sabato 28 novembre 2009

JOSHUA JAMES - Build Me This


Novembre 2009
Buscadero



Così come il buon giorno si vede dal mattino, i bei dischi si riconoscono spesso fin dalle prime note. Basta quindi la corale Coal War, stupendo brano sospeso a metà tra uno spiritual, una work-song di protesta e il Paul Simon di Diamonds On The Soles Of Her Shoes, per capire che sta succedendo qualcosa di importante in questo Build Me This, secondo atteso disco di Joshua James. Succede ad esempio che ci troviamo davanti ad un artista già in grado fin dal secondo disco di cambiare suono, stile e registro delle proprie canzoni, di osare arditi arrangiamenti, anche pesanti e magniloquenti in alcuni casi, laddove avrebbe potuto continuare a raccogliere i consensi avuti insistendo sullo stile intimo e sospirato del suo primo disco (il buon The Sun Is Always Brighter ) o dei successivi EP. Lui invece, in combutta col giovane amico e produttore Shannon Edgar, si inventa un disco strafottente, che azzarda pure impensabili (per lui ovviamente) hard-blues come Black July, irish-folk balzellanti alla Waterboys (Annabelle) e tocca pure l’epica da cowboy con Mother Mary, un brano che Sergio Leone avrebbe utilizzato per un nuovo spaghetti western al fianco di Outlaw Pete di Springsteen. Normale quindi che chi si aspettava la nuova colonna sonora delle proprie disgrazie, si possa sentire spiazzato davanti all’imponenza di certi muri del suono ottenuti sfruttando tutti i registri delle tastiere di Phil Parlapiano, e magari inizialmente cerchi conforto nei brani più chiusi come Weeds, Pitchfork o In The Middle, i più vicini al James dell’esordio, quanto alla fine i meno interessanti. E magari lamenteranno l’appeal radiofonico sospetto (quanto irresistibile) di Magazine, brano degno del miglior David Gray nel descrivere la fine di un rapporto trovando il giusto equilibrio tra tragicità, melodia e un occhio al marketing discografico. James ha rischiato tanto in questo disco, e questa è oggi una dote rara, perché è vero che ogni tanto qualcosa non funziona, che il disco alla fine appare sfilacciato e che l’amalgama presenta qualche grumo ancora da sciogliere, ma presi singolarmente anche brani che appaiono minori come la country-song Lawn Full Of Marigolds o la sospesa Kitchen Tile conservano una grande tensione emotiva alla Ray LaMontagne, probabilmente il nome che più James aveva in mente. L’apoteosi arriva con Daniel, non quella di Elton John, ma che proprio all’Elton John più abile a giocare con cori, tastiere, teatralità e spinta drammaticità, finisce per richiamarsi. Buono anche il finale con la poetica Wilted Daisies e l’ultima riflessione acustica di Benediction, giusta chiusura di un disco che conferma James come uno dei migliori talenti di questi ultimi anni, sebbene una certa incompletezza generale faccia pensare che possa ancora andare oltre.
Nicola Gervasini

giovedì 26 novembre 2009

VAGABOND OPERA - The Zeitgeist Beckons


Rootshighway
11/11/2009


Non ci proviamo nemmeno a catalogare questo The Zeitgeist Beckons, se non come un pasticcio folk tra operetta e musica balcanica, portato in giro per Stati Uniti ed Europa dai Vagabond Opera, band dal nome già di per sé esaustivo sulle loro peculiarità. Sono musicisti da strada, con batterie e percussioni di fortuna, contrabbassi consumati dall'asfalto e una divisa circense d'ordinanza per tutti i membri maschili, eccezion fatta per la primadonna Lesley Kernochan, guest-star che veste i variopinti panni della Diva. La Kernochan è artista attiva anche in proprio, con singolari album solo vocali (se ascoltate il suo Undulating del 2006 troverete quello che potrebbe essere un disco di Bobby McFerrin cantato da Bjork), mentre il leader Eric Stern è un fisarmonicista/pianista con voce tenorile innamorato della musica dell'est europeo, che non a caso si ritrova anche nei credits dell'ultima "operetta" dei Decemberists (The Hazards Of Love).

Proprio alla band di Colin Meloy si può ricondurre lo spirito di questo disco, che segue uno strampalato libretto da Grand Guignol (il plot è: nelle catacombe di Parigi uno scienziato pazzo fa rivivere una Golem femmina e…ecc..ecc..) per unire cover e originali apparentemente inconciliabili tra loro in ipotetici cinque atti (in verità sono solo tre, perché nel secondo "non succede nulla di interessante" per farci una canzone, mentre il quarto è "uguale al terzo, ma all'incontrario"). Trovateci pure echi di Goran Bregovic, dei Gogol Bordello, sicuramente del Tom Waits di Frank's Wild Years (anche se qui viene ri-stravolta Tango 'til They're Sore da Rain Dogs), altrimenti noi non siamo in grado di trovare paragoni nel mondo dell'opera romantica italiana quando a finire nel calderone sono nientemeno che Giuseppe Verdi (Welcome To The Opera! riprende la Traviata), la Fedora che Alberto Colautti scrisse per Umberto Giordano (cantata in italiano traballante in Chimaeras Be Met), il compositore russo Dmitrij Šostakovic (Russian Jazz Waltz), tradizionali bulgari (Bulgar Romani), e non poteva ovviamente mancare Jacques Brel (nel classico Amsterdam, un cavallo di battaglia anche del primo David Bowie).

Di tutto questo minestrone la cosa migliore resta la bella performance della Kernochan nella Milord che fu di Edith Piaf (che è anche un personaggio della sgangherata storia), mentre i brani scritti dai vari membri della band finiscono per essere divertenti, ma in ogni caso funzionali a tenere insieme il concept del disco. Il risultato è senza mezzi termini un bel casino di stili, che apprezzerete solo se siete in grado di by-passare lo shock di sentire classiche folk-song cantate con puro stile tenorile/operistico da Stern. Quello che è certo è che sullo stesso terreno abbiamo di recente sentito opere più personali (pensiamo ai francesi Moriarty ad esempio), o teatrini meno confusionari (ad esempio quello degli inglesi Last Man Standing).
(Nicola Gervasini)

venerdì 20 novembre 2009

PORT O'BRIEN - Threadbare



Novembre 2009
Buscadero



Prova importante e attesa questa per i Port O’Brien, band californiana che licenzia con Threadbare il terzo disco. Il loro All We Could Do Is Sing resta a conti fatti una delle più deliziose sorprese indie-folk della scorsa annata, un disco nato per metà in Alaska, dove il leader Van Pierszalowski ha scritto molti brani mentre seguiva il padre a caccia di salmoni su un peschereccio. Progetto nato un po’ per caso con l’amica/cantante/songwriter Cambria Goodwin (panettiera di professione), quella dei Port O’Brien è ora una piccola barca che ha arruolato altri comprimari (al momento sono Ryan Stively, Gram Lebron, Tyson Vogel, ma cambiano spesso a seconda dei tour) per un viaggio davvero particolare. Che il gruppo sia in verità un duo è anche confermato dal video del singolo My Will Is Good, dove i compassati Van e Cambria si esibiscono tra piccole ginnaste. Provatevi, se ci riuscite, a chiedere loro che genere di musica suonano, vi risponderanno con una sonora risata, tanto basta per capire che tocca a noi definire in qualche modo questo freak-folk generalmente acustico (in questa avventura affiora qualche elettrica in più), che tanto rimanda alla Akron Family, con quell’innato gusto pop di fondo che ha portato molta stampa americana a paragonarli ai Pavement, gruppo con cui condividono poco del sound, ma molto dell’attitudine da anti-star. Diciamo subito che Threadbare ribadisce quanto di buono detto su di loro, anche se lascia un po’ di rammarico in quanto non offre poi grosse variazioni rispetto alla loro ricetta iniziale. I brani corali restano il loro marchio di fabbrica, e se con Oslo Campfire o con la title-track trovano la melodia giusta, in alcuni casi l’amalgama rallenta un po’ troppo il ritmo (In The Meantime o Next Season). In particolare è quando sale in cattedra Pierszalowski che l’album sembra scagliare le frecce migliori (My Will Is Good, Sour Milk/Sad Water), trovando il proprio zenith nella lunga e centrale Calm Me Down, sorta di lenta Cortez The Killer in salsa indie, e in una Leap Year che richiama addirittura i momenti più tormentati dei Dinosaur Jr. Purtroppo il finale non è altrettanto coinvolgente, con una Goodwin che si addormenta un po’ troppo sul pianoforte di Darkness Visible, una Love Me Through godibile quanto fin troppo leggerina, e una ripresa dell’iniziale High Without The Hope che riporta le note nell’atmosfera liquida e marina della copertina. Conferma a buoni livelli dunque, ma anche mancato passo in avanti: Threadbare ha l’aria del classico disco di passaggio, ma dove sia diretto lo scafo dei Port O’Brien pare ancora difficile da intuire.
Nicola Gervasini

mercoledì 18 novembre 2009

THE O'S - We Are the O's


5/11/2009
Rootshighway




Esiste nella musica americana moderna una corrente che, più che "revivalistica", definiremmo proprio reazionaria, che in qualche modo teorizza (o semplicemente fomenta) la restaurazione della roots-music degli anni '80. Parliamo di artisti che pagherebbero per poter essere ricordati come i ri-scopritori di un certo suono rurale, alla Long Ryders o Green On Red per intenderci, o parliamo ad esempio degli O's, duo esordiente che riporta subito alla mente l'epopea dei BoDeans, o ancor più quella dei loro seguaci di metà anni novanta come Billy Pilgrim e Jackopierce. We Are The O's è il loro manifesto di presentazione, undici brani che sembrano essere stati risputati fuori da un mondo in cui il banjo era visto come una spada laser alla Guerre Stellari per combattere lo strapotere della forza nera dei sintetizzatori degli anni 80. Taylor Young e John Pedigo vengono da Dallas, e tra chitarre, mandolini e kick-drums, riescono in due a riempire un suono che pare quello di una band, anche grazie al buon lavoro di amalgama e produzione di Jeff Halbert, ingegnere del suono della Rickie Lee Jones più recente (ma anche produttore dei Backsliders, per tornare al discorso di restaurazione del roots che fu…). La loro biografia ufficiale fa quasi tenerezza, con quella lunga digressione su come il loro fine non sia quello di far soldi, conquistare ragazze facili o guadagnare successo, e nemmeno quello di rivivere una vita on the road fatta di alcool e chilometri macinati ogni giorno, ma semplicemente quello di scrivere canzoni, e con quelle fare festa. Una filosofia commovente, che sembra davvero quella che animava una generazione di musicisti nati per un vero credo artistico com'era quella dei roots-rocker di venticinque anni fa, e che in fondo fa piacere ritrovare in quest'era, dove fare musica sembra essere diventato un passatempo come altri, accessibile a tutti come l'andare in palestra e bere aperitivi durante l'happy hour delle sette di sera. Avevamo già più volte incontrato John Pedigo con i suoi precedenti gruppi (i cowboy-punk Slick 57 e i più Neil-Young-oriented Rose County Fair), tutti usciti dal calderone indipendente di Dallas, ma qui la liaison con il nuovo compagno ha partorito un bel disco di dolci e convinte folk-songs, con alcune punte di buon songwriting in Don't Waste Your Day, Fast As I Can e California. Per il resto il disco soffre della mancanza di grandi alternative negli arrangiamenti, ancorati al continuo intreccio da mandolino e acustiche, ma la leggerezza quasi pop di certe melodie (One Way Ticket o You've Got Your Heart) e la capacità di "fare la canzone" anche solo con un sapiente impasto delle due voci (come sapevano fare i migliori Bodeans prima che s'impigrissero), fa si che questo We Are The O's scorra senza intoppi fino alla fine. Lontano dall'essere un disco che segna la strada, resta comunque un ottimo documento del linguaggio rock di una provincia americana che proprio non ne vuole sapere di uscire dal suo isolamento. (Nicola Gervasini)

domenica 15 novembre 2009

ROBERT EARL KEEN - The Rose Hotel


12/10/2009
Rootshighway


Ci ha messo ben quattro anni Robert Earl Keen a dare un seguito all'acclamato What I Really Mean, il suo disco più venduto (non ci voleva molto in fondo, vista la sua vita ben lontana dai margini del mercato discografico), nonché uno dei suoi titoli in cui ogni tanto ci si dimentica di pensare quanto belle sono le sue canzoni quando sono interpretate da altri. The Rose Hotel conferma lo stato di grazia di questo texano dagli occhi troppo dolci per poter vestire i panni di un credibile outlaw, soprattutto grazie ad una bellissima produzione confezionatagli da Lloyd Maines e al savoir faire di bravi musicisti, tra cui spiccano il mandolinista Rich Brotherton e la fisarmonica di Bukka Allen. The Rose Hotel appare dunque un disco musicalmente molto vario e volutamente pensato per oltrepassare lo scoglio delle limitate doti espressive della voce di Keen, un tallone d'achille che già impedì ai suoi bei dischi degli anni 90 di diventare dei classici (pensiamo a Gringo Honeymoon o a Picnic, che flirtavano non poco con l'alt-country dell'epoca).

La partenza è scoppiettante: The Rose Hotel è un classico brano di frontiera, materiale adatto per un ipotetico nuovo disco dei Flatlanders per intenderci, mentre la cover di Flying Shoes di Townes Vand Zandt appare azzeccatissima, primo perché in questo caso la vocalità di Keen è molto simile a quella di Townes, secondo perché Maines si inventa un giro di basso pulsante e minaccioso che dona una nuova veste ad un brano per cui non esistono aggettivi di apprezzamento sufficienti a definirne la bellezza. Che il team abbia una marcia in più lo dimostra anche Throwing Rocks, un banalissimo rockettone da bar nella sostanza, come ce ne sono mille in tutti i dischi di Austin, ma che vanta un devastante finale con belle voci black femminili, il banjo di Danny Barnes che da spettacolo, e persino il sempre compassato Keen che perde le staffe per pochi secondi. Piace anche il divertente siparietto rock di 10.000 Chinese Walk Into A Bar, racconto cinematografico condotto con l'amico Billy Bob Thornton, con il suo riff decisamente rock a cui fa subito da contraltare il ritmo scanzonato e saltellante di un reggae impolverato come Something That I Do.

Come spesso succede ai suoi dischi, la seconda parte perde un po' di nerbo, e qua e là appare qualche brano non all'altezza del contesto (On And On e Village Inn), ma Keen fa comunque a tempo a piazzare una bella drunk-song come Goodbye Cleveland, un ottimo duello con Greg Brown nella sua Laughing River e un sentito e riuscito omaggio a Levon Helm in The Man Behind The Drums. Finale con bel country corale (Wireless In Heaven) e tutti a casa soddisfatti, consci che lo spettacolo è stato pieno di difetti, forse più attento a strabiliare e meno concentrato sulle canzoni del solito, per quanto genuino e confezionato con capace convinzione. Visto che ci siamo davvero divertiti, basta anche così.
(Nicola Gervasini)

venerdì 13 novembre 2009

JOE PERNICE - It Feels So Good When I Stop


30/10/2009
Rootshighway





L'idea di base è intrigante, e chissà quanti scrittori hanno avuto la tentazione di realizzarla senza averne però le doti necessarie: scrivere un racconto con in mente alcune canzoni ben precise, e successivamente registrarle in un cd che funga da colonna sonora. Una meta-arte rara e difficile quella di dare suoni alle parole invece che alle immagini, ma Joe Pernice l'ha affrontata con coraggio e convinzione. Lui è un veterano della canzone d'autore della provincia americana fin dagli anni 90 (ricordate gli Scud Mountain Boys, l'alt-country band di casa Sub Pop?), e negli ultimi anni anche paladino di una via "pop" e leggera della roots-music americana portata avanti (con risultati altalenanti) dai Pernice Brothers. Ma Pernice è anche uno di quegli artisti eclettici che amano sperimentare forme alternative di comunicazione, proprio come questa "novel soundtrack" intitolata It Feels So Good When I Stop. Pernice non è nuovo nella narrativa, qualche tempo fa scrisse un divertente racconto intitolato Meat Is Murder, storia autobiografica di un fanatico degli Smiths negli anni 80, e la novella (che ha lo stesso titolo dell'album) che funge da traino a questo disco è una classica storia di formazione, con amori, delusioni e ironie alla Nick Hornby sul mondo degli "adulti" e sui trentenni mal-cresciuti. Il disco invece è stato realizzato con gli stessi collaboratori che lo affiancano nelle avventure dei Pernice Brothers (Peyton Pinkerton, Mike Belitsky, il fratello Bob Pernice e altri), ed è una curiosa raccolta di cover in chiave acoustic-pop di brani che spaziano da Soul And Fire dei Sebadoh di Lou Barlow a Chim Cheree, che altro non è che la colonna sonora di Mary Poppins da noi nota come Cam Caminin Spazzacamin. Basta questo per capire lo spirito del progetto, la storia del ragazzo che (non) si fa uomo passa anche attraverso le sue passioni musicali variopinte e trasversali, che spaziano da classici country (That's How I Got To Memphis di Tom T. Hall) ai Dream Syndicate (una buona resa soft di Tell Me When It's Over), dalle discussioni su Todd Rundgren contenute nella storia (e recitate anche nel disco per introdurre la sua Hello It's Me) a quelle su Pat Boone che seguono le old-style I Go To Pieces (una vecchia hit di Del Shannon) e I'm Your Puppet (brano soul del duo Spooner Oldham/Dan Penn che fu un successo dei James & Bobby Purify nel 1966), quest'ultima modernizzata tanto da sembrare un pezzo degli Eels. "Music for fun" in ogni caso, scherzi d'autore per ricordare al mondo testi notevoli come Found A Little Baby di Liam Hayes alias Plush o la suadente Chevy Van (una hit del 1975 di Sammy Johns). Conclude il menu Black Smoke (No Pope), uno strumentale riesumato dai tempi degli Scud Mountain Boys, e fine del divertimento. Ovvio che l'invito è di ascoltare il cd leggendo il racconto, e ancora più ovvio constatare che il progetto resta un divertissement fine a sé stesso senza troppe pretese. Ma a volte è meglio divertirsi così che annoiarsi del tutto. (Nicola Gervasini)

lunedì 9 novembre 2009

THE DUKE & THE KING - Nothing Gold Can Stay


07/10/2009
Rootshighway






Il Duca e il Re nella letteratura americana sono i due imbroglioni che con l'inganno vendettero lo schiavo nero Jim agli zii di Tom Sawyer nel libro Le Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain. Una versione yankee dei nostri Gatto e Volpe collodiani (i due libri sono curiosamente usciti praticamente in contemporanea tra il 1883 e il 1884), ma in genere originati da una tradizione popolare che vuole il truffatore per antonomasia essere un perfetto mix di furbizia e cattiveria, ma anche di fascino e nobiltà. The Duke & The King sono dunque due farabutti della musica d'oltreoceano: il Duca (Simone Felice) è uno dei fratelli terribili che stanno scrivendo le migliori pagine di roots-music degli ultimi mesi (Yonder Is The Clock sembra davvero aver messo d'accordo tutti o quasi), il Re (Robert "Chicken" Burke) è un batterista/DJ spesso utilizzato da George Clinton (ad esempio nel progetto dei Drugs), esperto di battiti elettronici e ammenicoli da funky/hip hop. Ci si potrebbe dunque aspettare uno dei tanti ibridi tra folk e black music, invece qui sta il primo vero imbroglio: Nothing Gold Can Stay è un bel disco di cantautorato americano, con quel piglio da "indie-folker" che spesso veniva vagheggiato anche nei dischi dei Felice Brothers, e che qui trova tutta la propria piena libertà d'espressione. Ed è il disco stesso che inganna non poco: all'inizio sembra un unico piatto sospiro disturbato da qualche rumore elettronico, a volte tendente addirittura ad un barocco pastone psichedelico di voci e tastiere (Lose My Self) che lascia perplessi. Poi però alla lunga le canzoni vengono fuori in tutta la loro potenza, la produzione volutamente lo-fi e home-made non riesce a tenere a freno la bellezza melodica di una The Morning I Get To Hell, l'incisività pop di Still remember Love, il tocco lieve di Suzanne, dove chitarre roots e trombe jazz si intersecano alla perfezione. Sono brani come Summer Morning Rain, gentile folk song senza innovazioni da proporre, che all'inizio ti passano nelle orecchie come il festival del già sentito, ma non ti mollano più e ti chiamano di nuovo di giorno in giorno. E' questo dunque il grande imbroglio del Duca e del Re, l'aver confezionato un cd che sulla carta sembrava solo un avventuroso spin-off della saga dei Felice Brothers in ambiti extra-roots, quando invece è "solo" una bella prova d'autore di Felice, con una produzione intelligente e aperta che ne fa un disco rivolto più al mercato del rock alternativo e indipendente che a quello dell'americana-music. Il grunge ci ha insegnato come spesso i dischi nati da collaborazioni parallele ai grandi nomi (ad esempio Temple Of The Dog, Brad, Mad Season) siano la vera cartina al tornasole dello stato di salute di un gruppo, se non di tutta una scena. Nothing Gold Can Stay ci conferma quindi che se qualcosa di importante sta succedendo in questi mesi, sta sicuramente passando dalle parti dei Felice Brothers. Contando anche che Simone, dei Felice Brothers, è "solo" il batterista. (Nicola Gervasini)

sabato 7 novembre 2009

MASTERS OF REALITY - Pine/Cross Dover


Rootshighway
23/10/2009
Tra i fiori all'occhiello della carriera da produttore di Rick Rubin va sicuramente annoverato il bellissimo esordio dei Masters Of Reality dell'ormai lontano 1988, ancora oggi consigliabile patchwork tra la musica dei Cream (o ancor più i Mountain), Lynyrd Skynyrd e Black Sabbath (dal cui terzo disco prendono il nome) trasportati in pieni anni 80. In tutti questi anni il combo è rimasto attivo come emanazione del solo cantante e chitarrista Chris Goss, nel frattempo divenuto famoso come produttore e sparring partner di Mark Lanegan per molte delle sue avventure discografiche (ha co-prodotto il suo Bubblegum e i dischi dei Queens Of The Stone Age), ma la freschezza e la varietà di stili e idee di quell'esordio non è mai stata ripetuta, se non in parte nel successivo Sunrise on The Sufferbus (1992), disco dove la somiglianza della voce di Goss con quella di Jack Bruce dei Cream veniva glorificata dalla presenza del loro batterista Ginger Baker come membro fisso. Ne è prova anche questo Pine/Cross Dover, album con due titoli e due copertine diverse, ma con un'unica anima da roccioso e monolitico hard rock d'altri tempi, concepito con il batterista John Leamy, unico superstite dei tanti cambi di line-up (e curiosamente presente nel primo disco solo in veste di disegnatore della copertina). Dieci brani caratterizzati da pesanti e ipnotici riff tra Jimmy Page (Dreamtime Stomp sarebbe stata bene su Physical Graffitti) e Tony Iommi (VP In It o Testify To Love), oppure figli di un grunge perduto (Absinthe Jim And Me). La musica di Goss continua a suonare vintage anche quando prova palesemente ad attualizzarla (Worm In The Silk), magari strizzando l'occhio ai White Stripes (The Whore Of New Orleans) o all'hard-blues moderno dei Black Keys (Rosies's Presence). Il disco nel complesso soddisfa la voglia di chitarre old-style, magari senza prendere troppo sul serio i divertenti testi visionari infarciti di figure mitologiche o di "Robert Johnson che vengono da altri universi", ma fa mancare quella fantasia che aveva caratterizzato i loro esordi. E i dodici minuti finali di libera improvvisazione di Alfalfa riescono solo a far venire voglia di riesumare qualche oscura psycho-band con tendenze hard rock di fine anni sessanta, anni in cui questi viaggi spaziali e lisergici erano all'ordine del giorno, e con ben altra portata innovativa. Reazionari al passo coi tempi nel 1988 tanto da diventare rivoluzionari, nostalgici fuori tempo massimo nel 2009: con Pine/Cross Dover i Masters Of Reality confermano il definitivo invecchiamento di una generazione di (ri)scopritori di quel muro del chitarre che aprì la strada all'esplosione del grunge di Seattle. (Nicola Gervasini)

mercoledì 4 novembre 2009

BRANDI CARLILE - Give Up The Ghost


La questione non è tanto chiedersi se Brandi Carlile possa essere o no degna dell'Olimpo del cantautorato femminile americano, quanto arrendersi all'evidenza che nel rock certe alchimie perfette a volte capitano anche un po' per caso. E due anni fa capitò che una delle tante ragazzette nate artisticamente nell'era post-Lucinda Williams, dotata di bella voce e già forte di un discreto disco d'esordio nel curriculum, si ritrovasse nello studio giusto (pagato con i pochi soldi che una major come la Columbia dedica ancora al genere), con il produttore giusto (un T-Bone Burnett particolarmente furbo nel rendere pieno d'anima un suono molto mainstream), che diede il suono giusto alle canzoni giuste. Ma la storia, si sa, si ripete all'infinito, e se il suo The Story resta uno dei più azzeccati dischi femminili del decennio, esattamente come lo fu Trampoline per Tift Merritt, questo Give Up The Ghost ne sancisce l'inevitabile ridimensionamento artistico, esattamente come è successo alla bionda collega con il successivo Another Country.Non parlate di delusione però, che Brandi Carlile non avesse la statura da grande autrice traspariva anche dalle pagine di The Story, semplicemente in questo caso l'intesa con il nuovo produttore Rick Rubin (basta il nome per capire che razza di investimenti si stanno facendo su questa ragazza) non ha creato gli stessi fuochi d'artificio del menage con Burnett. Di chi è la colpa? Parzialmente della stessa Brandi, che per la grande occasione si presenta con un carnet povero di dieci canzoni, con parecchi riempitivi senza grande futuro (la sequenza finale I Will, If There Was No You e Touching The Ground vola davvero basso). Colpa di Rubin anche, immenso artigiano del suono quando la musica si fa estrema (o tutta acustica o ad alto voltaggio hard rock), ma troppo indeciso sulla strada da intraprendere quando deve tenere i toni medi e dimessi richiesti da queste canzonette intime e leggere. Colpa della Columbia anche, e di quella stramaledetta necessità delle grandi produzioni major di avere ospiti di riguardo, abitudine che fa si che nei credits scorra il nome di Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers senza trovarne riscontro ritmico nella musica, o venga mal sfruttata una delle sortite roots di Sir Elton John, che scomoda persino il suo arrangiatore d'oro Paul Buckmaster per risolvere cotanta presenza in Caroline, divertente quanto innocuo episodio che fa rimpiangere davvero le scintille prodotte da Elton con Cindy Bullens (ricordate lo splendido Dream #29?). Le note positive non mancano fortunatamente, e sono tutte concentrate nella partenza di Looking Up (che ha lo stesso suono di The Story), nelle poche notevoli prove d'autore (Dying Day e That Year) e in una Dreams che finalmente tira fuori unghie e rabbia. Troppo poco per la gloria, abbastanza per continuare a nutrire interesse e stima per lei, con il forte sospetto che per il prossimo album dovrà cavarsela da sola senza tanti aiuti così illustri. (Nicola Gervasini)

domenica 1 novembre 2009

WILLY DEVILLE - Cabretta (1977) e Return To Magenta (1978)


La leggenda narra che William Borsey, un giovane scapigliato del Connecticut, un giorno abbia deciso di fare un viaggio a San Francisco con l’intento di trovare musicisti che “avessero un cuore e non solo un ego da soddisfare con assoli di venti minuti”. Quando se ne tornò a New York, sul suo pulmino c’erano il bassista Rubén Sigüenza, e il batterista Tom "Manfred" Allen, rimasugli di una band conosciuta nella West Coast come Billy DeSade & the Marquees, e divenuti nella Big Apple (con l’aggiunta del chitarrista Louis X. Erlanger e del pianista Bobby Leonards) i Mink DeVille. E veniamo così a Willy DeVille, il fu Borsey che decise di entrare nei panni di un personaggio con quel nome preso in prestito da un modello della Cadillac, e ne interpretò la parte in tutto per tutto, non riuscendo più ad uscirne fino ai suoi ultimi giorni. Veniamo dunque ai mitologici giorni in cui i Mink DeVille divennero l’house band del club CBGB (dal 1975 al 1977), più che un semplice locale, una vera culla delle civiltà di tutto il rock newyorkese della seconda metà degli anni settanta (quella dei Ramones, dei Television, dei Blondie, …). Veniamo dunque a Cabretta (o solo Mink Deville nell’edizione USA), uno dei migliori dischi d’esordio della storia del rock secondo molti critici, sicuramente il più inclonabile diciamo noi oggi con il senno di poi. Veniamo ad un disco dove DeVille e i suoi ragazzi, per dirla con una definizione che gli attribuì l’amico Doc Pomus, “riuscirono a condensare la verità e il coraggio delle strade di città in una canzone d’amore del ghetto”, o più semplicemente dove tutte le contraddizioni etniche e sociali di New York vennero riassunte alla perfezione in dieci micidiali stilettate di rock. Quale Rock? Già, veniamo allora al rock di Deville, quello che mischiava il blues di Muddy Waters, il soul dei Drifters o il nuovo punk-rock post-New York Dolls che girava così spesso negli amplificatori del CBGB. Ma anche il rock imbastardito da strani ritmi latini che citava Tito Puente e il jazzista portoricano Ray Barretto. I detrattori annotarono che erano tutti elementi stilistici per nulla rivoluzionari, non certo futuristici come i nuovi suoni della New Wave o dirompenti come il punk inglese. Forse semplicemente non riconobbero la novità di un poema moderno come Spanish Stroll, brano portante che esibiva una struttura lirica molto vicina a Walk On The Wild Side per quella insolita galleria di losers della New York ispanica (Mr Jim, Brother Johny, Sister Sue, Rosita), tutti personaggi che avrebbero meritato la stessa mitizzazione dei vari Holly, Candy e Little Joe di Lou Reed. Ma della New York latina nel mondo del rock nessuno sembrava volersi occupare, quando invece DeVille fu il primo che capì che i “pachucos”, vale a dire i giovani delle gang ispaniche, sarebbero presto usciti dal loro ghetto. L’anno dopo lo seguiranno il Tom Waits di Romeo’s Bleeding e pochi altri, ma laddove Waits continuava a sottolinearne l’ aspetto criminoso, Deville ne cercherà il cuore e ne dissotterrerà l’aspetto romantico. Per raccontare Cabretta potrebbe bastare Spanish Stroll, ma allora quando mai arriveremo a ricordare il vero suono del rock da strada di One Way Street, Gunslinger e soprattutto Cadillac Walk, doveroso omaggio alla macchina che diede il nome alla band scritto da un giovane rockabilly newyorkese (Moon Martin). Oppure ricordare che il cuore che Willy cercò a San Francisco sanguinò per le avenues della grande mela attraverso le note di Party Girls, del doo-wop di Can’t Do Without It o in quelle due perfette new york stories che sono Venus Of Avenue D, storia di una passione sessuale racchiusa in un isolato, e Mixed Up Shook Up Girl, dove l’ideale femminile della prima finisce drogato e irrimediabilmente perso. In Cabretta Deville esprimeva troppe anime, e il pubblico finì per non saper bene come catalogarlo, e la cosa veramente incredibile è che non erano nemmeno tutte. Ci volle Return To Magenta, il secondo album uscito nel 1978, per completare il quadro devilliano con il sound di New Orleans, la dimensione stilistica a lui più consona che si presentò in studio di registrazione sottoforma del pianista Dr John, ospite fisso delle sessions. Sarebbe stata la musica di quella città ad accoglierlo cessata l’avventura con i Mink DeVille, e sarebbe stata poi quella la città da cui Nina, la terza moglie, dovrà farlo fuggire nel 2003 per cercare di salvarlo. Ma intanto le acque fangose del Mississippi in quel secondo disco invadevano le strade di New York attraverso le note di ’A’ Train Lady (brano firmato da David Forman), lo strano up-tempo di Desperate Days, il blues alla Bo Diddley di Steady Drivin' Man e i fiati di Easy Slider. Persino i rudi inni d’asfalto di Soul Twist, Confidence To Kill e Rolene (ancora Moon Martin) parlavano la lingua della Big Easy, ma sempre con l’accento di Manhattan. Il vero valore aggiunto rispetto al primo disco arriverà dalle quelle romanze slow che diverranno il suo marchio di fabbrica più tipico (Guardian Angel, I Broke That Promise e Just Your Friends), spesso impreziosite dagli archi sapientemente dosati dal produttore Jack Nitzsche. Se la parola capolavoro indica anche l’essere il capostipite di una serie di altri lavori ad esso ispirati, Cabretta e Return To Magenta non sono capolavori solo perché nessuno ha mai provato a replicarli, e rimangono ancora oggi unici e irripetibili come il loro autore. Goodbye Willie. (Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...