambizioni nel 2003 con Happiness, ma esplosa nel 2006 con l'acclamato Say I Am You. Be My Thrill è il quarto album del duo, probabilmente il primo che verrà accolto non più come il disco di una nuova band, quanto come una consolidata realtà dell'ultimo decennio. La formula in ogni caso non cambia, Deb Talan e Steve Tannen hanno continuato a lavorare in solitudine, preferendo autoprodursi invece che cercare produttori à la page. D'altronde il loro suono non chiede altro che gusto e semplicità: provate ad immaginare che tipo di disco avrebbe potuto fare una giovane Suzanne Vega se invece che bazzicare il Greenwich Village negli anni 80, avesse esordito oggi dopo anni di folk indipendente e lo-fi, dopo Belle & Sebastian e tutto quello che è successo in questi anni caotici.

Provate quindi a pensare ad un folk che si sposa con la leggerezza del pop, con una partenza da vero folk-club comePlease Speak Well Of Me che si risolve subito nella baldanzosa orecchiabilità di When You Go Away (siamo dalla parti della Shawn Colvin più radiofonica qui). Lasciatevi cullare dalla delicatezza di Red Red Rose (puro slow-core pop), o dalla dichiarazione di spensierata vitalità di I Was Made For Sunny Days con le sue chitarre molto seventies. L'indolente folk newyorkese alla Vega fa capolino ancora nell'autunnale They're In Love, Where Am I?, mentre Add My Effort forse esagera un po' troppo con coretti zuccherosi, una misura sbagliata che fortunatamente la successiva title-track riequilibra alla grande.

Il problema del disco semmai è che le canzoni sono tante (14, ma tutte di breve durata), ma nessuna riesce ad uscire dal seminato, se è vero che dalle leggerine Be My Honeypie e Hummingbird in poi ci si addentra in un dejà vu di easy-folk che ha la sua pur piacevole suggestione (Not A Lullaby ricorda addirittura una dei momenti rilassati di Norah Jones), quanto una scarsa imprevedibilità se non il rock acustico di How Do You Get High? e il finale di Empty Your Hands. In ogni caso se dalla musica cercate il gusto delle piccole cose, Be My Thrill è il vostro disco.
(Nicola Gervasini)

www.theweepies.com
www.myspace.com/theweepies

martedì 2 novembre 2010

LUCA MACIACCHINI - Il Boomerang di Dante


Visto che queste pagine hanno origine nel cuore della Lombardia, val la pena ogni tanto dare un occhio al mondo della canzone regionale, dove accanto ad artisti che hanno usato il nostro folklore per costruire uno stile maturo e personale (pensiamo a Davide Van De Sfroos), sopravvive ancora una tradizione musicale (la nostra "roots music" moderna dunque?) che si rifà ai grandi nomi di Gaber, Jannacci, Svampa, tutti sempre in bilico tra folk, jazz e cabaret (fino al teatro vero e proprio), tutti artisti di vecchia generazione che hanno oggi pochi veri e sinceri adepti. Luca Maciacchini è uno di questi, varesino da sempre volutamente in bilico tra recitazione, comicità e canzone d'autore, uno spirito libero (anche scrittore e chitarrista classico) destinato a muoversi tra le trappole dell'essere politicamente targato come leghista d'ordinanza a causa dell'utilizzo del dialetto, se non addirittura come semplice artista popolare buono per una sagra del liscio. "Ma forse è una questione d'avventura sapersi gradualmente districare nella febbricitante, aspra e dura selvaggia selva d'inerzia popolare" risponde lui tramite la voce di Maria Antonazzo in Dante, secondo brano de Il Boomerang di Dante, sua opera terza arrivata dopo Semaforo Rosso del 2007 con rinnovata e ancor più inferocita vis polemica.

E allora via ad un cd per nulla ammiccante al facile populismo, che sciorina una galleria di un' Italia da odiare profondamente, quella dei Corona e soubrette a seguito, dei calciatori strapagati e dei rispettabili borghesi pedofili, degli ipocriti moralismi pseudo-religiosi e dei falsi musicisti da festa paesana, tutti ben descritti nelle quattro parti del brano Bestiario. Qui si presenta l'Italia del pensiero "piccolo", quello che vuole che gli sbruffoni e arroganti vengano omaggiati (e votati…) per paura dell'effetto controproducente dell'opporsi al potere, un fenomeno boomerang che da sempre blocca la nostra ragion critica di massa (se ne parla in Boomerang). Storie popolari insomma, come un tempo cantate attraverso ballate spesso in dialetto, con satire alla George Orwell che parlano di pollai per denunciare lo stato del mondo del lavoro (I Gaijn del Lavurà, Co. Co. Co.) o colti reading blues danteschi (Belacqua Blues). In ogni caso quello che sembra essere il vero tema del disco (che come sua abitudine si trasformerà anche in uno spettacolo teatrale) è il problema della "acriticità" con cui il pubblico moderno accoglie qualsiasi cosa, sia essa politica o cultura, con quella sensazione di fastidioso applauso obbligato derivante dalla cultura del "son tutti bravi e belli" propagata dalla comunicazione di massa (giornali e televisione in primis), qui denunciata a ritmo dance nella tagliente Ma cosa applaudite.

Noi ad esempio applaudiamo i grandissimi testi e la matura complessità del progetto, un po' meno forse l'aspetto musicale, che continua a rimanere in secondo piano a discapito del contenuto (ma d'altronde gran parte dell'opera discografica del maestro Gaber ha sofferto dello stesso difetto). In altre parole la musica resta sempre al servizio delle parole, creando un quadro sonoro stilisticamente vario, quanto poco definito e caratterizzante, nonostante l'eclettismo degli arrangiamenti pensati con il tastierista Luca Fraula. Colpa forse dell'eterna indecisione se puntare sul suo essere un bravo cantante (il bel duetto con Sandra Zoccolan di Estetica della Rinuncia abbandona ogni velleità teatrale a favore di una pura musica leggera) o lettore di classici (Turista Ulisse riporta il tutto dentro le mura di un Liceo Classico), un comico o un semplice fustigatore sociale. Lui però sguazza in questa poliedricità espressiva e ama definirsi semplicemente un entertainer, per cui si prenda Il Boomerang di Dante nel suo insieme di progetto artistico a 360 gradi, o semplicemente come un inusuale e intelligente entertaiment.
(Nicola Gervasini)

www.lucamaciacchini.com

mercoledì 27 ottobre 2010

DELTA SPIRIT - History From Below


Il mondo delle produzioni indipendenti è servito anche a riaprire gli occhi su quanti ragazzi negli USA ancora vivono vagabondando come gli hippie d'un tempo, vuoi perché portano in giro la loro musica, vuoi perché dopo gli anni 70 ci si è dimenticati di questo popolo che vive perennemente fuori dal mondo e on the road. I Delta Spirit vivono in questo limbo giovanile da tempo, si sono affacciati al mondo nel 2006 con un EP e nel 2008 con il primo album (Ode To Sunshine…e già se non è un titolo da flower power questo…), vengono da San Diego ma potevano arrivare dalla Luna che sarebbe stato lo stesso. History From Belowè il loro secondo disco, e nasce da tutto il genuino stupore di chi si affaccia sul mondo reale e scopre all'improvviso che i potenti sono cattivi mentre le "storie dal basso" del titolo parlano di povera gente e buoni sentimenti. Così come il brano che apre il disco (9/11) nasce dalla presa di coscienza di come accadono cose come quelle di quel maledetto 11 settembre e il testo è un'unica lunga domanda "perché accade?", tipica di chi in cuor suo sente che non troverebbe alcuna umana ragione per giustificare tanto orrore, ma si rende conto che per alcuni (troppi) non è davvero così.

Ci sarebbe da sorridere beffardi per i testi del leader Matthew Vasquez, perché sembra davvero di leggere certi proclami umanitari alla Jefferson Airplane, in ritardo di quasi 40 anni, ma poi alla fine ti rendi conto che tutto nasce da una tradizione folk che i Delta Spirit sembrano in grado di tramandare e rinnovare con grande capacità, anche se ancora troppa poca esperienza. Il disco si chiude infatti con la straordinaria Ballad Of Vitality, una lunga intro da folk da Greenwich Village seguita da un esplosione orchestrale, tutto per raccontare la storia (vera e recente) di quel padre russo che ha perso la figlia in un incidente aereo e ha ucciso il controllore di volo svizzero che l'ha causato, una storia dal basso che definisce amaramente la natura umana. Ma è un finale oscuro che serve a rendersi conto che le storie di questo album ci servono ancora, che lo sguardo innocente di questi ragazzi è utile per ricordarci come dovremmo essere, anche se non lo saremo mai, e il bagno purificatore della copertina sembra essere un invito rivolto a tutti più che una semplice foto.

Il tutto ci viene raccontato attraverso un album musicalmente molto studiato (6 mesi di gestazione si sentono) e drammatico (la presenza di Bo Koster dei My Morning Jacket in sede di produzione si sente ancor di più), con momenti di stravolto folk noir alla Felice Brothers (Salt In The Wound, ma ancor più la splendida White Table li ricordano molto), freak-folk alla Okkervil River (Devil Know's You're Dead) o semplice folk e basta (all'orchestrata Randsom Man fa da contraltare la scarna resa di Scarecrow). Definirli è dura, 9/11, Bushwick Blues e Golden State (un giro di piano rubato ai Counting Crows) ad esempio hanno strutture classicissime ma suonano ugualmente moderne, tanto da portarci a dire che se il folk classico ha ancora speranza di poter scandire il ritmo delle nostre coscienze, questa è la via giusta per riuscirci.
(Nicola Gervasini)

deltaspiritbydeltaspirit.blogspot.com
www.myspace.com/deltaspirit


domenica 24 ottobre 2010

ALEJANDRO ESCOVEDO - Street Songs Of Love


Morire giovani per non dover invecchiare senza rock and roll: era questo il sogno di molte rockstar degli anni ‘60, e mai desiderio si è rivelato più vano. Addirittura per Alejandro Escovedo la vera festa è iniziata a sessant’anni, dopo che ha passato i cinquanta a gestire una pericolosa e malcurata epatite C, quasi a voler ribadire che la vera vita si trova solo sulla soglia della morte. Street Songs Of Love è il finale epico che mancava al precedente Real Animal, dove Escovedo esternava il suo amore per il rock fracassone e tutto lustrini dei suoi anni 70. Là si narravano i ricordi di un rocker maturo, qui si parla di voglia di nuova vita, di epopee da strada, di storie d’amore nate nella polvere, di schitarrate senza troppi pensieri (quelle dell’ex Green On Red Chuck Prophet) e dolci romanze rock. Partecipano convinti due rifugiati del rock anni 70 come Bruce Springsteen e Ian Hunter, gente che di rock and roll parties sembra proprio non averne abbastanza, magari anche ricorrendo a trucchetti e soluzioni che fanno arrossire per ovvietà. Come tutto ciò possa ancora generare un album irresistibile come questo è un mistero che neppure questi indomabili veterani sapranno mai spiegarci, se non forse con quel vecchio detto di Jagger che diceva “è solo rock and roll, ma…”.

(Nicola Gervasini)

giovedì 21 ottobre 2010

ED KOWALCZYK - Alive


Magari di primo acchito il nome di Ed Kowalczyk potrebbe non dirvi nulla, ma c'è stato un (breve) momento negli anni 90 che questo signore ha dominato le classifiche con la sua band, i Live. Di loro oggi forse val la pena ricordare solo l'esordio Mental Jewelry e il successivo million-seller Throwing Copper, bel disco del 1994 (produceva Jerry Harrison dei Talking Heads) che li vedeva barcamenarsi con grinta e anche molte buone canzoni tra il mainstream da MTV, le chitarre dure da post-grunge e uno storico singolo sornione e un po' REM-like come Selling The Drama. Da allora la band è sopravvissuta con una serie di dischi dignitosi quanto non imprescindibili, ma nel 2009 questioni contrattuali hanno fatto esplodere una guerra tra Kowalczyk e i suoi compagni di viaggio, con inevitabile litigio e scioglimento del gruppo. Da tempo fuori dal grande giro negli Stati Uniti, i dischi dei Live hanno continuato a vendere bene in Europa, per cui questo Alive (non sfugge il doppio senso del titolo, che può anche essere letto come "senza i Live") esce con un occhio speciale sul nostro continente. Ed Kowalczyk ha puntato su una band ben definita intorno a Ramy Antoun (batteria), James Gabbie (chitarre) e Chris Heerlein (basso), formando un quartetto roccioso che ha un unico, fondamentale, difetto: quello di suonare esattamente come i Live, creando un continuum artistico tra le opere della band e questa sua carriera solista che comincia davvero a dare l'idea che altro il nostro non sappia fare. In ogni caso sapete cosa aspettarvi: rock radiofonico fatto da un artista con un background da alternative-rock di primi anni 90 che gli consente sempre di tenere il tutto dentro i confini del buon gusto, senza però approdare mai a nulla di veramente degno di nota. Alive resta un disco per nostalgici della X Generation, oggi forse non più giovani, un po' meno carini e probabilmente ancora disoccupati.
(Nicola Gervasini)

martedì 19 ottobre 2010

TOM JONES - Praise and Blame


Se nel mondo dell'industria discografica esistesse una giustizia, gli album uscirebbero sempre con il nome del produttore in copertina, scritto a caratteri grandi quanto quelli dell'artista magari, e non affogato nei credits leggibili solo con lente d'ingrandimento. Discorsi ovviamente da ossessionati del rock come noi, perché al pubblico che sente una bella voce o una bella melodia non è mai fregato nulla di quale mente creativa o quali semplici processi industriali si nascondo dietro un suono. Eppure anche se oggi le grandi industrie della canzone non esistono quasi più, i nomi che sanno fare la differenza sui dischi ci sono ancora (Rick Rubin, T-Bone Burnett,… l'elenco è facile). Anzi, fanno anche di più, ora fanno anche dischi in proprio, e poi ci aggiungono un nome, una voce che eviti che il disco cada nell'oblio, come è successo a praticamente tutti i dischi solisti dei produttori (chiedete a Daniel Lanois se ha guadagnato di più a sorbirsi una giornata di sessions degli U2 o a fare i dischi a suo nome). Praise And Blame è un disco di Ethan Johns, sicuramente annoverabile tra i dieci producers più importanti degli anni 2000 (curriculum disponibile mettendo il suo nome nel "cerca" del nostro sito). E' la sua idea di una musica legata alle radici, moderna e sempre adatta per un passaggio in radio come per una vostra serata di godurioso ascolto solitario.

Ma Praise And Blame è anche il suo trionfo personale, perché in mezzo ad una marea di inutili cover-album, lui ne confeziona uno pieno di traditionals o brani già sentiti mille volte, e con questo riesce a tenervi incollati fino alla fine alle casse dello stereo. Johns ha fatto tutto alla perfezione, ha affittato gli attrezzati studios di Peter Gabriel, li ha riempiti di splendidi session men (Booker T Jones, Benmont Tench, la coppia David Rawlings-Gillian Welch, per dirne solo alcuni), ha trasformato brani non certo inediti (a What Good Am I di Bob Dylan ci aveva già pensato recentemente Solomon Burke, Ain't No Grave è nell'ultimissimo capitolo degli American Recordings di Johnny Cash), ha giocato con le chitarre (ruggiscono forte nella Burning Hell che fu di John Lee Hooker) e ha ottenuto con Lord Help, Run On, Don't Knock e altri brani, lo stesso gospel-roots della Mavis Staples di questi tempi.

Ah, dimenticavo, ha anche scelto Tom Jones per dare un padre famoso all'album. Scelta straordinariamente felice, perché il vecchio leone ha dimostrato di essere un vero professionista, capace di cantare perfettamente Delilah come Kiss di Prince o Sex Bombs, oppure calare in piena chiave spiritual un brano di Billy Joe Shaver (If I Gave My Soul, da brividi) con una perfezione interpretativa che va ben al di là delle sue indiscutibili doti naturali. Ora il mondo della musica si sorprende di questa svolta, ma provate a mettere sul piatto un disco di Ray Lamontagne e successivamente guardatevi un DVD di un concerto di Tom (magari lo spettacolare Live At Cardiff Castle del 2001), e poi provate scandalosamente a pensarli assieme. Non vi sarà poi così difficile immaginare che possa esistere Praise & Blame.
(Nicola Gervasini)

giovedì 14 ottobre 2010

US RAILS


Nel glossario rock il supergruppo è quella formazione - spesso estemporanea - composta da artisti con carriere personali già ben avviate. Il glossario però non specifica quanto famosi poi devono essere questi artisti per poter parlare di vero SUPERgruppo (alla Blind Faith o alla Traveling Wilburys per intenderci), oppure solo di una semplice bevuta tra amici del settore senza troppe pretese. La Blue Rose ultimamente si sta beando dei suoi supergruppi, e dopo gli Slummers di Dan Stuart e del nostro Antonio Gramentieri, s'inventa gli US Rails, vera accolita di "sfigati" del mondo della canzone roots (nel senso buono ovviamente…), tutti talmente poco di moda da rendersi necessaria una piccola rinfrescata sulle loro gesta. Quello a noi più caro è probabilmente Ben Arnold, uno che nel 1996 la Columbia lanciò con grandi speranze con un disco (Almost Speachless, lo recuperate per pochi euro senza problemi se non lo conoscete) che rappresentava un punto d'incontro tra il grunge e la musica d'autore americana (siamo dalle parti di Pete Droge insomma), salvo poi abbandonarlo ad un destino di pochi e dimenticati album indipendenti.

Sorte simile quella di Scott Bricklin, un album per major nel 1986 con la band di famiglia (i Bricklin, dimenticati ma bramati dai collezionisti) e poi un'infinita gavetta da session.man. Loser di più recente nascita invece è Joseph Parsons, passato quest'anno anche sulle nostre pagine con il bel live Slaughterhouse Live, così come altra nostra vecchia conoscenza è il chitarrista Tom Gillam (con dischi a suo nome e per le produzioni per Marah e Frog Holler). Manca da dire del batterista Matt Muir (viene dalla Scott Silipigni Band) e soprattutto resta poco spazio per esaminare a fondo un disco lungo 62 minuti e con ben 14 canzoni che raccontano praticamente tutto quello che c'è da dire sul rock americano di matrice texana.

Registrato tra Austin e un cottage di Parigi, il disco vede tutti i presenti coinvolti alla scrittura, ognuno con le proprie peculiarità (Tom Gillam ad esempio sposta sempre il baricentro verso suoni elettrici, o veleggia sul southern rock con Shine Your Light) ma sempre tenendo conto di voler essere una band. Il modello è quello di Crosby, Stills, Nash & Young, e non solo perché l'album si conclude con una coraggiosa versione da bar-band di Suite: Judy Blue Eyes che fa onore a tutti anche solo per il fatto di esserne usciti vivi, ma perché comunque i cinque amano molto il lavoro corale. E così anche quando Arnold rispolvera il suo rock urbano (New Gold Rush, Rainwater), lo fa senza mai uscire dal seminato, e così si allineano anche gli altri, sia Parsons quando si cala nei panni del cantautore West Coast (Burning Fire) o Bricklin quando cerca la via del blues in Rockin Chair. Non manca nulla insomma, anche se il risultato finale ricorda quasi una versione meno pompata degli Arc Angels (erano un supergruppo anche loro no?). Se i veri supergruppi scrivevano la storia, qui si è solo scritta una piacevole paginetta di american music.
(Nicola Gervasini)

Rootshighway 15/9/2010

domenica 10 ottobre 2010

DYLAN LEBLANC - Paupers Field


“There’s a new kid in town” avrebbero cantato in questo caso gli Eagles, e il fatto che si chiami Dylan potrebbe aumentare il clamore della notizia. Ma Dylan LeBlanc con il buon Bob non ha nessuna parentela, solo un nome di battesimo impegnativo per un poco più che ventenne che si affaccia al mondo della canzone country (o pseudo-tale) con la buona credenziale della fiducia accordatagli dalla Rough Trade. Ma LeBlanc, capelli lungi e mascella in vista come l’Eric Andersen di un tempo, in verità professa un verbo che lo porta spesso a citare Townes Van Zandt e l’indimenticato Willis Alan Ramsey quando deve citare esempi di musa ispiratrice. E per questo Paupers Field, debutto annunciato e dunque atteso già da un anno, la Rough Trade ha fatto tutte le cose per bene: hanno preso una produttrice/ingegnere del suono di grido a Nashville (Trina Shoemaker, curriculum da favola fin da quando nel 1993 Malcolm Burn le insegnò il mestiere di ingegnere del suono nelle sessions di American Caesar di Iggy Pop), chiesto a Emmylou Harris di fargli da madrina artistica mettendo il suo inconfondibile controcanto nella riuscita If The Creek Don’t Rise, e prodotto un album che potremmo definire di “country moderno”. Vale a dire la perizia di un giovane chitarrista cresciuto in Louisiana tra maestri di fingerpicking e cajun melmoso, unita a tristi e indolenti country-songs cammuffate da soffici ballate da indie-folker per nulla fuori dal tempo. Difficile dare un giudizio sereno, da una parte la tensione emotiva scatenata dal duello tra violino e arpeggio in Emma Hartley, (con una steel guitar splendida a fare da arbitro nella tenzone), o la poesia dell’iniziale Low ci confermano che le giovani leve imparano presto l’arte della scrittura, e questo non può che consolare. Ma dall’altra non si può non notare che LeBlanc arriva non secondo, ma ben ultimo nel proporre una formula davvero simile a quanto già sentito da Joe Purdy in primis, e da tanti altri (si può arrivare anche a citare Ray Lamontagne prendendola alla lunga) in seconda istanza. Il disco soffre ancora dunque di una eccessiva insistenza sui toni malinconici e sull’amore per il suono degli strumenti, un vero piacere per le nostre orecchie quando dalle casse escono le soavi note di Ain’t Too Good At Losing o dei begli archi di 5th Avenue Bar, ma un po’ limitante in termini di varietà espressiva. E invece siamo convinti che il ragazzo abbia i numeri per offrire ancora di più di un esordio decisamente interessante, quanto forse troppo pensato da altri perché non fallisse l’obiettivo di captare l’attenzione. Missione compiuta, i fari sono puntati su LeBlanc, che sappiamo ora essere già in tour con Calexico, Wilco e tante altre belle compagnie. Lo rincontreremo sicuramente anche noi. Nicola Gervasini

mercoledì 6 ottobre 2010

HALFWAY - An Outpost of Promise


Gli Halfway da Brisbane (Australia) sono nostri compagni di viaggio già da qualche anno. Li avevamo scoperti nel 2005 con l'esordio Farewell to the Fainthearted, e ancora l'anno successivo con Remember The River, per qualche stampa americana una rivelazione, quando per noi era già un semplice consolidamento. Band votata ad una sorta di alternative-country ante-litteram, che chi ha qualche reminiscenza del sottobosco del genere negli anni 90 può tranquillamente assimilare allo stile dei Say Zuzu o dei Black Eyed Dog che furono, la band rompe un travagliato periodo di silenzio ritornando con grande convinzione con questo An Outpost Of Promise. La formazione è sempre quella, sette elementi capitanati da John Busby e Chris Dale che riempiono ogni strumento a corda possibile di un sound sempre alla ricerca di una personalità che non affiora mai appieno. Nei due dischi precedenti ci aveva provato Rob Younger dei Radio Birdman in veste di produttore a cercargliene uno, questa volta invece è nientemeno che Robert Forster dei Go Betweens a metterci cervello e know-how.

Il risultato ancora una volta è quello di un significativo spaccato di songwriting "all'americana" che stenta ancora a diventare una pagina veramente importante, nonostante i sette abbiano tutte le credenziali di buoni musicisti e di autori, in grado comunque di maneggiare anche una materia non da tutti come il Pian della Tortilla di John Steinbeck che ha ispirato il testo del brano Tortilla Code. Quello che piace comunque degli Halfway è proprio l'insieme, l'idea che sette musicisti riescano a raggiungere buoni livelli di scrittura (Monster City e Oscar lo sono davvero) con un lavoro di squadra che ne dimostra un affiatamento davvero difficile da raggiungere. Ma è ovvio che un disco che promette "storie di amicizia, di ultimi bicchieri e promesse delle tre del mattino, di speranza per qualcosa di migliore e svolte del destino, di piccole decisioni e di quanto grandi possono essere i loro effetti sulle nostre vite", insomma tutte quelle cose semplici della cultura che parte dal basso, non s'inventa davvero nulla.

Non è un caso se il brano che più resta nelle orecchie sia una semplicissima ballad come It's Ok, storie di donne che fanno parte della strada, della città, di noi e che tutto sommato non smetteremo mai di raccontarci. Quello degli Halfway è solo uno dei tanti linguaggi per farlo, è un idioma che parla solo agli appassionati di musica delle radici yankee e non ha nessun ampio respiro intellettual-avanguardistico che possa interessare gli amanti di generi magari più coraggiosi, ma poi mica sempre così efficaci nel parlare di emozioni. In fondo esistono e continuano ad esistere anche quelle, e questa musica serve solo a regalarcene ancora qualcuna.
(Nicola Gervasini)

sabato 2 ottobre 2010

JACKIE GREENE - Till The Light Comes


Non sono in pochi (tra i pochi che lo conoscono ovviamente…) quelli che hanno leggermente storto il naso due anni fa quando Jackie Greene ha pubblicato il suo quinto disco, Giving Up The Ghost. Il folk-singer di stampo classico e dylaniano aveva infatti lasciato il posto ad un rocker poliedrico e multidirezionale, e così colui che in questi anni duemila aveva forse preso il testimone di Todd Snider e di altri piccoli eroi dell'"americana che fu" (grazie perlomeno ad un piccolo classico dei nostri anni come American Myth) sembra avviato a diventare qualcosa di ben diverso. Till The Light Comes arriva puntuale a confermare quale sarà la nuova linea, e va palesemente a stilare un ideale parallelo con alcune svolte "easy" alla Tom Petty di metà anni 80. Per ribadire la sua scelta di rocker a tutto raggio, Greene ha chiesto la collaborazione di Tim Bluhm, che qualcuno dotato di buona memoria ricorderà come leader dei Mother Hips, mitico (per noi perlomeno…) combo della scuderia Def American degli anni 90, che qui si ripropone al gran completo per fare da backing-band. Una scelta felice quando si tratta di dare vigore ed elettricità a brani di stampo più "roots", ma che forse rappresenta il tallone d'Achille quando invece si tentano (giustamente anche..) strade nuove e meno consuete.

Il risultato è qui da sentire, laddove Giving Up The Ghost a distanza di due anni resta un disco quasi pienamente riuscito, i dieci brani di Till The Light Comes sembrano troppo spesso perdere la bussola. E così dopo una frizzante Shakey Ground che riparte da dove finiva Animal sul precedente disco, ci si arena subito nella melmosa Stranger In Sand, brano che ha qualche smussatura di troppo (un coro o una tastiera in meno forse avrebbero giovato), così come dopo essersi divertiti con le drum machine danzereccie sfoggiate con coraggio (o forse eccessiva strafottenza?) inMedecine, ci si impappina con il giro beatlesiano di Grindstone, brano non brutto in sé, ma semplicemente non "suo". Si procede a velocità alterna insomma, con una A Moment Of Temporary Color che promette molto più di quanto mantiene (anche qui qualche impasto vocale alla Beach Boys di troppo…), una Spooky Tina che sembra davvero un brano del Don Henley degli anni 80 (prendetelo sia come un complimento alla sua statura artistica, ma anche un parallelo con una discografia non proprio impeccabile).

Fallimento? Non del tutto direi, visto che l'insieme sembra comunque tenere, e che quando si ricorre alla ballatona acustica da accendino (1961) qualche emozione Greene la strappa ancora. E ci riuscirebbe bene anche con The Holy Land, se non perdesse un po' di vista il timing e la sezione d'archi. Ci pensa la title-track finale, uno di quei mid-tempo che a Petty vengono sempre tanto bene, a ridare vigore e tono ad un disco irrisolto. Cosa farà da grande Jackie Greene? Difficile rispondere quando il soggetto in questione dovrebbe già esserlo da tempo ormai…
(Nicola Gervasini)

martedì 28 settembre 2010

RYAN BINGHAM - Junky Star


Il giornalista sportivo Gianni Brera sosteneva che la passione italiota per il calcio fosse dettata dal fatto che quello che accade in campo è esattamente quello che succede nella vita di tutti. Oggi, che il calcio di Brera è morto e sepolto con lui, sappiamo che anche lo schifo che accade fuori dal campo è ben rappresentativo della vita del nostro paese, per cui ben facciamo noi ad occuparci di altro. Ma per una volta concedeteci di ispirarci al buon Brera per capire come mai il nostro giovane campione del momento (Ryan Bingham) si sia espresso al meglio con un allenatore di serie B (il prode Marc Ford, ex Black Crowes, un fuoriclasse della chitarra, quanto un produttore ancora alla ricerca di un proprio marchio di fabbrica), piuttosto che sotto la guida del "Mourinho della roots music" (l'iperattivo T-Bone Burnett). La risposta è calcistica: "squadra che vince non si cambia", e allora visto che al duo Bingham-Burnett è bastata una sola canzone per vincere addirittura un oscar (Weary Kind), logico aspettarsi l'album di rito. Ma il risultato parla chiaro: Junky Star è un sofferto 1-0 d'inizio stagione, strappato con i denti da una squadra portentosa, con una punta come Bingham che dimostra anche in questo caso di essere l'unico nome davvero credibile e riproponibile ad alti livelli (la stessa Junky Star lo ribadisce subito, certi tiri riescono solo ai grandi talenti), e un Burnett che fa sentire il suo peso come al solito.

Ma sempre Brera insegna che i giocatori e gli allenatori possono anche essere bravi, ma una squadra vincente nasce da una giusta alchimia e da una corretta combinazione di ruoli. E così se Burnett quando allena Mellencamp fa meraviglie grazie alla sua tattica di trincerarsi in un'area fatta di tradizione e suoni vintage (una sorta di reazionario catenaccio), con Bingham si ritrova per le mani un giocatore meno duttile e poco adatto al ruolo. Il problema infatti è che è lo stesso Ryan a non tenere la posizione a lungo, perché se questo disco inizia con una grande azione difensiva (la riflessiva The Poet) esattamente come succedeva in Mescalito, il nostro fallisce il primo ribaltamento di campo con Strange Feeling In The Air, brano che richiede una incisività a suon di slide-guitars taglienti, ma che il buon T-Bone riesce invece a rendere evanescente e cervellotico. E così, palesemente spaesato, il nostro campione temporeggia con un po' di melina a centrocampo (il difficoltoso trittico Depression, Hallelujah, Yesterday's Blues), ma la dimensione acustica alla lunga (…e l'album è lungo…) gli sta evidentemente stretta.

Finisce così che gli schemi saltano (Direction In The Wind passa sulle strade del blues), l'allenatore gesticola a bordocampo e saccheggia Lay My Head On The Rail sostituendo i bistrattati Dead Horses con nulla, fino a quando la star reagisce e incorna finalmente a rete con la tensione southern di Hard Worn Trail. Ma è evidente che la vittoria è risicata, e che il nostro piccolo campione avrebbe bisogno di dare più libertà al proprio estro per far risaltare la bella scrittura del finale di Self-Righteous Wall e All Choked Up Again, numeri che, con un buon chitarrista solista a fare gli assist o un tastierista di esperienza a tessere geometrie sulla mediana, avrebbero sicuramente generato una goleada.
(Nicola Gervasini)

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