giovedì 29 luglio 2010

Intervista a EVASIO MURARO





Si dice che non bisogna giudicare un libro dalla copertina, eppure mi sembra che le copertine dei tuoi ultimi album esprimano con titolo e immagine due emozioni ben diverse: Canzoni per Uomini di Latta aveva una copertina aggressiva, che nascondeva una rabbia e una difficoltà a relazionarsi con questo mondo, O tutto o l'Amore sembra invece voler parlare di un uomo che ha trovato una sua tranquillità e la sua giusta dimensione. Laddove c'era un robot oggi c'è una strada ed un orizzonte. E' davvero cambiato così Evasio Muraro in questo ultimo anno?


Quella del robot è un'immagine che mi portavo dietro da parecchi anni, fin dai tempi di Settore Out, e come per molte altre cose, mi sembrava giusto ad un certo punto "chiudere", dare un senso compiuto a quei pensieri, a quelle sensazioni, a tutto un periodo. E' per questo che la copertina di Canzoni per uomini di latta mi sembrava un buon modo per fermarsi un attimo, e poi ripartire. Quindi non parlerei tanto di cambiamento, quanto di quella voglia di andare verso nuovi orizzontiche poi si è concretizzata con la copertina di O tutto o l'amore.

Nonostante il team produttivo sia rimasto sostanzialmente lo stesso, anche l'aspetto musicale ha subìto una radicale trasformazione. L'impressione è che Canzoni per uomini di latta aveva più varietà e ricchezza di arrangiamenti (e infatti anche più musicisti coinvolti), probabilmente perché c'era ancora una ricerca di un proprio stile definito, mentre O tutto o l'amore sembra essere approdato ad un sound più scarno, ma forse più personale e definito. E' così?


Non poteva che essere così. Considera che da quando ho deciso di lavorare a Canzoni per uomini di latta alla sua uscita sono passati due anni, con tutto quello che ne consegue. Per O tutto o l'amore sono passati solo sei mesi, due session con i musicisti, un giorno di incisioni per le tracce fondamentali. Ma più di tutto quando ho focalizzato Fidel Fogaroli alle tastiere e Stefano Bertoli alla batteria, ho capito di aver trovato una bella fetta del sound che andavo cercando e che non mi serviva molto altro. Quello che è rimasto lo stesso, è la quantità birra (ride).

Restando all'aspetto produttivo, quando scrivi una canzone pensi già subito a come la vorresti sentire suonata e arrangiata nella versione definitiva, o preferisci concentrarti sulle parole e sorprenderti del risultato quando lavori in studio?

Non ho una regola fissa. Fondamentalmente scrivo per la canzone in sé, solo con la chitarra: mi deve bastare così. Penso che sarebbe un grosso limite pensare che poi si potrebbe sostenere meglio con un buon arrangiamento, la canzone deve esistere da sola, non si può mica inventare. Certo non nascondo che poi mi piace molto lavorare in studio, e provare a sperimentare soluzioni nuove, soprattutto al fianco di quel folle genio di Daniele Denti.

Recentemente ci siamo incontrati in occasione di un piccolo concerto d'addio alle scene dei Groovers, la band con cui hai condiviso tanti anni come bassista. Mi ha colpito in quell'occasione la tua spiegazione alla decisione di sciogliere la band: "Non è più il mio rock questo" dicesti. Qual è il rock di Evasio Muraro oggi?

Mah, ripensandoci credo che nel concerto dell'addio dei Groovers ho rivissuto quello che non abbiamo fatto per i Settore Out, che alla fine si sono sciolti senza annunci e senza tante storie. Sono esperienze a cui ho dato moltissimo, che ho assimilato e che ho amato, ma l'elaborazione e poi tutto il lavoro su Canzoni per uomini di latta mi ha imposto di chiudere delle parentesi, e non è mai facile. Il mio rock oggi è quello delle scelte: da che parte stare, con chi stare, ma soprattutto cosa essere. E' stata una voglia di attenzione che le dinamiche di un gruppo, di una rock'n'roll band non ti consentono. E' stato un bisogno di pause che suonano più forte di una chitarra distorta, dell'ascoltare chi ha solo un filo di voce, ed è tutto quello che ha, del vedere chi è invisibile, dell'essere nauseato da continue promesse vane, dai miraggi, da una politica e una società vuote e svuotate, dell'essere in questo vortice e cercare disperatamente di non far spegnere quella scintilla che ancora cerco dentro me.



Quella dei Groovers era una musica figlia del "combat-rock" alla Clash, musica da strada e da rivoluzione collettiva, così come anche quella dei Settore Out, la tua prima storica band. Mi sembra invece che la tua musica oggi preferisca concentrarsi di più sulle sensazioni dei singoli. E' emblematica in questo senso Smetto Quando Voglio, una sorta di elenco delle battaglie piccole e ben poco mitizzabili della gente comune, cose semplici come smettere di fumare o di tradire la moglie. Sono davvero queste le nuove battaglie da combattere per te o semplicemente stiamo rinunciando a spenderci per qualcosa di più grande?

Eh, eh, in fondo non è poi così difficile essere un super eroe. Tu ci provi: se ti va bene sei super, se ti va male sei morto. Semplice, no? Ma quanto è difficile combattere nella quotidianità? Difendersi dall'apatia? Fare un piccolo passo avanti giorno dopo giorno tenendoci ben stretto quello che abbiamo costruito con tanta fatica…essere coerenti ma non ottusi, avere il sorriso sulle labbra e nel cuore ma essere determinati ricettivi, ma non condizionabili. Questa è la vera rivoluzione, per me.

Se, uno dei brani più belli del disco secondo me, è in verità nato vent'anni fa all'epoca dei Settore Out. Cosa aveva ancora da dirti questa canzone dopo così tanto tempo?

Se c'è una cosa che ho imparato lavorando prima a Canzoni per uomini di latta e poi a O tutto o l'amore è che il nostro tempo e quello delle canzoni sono due variabili diverse. Anche Raccolgo la vita mi è rimasta lì nel cassetto per vent'anni e poi, in una sera, eccola lì, che arriva. Il discorso di Se è simile, anche se diverso: è una canzone che amo e l'avevamo inciso in quello che reputo il più bel disco di Settore Out che, ironia della sorte, non è nemmeno mai uscito e guarda caso la prima volta che l'ho suonata, a Spaziomusica l'anno scorso, durante il Distrattour, c'eravamo tutti ed era la prima volta che ci ritrovavamo negli ultimi anni. Da allora è rimasta fissa nella scaletta dei miei concerti e, visto che non era mai uscita in versione "ufficiale", mi è sembrato giusto metterla in O tutto o l'amore.

Nel disco ci sono tre cover. Ballata dell'Estate Sfinita era un brano del disco Falene di Giancarlo Onorato, disco bellissimo di un autore poliedrico quanto misconosciuto, nonostante vanti più di trent'anni di carriera. Cosa deve comunicare secondo te una cover che non sia stato già comunicato dall'autore?

Nulla, assolutamente nulla. La differenza è che nell'interpretare una canzone, cerco di succhiarne tutta la linfa vitale, solo per me stesso. E' un'ammissione dei propri limiti, no? Vorrei averla scritta, ma dato che non è così non è, mi faccio un regalo, se poi lo faccio anche ad altri, tanto meglio.

Invece Se Perdo Anche Te è la rilettura in chiave "italian-country" (se mi perdoni la definizione..) della stranota Solitary Man di Neil Diamond. Anche se credo che qui abbia giocato molto la versione che diede Johnny Cash sugli American Recordings, o sbaglio? Pensi che il fatto che il pubblico conosca più o meno bene l'originale, abbia influito sul tuo modo di reinterpretare il brano?

Anche quella è una canzone che mi ha seguito per tutto il Distrattour. Devo dire che la figura di Johnny Cash mi ha lasciato un segno, perché oltre a Solitary Man, mi ha colpito sempre la sua versione di One degli U2. Però quando ho sentito la "sua" Solitary Man mi sono ricordato di una melodia di molto tempo fa e allora ho chiesto a mia sorella, che a qualche anno più di me, e lei mi ha fatto ricordare la versione di Gianni Morandi. Per cui per tutto il Distrattour, ho suonato un patchwork tra la Solitary Man di Johnny Cash con le parole in italiano. Dato che era piaciuta ovunque, mi piaceva lasciare una traccia, ma al momento di registrarla, ho lavorato per sottrazione e alla fine sono rimasti sono il banjo di Dino Barbé, il dobro di Gnola e le belle voci dei Gobar. In qualche modo, sarà l'atmosfera, mi ricorda la Carter Family, e forse anche questo è un cerchio che si chiude.

La terza cover è O cara moglie di Ivan della Mea, che in un certo senso tradisce quanto dicevamo prima, e riporta il disco da una dimensione intima ad una battaglia sociale e comunitaria come quella sindacale.

Ammetto che quando l'ho risentita ho pensato potesse essere anacronistica ormai, poi mi sono passate davanti le immagini degli operai FIAT che votavano mestamente il loro futuro a Termini Imerese, senza neanche poter più combattere con dei "porci padroni" in carne e ossa, e mi sono chiesto se lo stesso Ivan (Della Mea) oggi la scriverebbe ancora così. Ma poi, penso che di anacronistico oggi ci sia la nostra classe dirigente ed il modo di porsi, ma soprattutto di pensare della classe operaia, a chi lavora. Non possiamo opporci a chi ha in mano il potere e poi nel nostro intimo ambire ad esser come loro, vivere come loro, pensare come loro. Ivan Della Mea aveva colto un grande punto fermo, ed è qui che è attuale più che mai, che è il dialogo aperto con il proprio figlio, ma che penso sarebbe utile anche nel confronto con le istituzioni, a partire dai sindacati che una qualche riflessione su questi argomenti prima o poi dovranno farla.

Sussurrami canzoni omaggia ancora Ivan Della Mea e Enzo Jannacci, ma più in generale mi è sembrata una dichiarazione di appartenenza ad un certo modo di scrivere canzoni raccontando le storie dell'uomo semplice, che è tipica della canzone milanese. Ti senti davvero artisticamente figlio di questa tradizione?
Non proprio, come dicevamo vengo da esperienze più rock, che sono una parte di me. Anche se devo ammettere che su un binario parallelo ho sempre avuto un certo interesse per la cultura popolare e tradizionale, per esempio per la canzone in dialetto milanese, che adoro.

Un'ora d'aria è forse uno dei momenti più tesi del disco, il più vicino ad un idea di rock italiano alla Alberto Fortis. La definirei "infastidita" più che arrabbiata, una riflessione sul tempo che perdiamo in inutili chiacchiere che sembra proprio volerci dire che il nostro male è proprio il quotidiano che siamo costretti a vivere. Val la pena combatterlo o siamo condannati a dover sopportare in silenzio?
Mai sopportare in silenzio, mai mettersi sullo stesso piano di chi non condivide le nostre idee. Noi proponiamo il dialogo sul nostro terreno, noi evitiamo lo scontro frontale, noi gettiamo i semi per l'albero della civiltà. Magari una canzone non cambierà nulla, ma vuoi mettere la bellezza di una melodia con l'orrido squallore di una congiura?

Parafrasando una celebre frase di Roberto Freak Antoni, che diceva che in Italia non c'è gusto ad essere intelligenti, che gusto c'è in Italia a fare il cantautore oggi?
È il gusto di pensare di aver scritto qualcosa di buono, di avere una piccola dignità da salvaguardare, di essersi inventati una strada, di aver inseguito un'idea. Suppongo che questo valga per tutte le professioni, i mestieri. C'è gusto nel mettere un seme, di legarsi alle radici. E' solo questo, ma non è poco.

Non ti chiedo gli album da isola deserta perché ho pietà di te, però dimmi invece un disco non tuo che potrebbe tranquillamente esserlo, che ti rappresenta e descrive in pieno.

Due anni fa avrei risposto Sky Blue Sky degli Wilco, una rock'n'roll in cui mi ritrovo moltissimo. Oggi ti dico Josh Ritter: il suo So Worlds Run Away è fisso nel mio lettore da quando è uscito e dubito che ne verrà fuori presto. Un grande disco, con molte idee che sento vicine.

Chi è che invece potrebbe sentirsi pienamente descritto da Evasio Muraro oggi?

Nessuno direi, già non è semplice rappresentare se stessi, figurarsi qualcun altro. Ti dirò invece che mi basterebbe riuscire a descrivere un momento, una piccola storia, un personaggio. Sarebbe già un bel traguardo.

http://www.evasiomuraro.com/

lunedì 26 luglio 2010

NINA NASTASIA - The Outlaster


I Gudjonsson a Manhattan sono una piccola istituzione dell'elite culturale. Non sono sposati in verità, ma sono da tanti anni un piccolo esempio di perfetta simbiosi artistica tra il genio artistico di lei e la razionalità musicale di lui. Kennan Gudjonsson infatti vive nell'ombra, pensa da tempo a come ammantare le dolci melodie della sua compagna, ma si guarda bene dall'apparire. Perché nel quartiere di Chelsea da più di dieci anni la star è lei, Nina Nastasia, bellezza vitrea, sguardo agghiacciante, tocco folk e voce melodiosa, una sorta di Suzanne Vega trascinata a forza nelle fogne della Grande Mela e fatta riaffiorare da un tombino nel bel mezzo della più sudicia e loureediana strada di New York. Gudjonsson è la sua musa al maschile, ma da anni lascia sempre il posto di produttore (che di fatto gli compete) al ben più blasonato Steve Albini, il Re Mida dell'alternative-rock, e intellettualoide quanto basta perché nel 2000 decidesse di produrre il primo disco di Nina (Dogs) quasi più per vezzo da artista sregolato che per convenienza (il disco praticamente ha avuto una vera distribuzione solo quattro anni dopo).

Ancora oggi Albini considera quell'album una delle sue migliori produzioni, e da allora non ha mai mollato la carriera della Nastasia, fatta di pochi titoli sempre poco venduti, quanto ormai oggetto di un culto smodato. Noi l'avevamo lasciata nel 2006 con il folkish On Leaving, per ritrovarla quattro anni dopo (nel frattempo è uscito anche un progetto a due mani con Jim White intitolato You Follow Me) con The Outlaster, vale a dire il disco della maturità. Una maturazione che lascia anche un po' disorientati a dirla tutta, perché Nina sembra aver perso per strada molto del suo songwriting naif e decisamente newyorkese a favore di una scrittura più intricata e barocca, che avvicina il suo stile sempre più a quello di Joanna Newsom. Anche perché in questo caso a farla da padrone sono le pesanti orchestrazioni pensate e volute dal suo partner, ma condotte e arrangiate da Paul Bryan (come musicista lo ricordiamo al fianco di Lucinda Williams e Elvis Costello, ma come arrangiatore lo abbiamo sentito in azione in recenti produzioni di Aimee Mann e Grant lee Phillips), un tappeto che accompagna l'ascoltatore per praticamente tutti i dieci brani del disco, vuoi con discrezione come nell'iniziale Cry, Cry, Baby, vuoi con una presuntuosa preponderanza in altri episodi (You're A Holy Man).

La sensazione netta è che sa da una parte The Outlaster ci consegna un'artista sempre più consapevole della propria forza, dall'altra stavolta si sia esagerato nell'estetizzare all'estremo alcune canzoni che invece chiedevano solo pochi suoni per mostrare il loro valore (Wakes), magari dando più spazio alla chitarra di Jeff Parker (Tortoise). The Outlaster potrebbe essere anche un bel disco, dipende da come vi ponete davanti ad un prodotto volutamente quanto forse inutilmente ostico.
(Nicola Gervasini)

venerdì 23 luglio 2010

RICH HOPKINS & LUMINARIOS - El Otro Lado/The Other Side


Persa nel tempo (e nelle maglie dell’industria discografica che fu) è la storia dei Sidewinders, prodotto underground proveniente dall’Arizona che riusciva a unire la rabbia degli Husker Du, l’acido dei Dream Syndicate e l’amore per una certa roots-music desertica alla Thin White Rope o dei Green On Red più rauchi. Fecero due dischi su major sul finire degli anni 80, e Witchdoctor del 1989 è uno di quei gioiellini di serie B che vale la pena darsi da fare per ritrovare, poi, nonostante figurino nel catalogo di Billboard come presenti tra i top 100 di quell’anno in fatto di vendite, vennero scaricati dalla RCA e la storia finì. Ma ogni cult-band che si rispetti sopravvive anche nell’epopea del proprio eroe, quello che per definizione continua solitario la propria strada, e in quel caso il personaggio mitologico era il chitarrista Rich Hopkins, sorta di Neil Young di Tucson, così come i Luminarios dell’occasione rappresentano i suoi fidi Crazy Horse. El Otro Lado/The Other Side è solo l’ultimo di una lunga serie di album che hanno visto Hopkins ingrossare il catalogo della Blue Rose nonostante il seguito sia rimasto costantemente riservato ai pochi. Nel corso degli anni 2000 Hopkins ha infatti pubblicato con i Luminarios (Ken Andree e Bruce Halper) o avvalendosi della collaborazione di Lisa Novak, nonostante alla fine, come anche in questa occasione, i credits dei dischi siano stati pressoché gli stessi. Lisa infatti figura a tutti gli effetti come membro della band, e a lei viene affidata tutta la parte vocale di un brano che s’intitola Lou Reed, bella ballata con un testo che con difficoltà riusciamo a ricondurre al cantante newyorkese. Confusione di sigle a parte, El Otro Lado è un divertente e rumoroso esempio di quello che potrebbe essere un disco di Neil Young registrato nel corso di una vacanza in Messico, o il risultato di una jam dei Los Lobos in seguito ad un corto circuito elettrico. Tutti i brani giocano su tipici temi tex-mex, esagerati da chitarre rozze e preponderanti e testi e toni da frontiera, una formula che è la stessa da ormai più di quindici anni, ma chissà come mai il gioco riesce sempre a divertire, e Breathe In/Out e la El Otro Lado Suite possono a buon diritto essere citate tra le ragioni per cui varrà la pena ricordarsi di lui. In ogni caso se non conoscete il personaggio questo è un buon modo per avere una panoramica completa sulla sua ricetta base: elettriche in libertà, vocione in grande evidenza, testi spesso giocati sul mix tra lingua ispanica e inglese, e un generale profilo basso di chi gioca sempre solo per divertimento e non per vincere. Non sarà “necessario”, ma ogni tanto ci vuole. (Nicola Gervasini)

mercoledì 21 luglio 2010

PETER WOLF CRIER - Inter-be


Avanti i prossimi, c’è sempre posto nell’infinto banchetto dell’indie-folk di questi anni, e così c’è spazio anche per i Peter Wolf Crier e il loro album d’esordio. A dir la verità Peter Pisano e Brian Moen, i due fautori del gruppo, amano parlare di “indie-soul”, dicitura di cui è difficile trovare un riscontro in questi brani se non per il fatto che loro vengono da Minneapolis e che forse sì, se si regalasse Saturday Night ad un Solomon Burke in vena d’azzardi, magari ne uscirebbe davvero una gran bella ballata soul. Ma per il resto loro sono il classico esempio di band di seconda generazione di un genere che comincia ad avere ormai forse troppi adepti e troppo simili tra loro. Di certo non sono nuovi questi eterei impasti di voci, sospesi tra Bon Iver, Port O’Brien e chissà quanti altri prima (Bonnie Prince Billy in primis ovviamente), non ci sorprende questo modo di stravolgere le melodie partendo dal cantato e non dall’arrangiamento (in questo caso generalmente anche piuttosto convenzionali), e non è una novità nemmeno la solita storia dell’artista (Pisano) che scrive le canzoni in preda a raptus creativo e chiama l’amico (Moan) a suonare letteralmente “tutto quello che si trova in casa”, visto che il “self-made record” è pienamente di moda. La Jagjaguwar (l’etichetta degli Okkervil River per intenderci) ha così concesso loro un contratto anche corposo a quanto pare, forte della positiva esperienza di vendite avuta con Bon Iver, e Inter-Be esce con il giusto battage pubblicitario del caso. Ma resta difficile oggi giudicare serenamente un album che probabilmente arriva in ritardo, perché probabilmente stiamo entrando in una fase in cui questo tipo di musica ha già speso i propri pezzi da novanta, e queste canzoni suonano come poteva suonare l’esordio di una band grunge arrivata nel 1996, vale a dire già in pieno crepuscolo post-Cobain della scena di Seattle. Ma se siete in spasmodica attesa della conferma del genio di Bon Iver, potete intanto trastullarvi con un duo che alla ricetta di Bon aggiunge forse solo un pizzico di Neil Young in più (You’re So High), ma tanto, tanto genio in meno, In ogni caso Inter-Be è un disco che meritava di essere pubblicato, non fosse altro perché, seppur imitazioni, brani come Down Down Down e Playwright non possono uscire dalla penna degli aridi d’arte. Il caldo consiglio è di non confonderli con quella nota rockstar che non ha il “Crier” dopo il nome, più che altro perché qui la musica va in tutt’altra direzione rispetto a quella intrapresa (con ottimi risultati) dall’ex J. Geils Band. Non è detto che non possano piacervi entrambi comunque, in fondo Inter-Be è un disco meno depresso di quel che sembra, e può anche darsi che possa essere un non riconosciuto precursore di una nuova via “easy-listening” del freak-folk moderno (Nicola Gervasini)

lunedì 19 luglio 2010

JAMES - The Night Before


Non desistono i James, ormai storica e irremovibile band della prima era del brit-pop degli anni 80-90, da qualche anno tornati a pieno ritmo per ribadire al mondo della musica britannica tutta la loro importanza. Non sono forse diventati i nuovi Smiths, come qualcuno tentò invano di far credere vent’anni fa quando titoli come Gold Mother e Laid venivano strombazzati dalla critica d’oltremanica, ma è indubbio che la band di Tim Booth può essere vista come il più credibile link tra gli estetismi degli anni 80 (il loro sound ancora oggi nasce da lì) e la freschezza della scena albionica degli anni 90. Già due anni fa erano riusciti a ritornare sulle scene con un titolo tutto sommato convincente come Hey Ma, successo relativo, ma cassa di risonanza sufficiente perché i loro live-show lunghi e imprevedibili vengano ancora molto richiesti in Europa. The Night Before è il primo EP di sette brani di una doppietta che dovrebbe chiudersi fra qualche mese con la pubblicazione di una seconda parte (intitolata The Morning After ovviamente), ed è il classico prodotto “veloce” ormai pensato per itunes e la rete, al quale viene fatta anche la grazia di una pubblicazione in CD (fortunatamente con confezione e libretto molto elegante, e pure completo di testi, particolare che comincia ad avere un certo peso nella guerra tra supporti rigidi e download). I brani confermano ancora una volta che la band di Manchester ha ritrovato vigore, suono e soprattutto la capacità di trovare melodie azzeccate come quelle di Crazy e Porcupine, testi calati nell’attualità come quelli di Dr Heller (storie di talebani e Afghanistan) o deliziose pop-song come Hero. Giusto per confondere ancor più le idee sul formato, se mettete il CD nel computer vi si apre la possibilità di scaricare un ulteriore brano (Mother’s A Clown, peraltro anche notevole), fatto che aumenta solo il normale dubbio che fra qualche anno il tutto verrà riunito in un unico album che raccolga i due EP e brani a latere. In ogni caso i James sono tornati in ottima forma, non guidano più nessun movimento e non sono più di moda, e questo sembra averli resi liberi di produrre del buon brit-pop old-style senza troppi patemi.
Nicola Gervasini

mercoledì 14 luglio 2010

JIM LAUDERDALE - Patchwork River


Ammetto di avere sentimenti contrastanti per Jim Lauderdale. Se dovessi infatti elencare i grandi nomi del country più classico degli ultimi anni, prima o poi mi verrebbe da citarlo, ma poi sarebbe difficile scegliere un titolo da consigliare vivamente nella sua discografia. Lui non è uomo da capolavori o grossi colpi di scena, è solo un artigiano della canzone di Nashville che pubblica regolarmente album più che discreti, riuscendo a trovare il tempo di registrarli tra le mille collaborazioni cui è chiamato, e questa continua stima da parte del mondo della musica resta forse la sua credenziale più forte. Ora Patchwork River mi arriva in aiuto, perché pur conservando il suo tipico marchio di fabbrica (che resta sempre un po' troppo freddo e professionale per i nostri gusti), è un disco del tutto inedito per le sue corde, e in fin dei conti uno dei più riusciti della sua carriera. La sua prima mossa importante è stata quella di puntare sulla scrittura, assoldando per i testi nientemeno che il divin Robert Hunter dei Grateful Dead, orfano da tempo di un Garcia con cui scrivere grandi pagine di musica americana. La seconda mossa è stata quella di far svoltare il suono decisamente verso il soul, e quindi via libera al largo uso di fiati, voci femminili e quanto serve per il genere.

Le due cose insieme ci hanno regalato piccoli gioiellini come Good Together, che sembra davvero uscita da un ipotetico disco dei Grateful Dead edito dalla Stax, ma quello che finalmente piace di questo disco è che per la prima volta non si ha solo la sensazione di divertirsi senza troppi pensieri, ma che il country-soul di Lousville Roll, il mezzo swamp-blues di Alligator Alley e soprattutto l'accoppiata iniziale di Patchwork River e Jawbone (un blues da New Orleans con i fiocchi) siano brani che riascolteremo volentieri anche fra qualche tempo e, questa volta sì, possiamo consigliare ai nostri lettori più classicisti (che non vuol necessariamente dire reazionari o retrogradi…). Peccato solo non aver saputo mantenere questo buon standard per tutti i 50 minuti, causa qualche piccolo scivolone nel manierismo (la soul ballad alla Curtys Mayfield Tall Eyes non è proprio nelle sue corde, e Far in The Far Away esagera anche troppo con lo zucchero).

Il suo country comunque c'è sempre, nel divertente numero alla Shooter Jennings di Turn To Stone o nella ballatona alla Rodney Crowell di Up My Sleeve, ma non è davvero il piatto forte questa volta, tanto che anche il duetto con Patty Griffin (Between Your Heart And Mine) finisce quasi per sembrare un'intrusione non gradita. Nel finale comunque il disco si riprende con Winnona (provate ad immaginare David Bromberg che di si da all'hard-blues) e My Lips Are Sealed. Non è davvero uomo da grandi dischi Lauderdale, e anche Patchwork River ha troppi punti deboli per esserlo, ma ho dimenticato di dire che in mezzo alla track-list troverete El Dorado, ballatona alla Tony Joe White che fa davvero vibrare. Non so se sia un capolavoro, ma questa la consiglio davvero.
(Nicola Gervasini)

venerdì 9 luglio 2010

DEER TICK - The Black Dirt Sessions


Cercavamo conferme da questo terzo disco dei Deer Tick, sia positive per quanto sono riusciti a fare con i due album precedenti, ma anche negative magari, causa alcune nostre perplessità sul fatto che possano davvero diventare gli eredi dei Drive By Truckers nel segnare la via di un southern rock moderno, digeribile non solo dai rudi rockers nati a pane e Lynyrd Skynyrd. Invece The Black Dirty Sessions è un disco che si preannuncia discusso, discutibile, e farà probabilmente ancora discutere in futuro. Dimenticatevi Born on Flag Day dunque, quella era un'altra storia, e anche un po' un'altra band, visto che la chitarra solista di Andrew Grant Tobiassen che tanto era piaciuta non c'è più, e al suo posto è arrivato Ian O'Neil, acquistato dai Titus Andronicus nel corso di una tournèe comune. Ma questo cambio di guardia in questo caso non dovrebbe poi tanto pesare, perché molte di queste sporche sessioni provengono proprio dalle stesse sedute che hanno partorito il precedente disco, e questo non chiarire bene se l'ultimo sia da considerarsi un album di outtakes (il sound scarno e poco arrangiato sembrerebbe avvalorare la tesi) o il terzo album a tutti gli effetti della band non aiuta il giudizio.

In ogni caso questi brani sono stati assemblati con un preciso intento, quello di mostrare il lato più oscuro, intimista, e in parole semplice meno rock della band. Una scelta coraggiosa, arrivata proprio quando anche ripetersi gli avrebbe garantito forse ben più onori, e soprattutto pericolosamente dipendente dalla capacità del leader John J. McCauley III di rivelarsi un songwriter di prima categoria. L'onore al coraggio non salva però il disco dallo scadere nella noia, proprio perché alcune ballate acustiche come The Sad Sun o Twenty Miles non si reggono da sole sulle gambe, e quando provano la via della piano song crepuscolare (Goodbye Dear Friend o la finale Christ Jesus) trovano il sound ma non il tema immortale. Fallimento? Assolutamente no, perché il problema del disco è solo la fretta e l'aver magari tentato di battere terreni di folk sofferto (Hand In My Hand) che i Felice Brothers per esempio calpestano già con ben altri risultati (o addirittura I Will Not Be Myself ricorda gli Alice In Chains più tormentati).

Ma qui e là le canzoni che giustificano il loro successo ci sono, vanno trovate nelle scarne trame folk di Piece by Piece and Frame by Frame, nella ballata When She Comes Home e nel bellissimo crescendo in pure stile southern-rock band di Mange. Per il resto ci mettono passione, ma anche molto mestiere (Blood Moon sa un po' di blues notturno scritto con un manuale), e alla fine la sensazione è che questo deciso spostare il baricentro della loro musica verso un mood da indie-rocker penalizza quel bell'impatto da vera band dimostrato in precedenza. Si prendano il giusto tempo ora, è probabile che qualcuno troverà splendide queste invocazioni spirituali (sentire Choir Of Angels per credere), ma è molto più probabile che quest'album raffredderà gli entusiasmi. Meglio così, fra qualche anno sapremo se era destino che si perdessero o se stavano solo scaldando i motori.
(Nicola Gervasini)

www.deertickmusic.com
www.myspace.com/deertick

martedì 6 luglio 2010

PLAN B - The Defamation of Strickland Banks


Il nome d’arte se l’è scelto in pieno stile da rapper, ma non è solo per questo che di Plan B abbiamo sentito parlare (con un certo orrore) come dell’”incrocio tra Eminem e Damien Rice”. Tutta colpa di un disco d’esordio (Who Needs Actions When You Got Words del 2006) che ha avuto un buon successo di vendite, grazie ad una strana clonazione tra il folk soffuso e acustico tipico di questi anni e alcuni ritmi e sproloquiate in puro stile da rapper, quanto basta per portare Benjamin Paul Ballance Drew (questo il suo vero nome) ad abbracciare addirittura il cinema con ruoli da attore ed ora pure da regista. Già, perché The Defamation of Strickland Banks, il suo secondo disco, nasce prima come film e poi come album, anche se è tutto da vedere se mai lo vedremo in Italia, viste le ormai ridotte possibilità dei nostri distributori e delle nostre sale cinematografiche. Forse un assaggio si ha dal video di She Said, secondo singolo dell’album, che vede questo tipico giovane londinese alle prese con scene da film forense oltre che un tocco di erotismo, ma soprattutto con un sound decisamente retro-black che ha lasciato un po’ tutti sorpresi. Il plot del film vede infatti un soul-singer incriminato di un delitto mai commesso, per cui via libera a ritmo, violini e wall of sound da Motown records, con piena esibizione del groove della propria parlata e ovviamente qua e là un po’ di rap per non sembrare poi così esageratamente retrò. Il suono sarà pur funzionale alla storia, ma limitandosi all’album nel giudizio, il nuovo Plan B sembra aver scelto la strada dell’estetica dimenticandosi quella della sostanza nello sviluppare il suo stile. Per cui correggiamo, Eminem forse rimane nel rap e nei testi sempre un po’ da inglesaccio maleducato, ma il Damien Rice dell’esordio viene sostituito da una versione maschile di Amy Winehouse o da un moderno Al Green bianco, con risultati spesso vicini a certi esercizi di stile in chiave pop-soul sentiti dall’Adam Green più gigione degli ultimi tempi. E se il giochino riesce anche a deliziare nel caso di She Said e qualche altro episodio di encomiabile perfezione formale (Love Goes Down, Prayin e l’altro singolo Stay Too Long), nell’insieme resta il dubbio su dove sia finita la sua personalità, visto che qui tutto sa di moda, calcolo e professionalità. E se mentre scriviamo l’album è già in alto chart inglesi è forse perché pare che questa possa essere l’unica via odierna di conciliare un minimo di qualità con la massima vendibilità.

Nicola Gervasini

venerdì 2 luglio 2010

THE BODEANS - Mr Sad Clown



C'è stato un tempo in cui la passione contava, pesava, faceva la differenza. Era un tempo in cui tutto ci pareva costruito ad arte (lo era, ma in fondo non più di quanto lo è stato tutto il rock fin dai suoi albori), tutto ripulito, filtrato, pompato…in poche parole erano gli anni 80, quelli in cui accendevi la radio e quello che usciva suonava falso. Chi vi scrive ha maturato in quegli anni la propria educazione musicale e il proprio orecchio, e i BoDeans li ha scoperti perché mosso da quella sacra curiosità di sapere di chi erano quelle splendide voci che tanto caratterizzavano il sound del primo disco di Mr. The Band Robbie Robertson. Era il 1987 appunto, e sentire Kurt Neumann e Sam Llanas cantare She's A Runaway con il cuore in mano era sembrato a tutti un toccasana. La storia poi ve l'abbiamo già raccontata più volte, nelle recensioni ai dischi più recenti o quando, stilando la nostra lista dei 100 dischi da Strade Blu degli anni 80, ci siamo ricordati che Love, Hope Sex & Dreams era prodotto da T-Bone Burnett, e magari ai tempi a questo particolare non venne dato il peso che daremmo oggi. L'epopea dei BoDeans è stata dunque una storia minore, fatta di dischi anche godibili (il "cougariano" Go Slow Down del 1993 ad esempio) e tonfi clamorosi proprio quando bisognava dare il colpo del K.O. (il dimenticabile Blend del 1996).

E la storia, sappiatelo, non cambia nemmeno con questo Mr. Sad Clown, nono album in studio del duo, che gioca la carta della quantità (15 brani), dell'energia e della ricerca del suono di vent'anni fa, tramite un'autoproduzione caparbia e il ricorso a session-men solo per lo stretto necessario (fiati e qualche tastiera). E in qualche momento ci riesce pure a recuperare i fasti di un tempo (la sequenza iniziale Stay - Shine - If… fa ben sperare in questo senso), ma alla fine conferma che se oggi ancora diamo credito ai BoDeans è forse più per riconoscenza che per vera necessità. Perché poi la vera domanda che dobbiamo porci è un'altra, visto che chi già li conosce e sa cosa aspettarsi magari potrà anche uscire soddisfatto dall'ascolto di un disco che brutto non è (e forse potrebbe anche essere il loro migliore da lungo tempo), ma facciamo invece fatica a capire cosa dovrebbe spingere un ragazzo di vent'anni oggigiorno ad esaltarsi per un brano come Fee 'Lil Love, piccolo rock urbano alla Willie Nile tutto cuore, sudore e poca sostanza, o cosa potrebbe raccontargli nel 2010 il sorpassato e soporifero incedere di All The Blues.

Il "roots-rock", se ha senso ancora usare questa categoria anch'essa risalente a quei tempi, oggi ha acquistato mille nuove sfumature che ai nostri due eroi sfuggono completamente, e oggi vediamo gente anche più vecchia di loro riuscire a fare di meglio che questa vecchia minestra ben riscaldata,. Se fuori facesse davvero freddo la gradiremmo molto volentieri, ma sebbene il rock and roll abbia già detto tutto quello che poteva dire di epocale, le voci che sentiamo arrivare da ogni parte del mondo sanno ancora raccontare storie decisamente più interessanti di queste.
(Nicola Gervasini)


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