giovedì 31 dicembre 2009

JONI MITCHELL, JAMES TAYLOR, PHIL OCHS - Amchitka



Dicembre 2009
Rootshighway


Da dove preferireste che si cominciasse? Da un'introduzione su Greenpeace e sui suoi nobili obiettivi? Dalle considerazioni su questa uscita (in ritardo di quasi quarant'anni) e sui tanti benefit-concert sparsi negli anni che mancano ancora all'appello discografico? Oppure che vi parlassimo dei tre protagonisti di questa serata? Decidiamo noi: partiamo da Phil Ochs, ma come pretesto per parlare di tutto. Che vuol dire partire da uno sconfitto che vuole combattere ancora mille battaglie, da un ex folk singer del Greenwich Village che nel 1970 si è giocato tutto il credito che il mondo era disposto a dargli (pochissimo a dir la verità…), e che a febbraio licenziò con l'improbabile Greatest Hits (il titolo più ironico della storia del rock) il suo ultimo album in studio. Persi i contratti e la voglia di scrivere nuove canzoni, Ochs sarebbe andato subito alla deriva (ci arrivò con più calma sei anni dopo) se non avesse incontrato Irving Stowe, colui che nel 1966, cercando di fermare i test nucleari statunitensi nell'isola Amchitka in Alaska, inventò quasi per caso l'organizzazione ecologista Greenpeace. Questo concerto interamente acustico, organizzato da Stowe nell'ottobre del 1970, è da sempre considerato il vero e proprio start-up dell'organizzazione a livello internazionale, e da qui in poi Ochs avrebbe dato vita e partecipato a concerti di beneficienza per tutti gli ultimi anni della sua vita, con tutta la sua tipica cieca caparbietà, ma anche una lucida abilità nel cogliere i temi di interesse futuro per cui combattere. Amchitka potrebbe dunque essere il primo dei tanti possibili omaggi che si dovrebbero fare a questo sfortunato e lungimirante artista, se solo si scavasse bene negli archivi e si cercassero i suoi concerti a favore di Salvador Allende, John Sinclair, George McGovern o la gran celebrazione della fine della guerra del Vietnam ("War Is Over" del 1975, con John Lennon tra i tanti illustri ospiti), da lui fortemente voluta, e incredibilmente mai pubblicata su disco. Anche perché il suo set qui presente rappresenta il meglio dell'Ochs più tagliente e incazzato, con convinte versioni di Rhythms of Revolution, Chords of Fame, l'immancabile I Ain't Maching Anymore e la torrenziale Joe Hill. Una testimonianza ben lontana da quella che offrirà il suo ultimo live Gunfight at Carnegie Hall (pubblicato nel 1975, ma registrato sei mesi prima di questo concerto), dove scimmiottava Elvis Presley per affondare definitivamente la sua credibilità di giornalista-cantante. La parte di Ochs occupa metà del primo dei due cd, giusto il tempo di suonare otto brani prima di farsi sostituire da un James Taylor fresco di insperato successo e notorietà, come lui stesso ribadisce presentando Carolina In My Mind. La parte di Taylor, costituita da sette strafamose canzoni tratte dai suoi primi tre album (Fire And Rain è sempre un colpo al cuore in qualunque veste la si presenti) è interessante soprattutto perché non vi sono sue testimonianze live del periodo, anche se James non è uomo da grandi variazioni sul tema e si tiene ligio agli originali. L'intero secondo cd è invece dedicato alla giovane Joni Mitchell, vera mattatrice della serata. Cinquanta minuti frizzanti e convinti i suoi, che servirono anche a presentare al pubblico alcuni inediti che costituiranno l'ossatura del suo disco successivo (il capolavoro Blue), vale a dire My Old Man, A Case Of You (presentata con un titolo molto più lungo) e una versione da dieci minuti di Carey in medley con una Mr. Tambourine Man di Dylan cantata a due voci con James Taylor. La Mitchell appare in forma, e la giocosa versione di Big Yellow Taxi che si trasforma nel classico Boney Maroney (con la memorabile rima iniziale "I got a girl name of Boney Maroney, she's as skinny as a stick of macaroni"), così come i classici Woodstock e The Circle Game, sono più che vibranti. Una testimonianza importante che va a coprire il periodo più da folk singer pura della Mitchell, visto che di lì a quattro anni il live Miles Of Aisles racconterà già una Joni diversa. Considerazioni sociali a parte sull'argomento Greenpeace (per le quali rimandiamo al ben redatto booklet di 48 pagine, che racconta tutto il raccontabile sull'argomento), il gran valore musicale di Amchitka è quello di essere formato da tre live realmente inediti e storicamente necessari per capire i percorsi di tre grandi artisti della canzone americana. E vista la gran quantità di materiale pressoché inutile e ridondante, pubblicato dalle case discografiche in questi ultimi vent'anni di forsennato recupero di vecchi archivi, non è davvero poco. (Nicola Gervasini)

lunedì 28 dicembre 2009

JAMES YORKSTON - Folk Songs


04/12/2009
Rootshighway




Ci sarebbe da tirare le orecchie a miriadi di artisti per come ingarbugliano le loro discografie di titoli superflui, con l'unico risultato di far perdere la bussola a chi non è fan dedicato. La lista di esempi è lunghissima, ma stavolta dietro la lavagna ci mandiamo James Yorkston, nu-folker che seguiamo con ammirazione, quanto anche col fiatone di chi non sempre riesce a stare al ritmo delle sue produzioni. Che, a ben guardare, sono poche e centellinate, se prendiamo gli album veri e propri: quattro in otto anni, con una buona accoppiata all'esordio (Moving Up Country e Just Beyond The River), un terzo disco irrisolto e oscuro (The Year Of The Leopard) e un quarto che ha fatto il botto (When The Haar Rolls In), divenendo il suo personale capolavoro. Un percorso normale per un artista ormai maturo, nonché una delle poche menti rimaste "pensanti" e non solo "suonanti" del brit-folk inglese di stampo classico. Ma in mezzo James ci ha piazzato una miriade di progetti a latere, ep, live, raccolte di b-sides (Roaring The Gospel), e ora, immancabile e puntuale come la morte, arriva anche il cover-album di traditionals, feticcio senza il quale non bisogna neanche osare definirsi artista moderno.

Folk Songs (un paio di minuti in più a pensare un titolo meno ovvio no, eh?) viene così licenziato quando ancora non abbiamo finito di sviscerare gli splendidi meandri del suo disco precedente, e ci costringe così a riportare in auge la solita trita e ritrita tiritera del "si ascolta con piacere, ma…", "non che sia brutto, ma..." e "disco solo per fans…", con l'infelice decisione di non affibbiare il 4 che meriterebbe l'originalità dell'idea, e nemmeno l'8 di cui tutti questi brani sono più che degni destinatari. Salomonico 6 dunque per ricordare che il disco è ben suonato dai Big Eyes Family Players, band che ha all'attivo una propria produzione di genere fin dal 1990, apporto che comunque non evita qualche sbadiglio e eccessivi rilassamenti sparsi. E poi per ricordare il repertorio scelto, tutto incentrato sulle canzoni di pubblico dominio riscoperte nel periodo del folk-revival di fine anni sessanta, con particolare dedica all'affascinante figura di Anne Briggs, che qui viene "ripresa" nell'iniziale Hills Of Greenmoor, in Martinmas Time e in Thorneymoor Woods, tutti titoli che si trovano nella sua breve e sempre da riscoprire produzione.

Un secondo intenso pensiero viene rivolto ad un altro dimenticato eroe come Nic Jones, che qui viene richiamato tramite Rufford Park Poachers e Little Musgrave, e così via, con omaggi ad altri idoli di gioventù come Shirley Collins, Jean Ritchie, Eliza Carthy, Nancy Kerr e svariati paladini di un ritorno alle radici neanche troppo annacquato dai suoni rock. Folk Songs è un disco che Yorkston sognava di fare fin dal 2000: serviva a lui, serve sempre perché è musica di gran valore, ma non servirà molto quando dovremo ricordarci perché mai lo consideriamo uno degli incontri più significativi fatti durante i nostri viaggi sulle highways britanniche.
(Nicola Gervasini)

martedì 22 dicembre 2009

PETER BRADLEY ADAMS - Traces


Buscadero
Dicembre 2009




Il mondo si è accorto di Peter Bradley Adams nel 2005, quando una cover del traditional Hard Times (Come Again No More) commentò le immagini del film Elizabethtown di Cameron Crowe. La sua band allora si chiamava Eastmountainsouth, e l’avventura cinematografica era il risultato di un contratto firmato da Bradley con la Dreamworks grazie al direttore artistico dell’area musicale della nota casa cinematografica, un “certo” Robbie Robertson, che ormai da anni fa vita da dirigente. Con un simile nobile sponsor, Bradley ha avuto l’occasione di registrare due album da solista (Gather Up del 2006 e Leavetaking l’anno scorso), apprezzati esempi di folk delicato e “poppish”, che gli hanno fatto guadagnare riconoscimenti e onori dagli addetti ai lavori. Traces continua a seguire la linea a basso profilo già intrapresa in passato, anche se stavolta affiora una maggiore attenzione agli arrangiamenti, come risulta subito evidente dallo studiato impasto di voci (l’aiuta la brava cantautrice Katie Herzig) che impreziosisce l’iniziale Family Name. Nonostante l’utilizzo di tanti strumentisti acustici e archi, alla fine il fulcro dell’album restano i bozzetti per sola chitarra e voce come For You, Darkening Sky o I Cannot Settle Down. E’ un disco non facile, perché le canzoni di Adams risultano davvero avere una marcia in più in termini di scrittura (sentite attentamente I Won’t o Trace Of You e poi ci dite), ma evidentemente manca qualcosa in sede di produzione (lui stesso si assume l’onere) che riesca a far risaltare questa grande dote nel dovuto modo, perché ai primi sommari ascolti (quelli che purtroppo i tanti navigatori del web concedono a queste produzioni indipendenti) il disco appare più piatto e monotono di quanto in verità non sia. Certo, ogni tanto Adams si addormenta un po’ sulle sue stesse note (From The Sky evoca un po’ troppo), ed è probabilmente vero che i testi intimistici e un po’ depressi finiscono per prendersi un po’ troppo sul serio, ma se qualcuno desse Tell Myself in mano ad una band soul con tanto di sezione fiati, ne verrebbe fuori probabilmente la migliore soul-ballad alla Otis Redding dell’anno. Disco comunque consigliato agli amanti delle tinte tenui ed autunnali, Traces lascia ancora l’impressione di non essere il titolo giusto per promuovere Peter Bradley Adams tra i grandi.

Nicola Gervasini

sabato 19 dicembre 2009

HOOTS AND HELLMOUTH - The Holy Open Secret



Buscadero
Dicembre 2009


Scandagliando tra le mille uscite indipendenti della musica americana capita di incappare in qualche deliziosa piccola sorpresa come questo The Holy Open Secret, secondo album degli Hoots And Hellmouth. Nati come duo nel 2005 formato da Sean Hoots e Andrew "Hellmouth" Gray, entrambi voce e chitarra, la band si è completata con l’aggiunta del mandolinista Rob Berliner e del bassista John Branigan, diventando uno degli appuntamenti live più richiesti nella zona di Philadelphia. Per spiegare il loro stile potremmo anche citare alcuni nomi che hanno seguito in tour come gruppo spalla (Heartless Bastards, Langhorne Slim, Grace Potter), vale a dire tre simboli di potenza, folk moderno e tradizione, esattamente gli elementi che troviamo in questi frizzantissimi dieci brani. Pur mantenendo un impianto prettamente acustico, la musica degli Hoots And Hellmouth si figura essere particolarmente aggressiva e movimentata, quasi un gruppo rock in versione unplugged, come dimostrano episodi da cowboy-punk come You And All Of Us e l’irruente Watch Your Mouth, ma, appena possono, trovano subito il giusto registro per offrire ballate melodiche come Three Penny Charm o momenti riflessivi come Ne’er Do Well. Senza sconvolgere nessun equilibrio della musica moderna, gli Hoots And Helmouth dimostrano già una discreta personalità nel non ricalcare troppo schemi altrui, anche se forse qualcuno potrebbe sentirci molto di Conor Oberst nell’iniziale Root Of The Industry, oppure dello stesso Langhorne Slim nelle stravaganze acustiche di Dishpan Hands, se non magari mille altri esempi alla Randy Newman per l’esperimento jazzy di The Family Band. Ma episodi come la travolgente What Good Are Plowshares If We Use Them Like Swords?, con il suo penetrante organo soulful, o il tour de force della acustiche di Known For Possession, rendono bene anche in studio la loro veemenza live. Chiude il disco la divertente Roll, Brandywine, Roll e tutti a casa in tempi brevi. Disco consigliatissimo se amate gli intrecci di strumenti a corde (chitarre, banjo, mandolini) e se ancora vi state chiedendo che disco avrebbero potuto fare i Clash realizzando un album “americano” senza spina.
Nicola Gervasini

mercoledì 16 dicembre 2009

ELVIS PERKINS - The Doomsday EP


Buscadero
Dicembre 2009


Chi sia Elvis Perkins (e di chi sia figlio…) diamo ormai per scontato lo sappiate, altrimenti correte subito a reperire i suoi unici due album (Ash Wednesday del 2007 e Elvis Perkins In Dearland di quest’anno), perfetti esempi del nuovo folk indipendente, quello che fa di tradizione e sperimentazione un unico credo. The Doomsday EP è un piccolo addendum al recente disco, cinque outtakes che non avrebbero trovato spazio nel prossimo disco perché indissolubilmente legate alle sessions dell’acclamato secondo album. In questi casi un simile oggetto nasce inevitabilmente rivolto ai fans più scalmanati, anche se bisogna segnalare come lo stato di grazia di Perkins fa si che anche in questi inediti ci sia materiale imperdibile. Il brano del titolo è presente sia nella versione già ascoltata nell’album, ma anche in una versione funerea e rallentata, intitolata appunto Slow Doomsday, che risulta essere anche più affascinante. Per il resto nel lettore passano un’acida rilettura del traditional Gipsy Davy, certamente diversa da quelle che già sicuramente possedete (da quelle di Guthrie padre e figlio, alle tante risentite in questi anni), una Stay Zombie Stay che risulta essere uno strambo e claudicante folk, molto vicino a quelli del suo primo disco, fino alla sorprendente Stop Drop Rock And Roll, forse uno dei primi esempi di “rockabilly-indie”, una specie di Highway 61 Revisited in salsa moderna dove le codifiche del rock and roll più classico saltano completamente tra percussioni indiavolate e assoli di chitarra old-style. Ancora meglio Weeping Mary, spiritual corale che conclude quel piccolo viaggio/omaggio nella tradizione americana che è questo piccolo cd. Non ve lo spacciamo come imprescindibile perché il genio di Perkins è forse più evidente quando “fa l’Elvis Perkins” e non quando si mette a giocare con i generi come in questo caso, ma che siano venti minuti spesi bene è affermazione che rilasciamo senza remore.
Nicola Gervasini

sabato 12 dicembre 2009

IL MEGLIO DEL 2009









FELICE ANNO 2009!





















I MAGNIFICI 10

1 FELICE BROTHERS - Yonder is The Clock
2 LUCERO -1372 Overton Park
3 BONNIE PRINCE BILLY - Beware
4 WILCO - (The Album)
5 TOM RUSSELL-Blood And Candle Smoke
6 BLACK CROWES -before the frost / until the freeze
7 BLACK JOE LEWIS & the honeybears - tell 'em what your name is!
8 IAN HUNTER - Man Overboard
9 CHUCK PROPHET - Let Freedom Ring!
10 WILLIAM ELLIOTT WHITMORE – Animals In The Dark

Quest'anno NICKNAME premia i Felice Brothers, probabilmente il miglior esempio di come riuscire ad apparire moderni e non risaputi pur restando una band roots-oriented a tutti gli effetti. Bene i LUCERO, il loro miglior disco di sempre, il rock and roll fatto di chitarre, energia e pure fiati non muore, e qui ci sono anche grandi canzoni. Conferma, anzi, qualche cosa ancora più da WILL OLDHAM AKA BONNIE PRINCE BILLY, uno dei suoi dischi più belli di sempre. Non deludono i WILCO, sempre a livelli eccelsi, sono finalmente tornati a fare cose importanti i Black Crowes, Chuck Prophet, mentre ricordatemi quando Ian Hunter ha sbagliato un colpo che non lo ricordo più.....album neri dell'anno il frizzantissimo Black Joe Lewis e il gospel rurale di WHITMORE. E ovviamente TOM RUSSELL, penna d'oro aiutato dai Calexico per un grande album




Dischi Caldi:

11 RYAN BINGHAM - Roadhouse Sun
12 ROBYN HITCHCOCK - Goodnight Oslo
13 DAVE RAWLINGS MACHINE - A Friend Of A Friend
14 CHRIS ISAAK - Mr. Lucky
15 JAY FARRAR & BEN GIBBARD- One fast move or…
16 SUBDUDES - Flower Petals
17 MICKEY CLARK - Winding Highways
18 ELVIS PERKINS - Elvis Perkins in Dearland
19 JOSHUA JAMES - Build Me This
20 HOWARD ELLIOTT PAYNE - Bright Light Ballads



gli altri OK dell'anno


21 WILD SPECIALTIES - beautiful today
22 AMY SPEACE - The Killer In Me
23 BARZIN - notes to an absent lover
24 BUDDY & JULIE MILLER - Written in chalk
25 DANNY SCHMIDT - Instead the Forest Rose to Sing
26 BLUE RODEO - All The Things I Left Behind
27 JASON ISBELL - Jason Isbell and the 400 Unit
28 ISRAEL NASH GRIPKA - NY Town
29 TIM EASTON - Porcupine
30 DAN AUERBACH - Keep it Hid
31 MUMFORD & SONS - Sigh No More
32 ROBERT EARL KEEN - The rose Hotel
33 WILLEM MAKER - New Moon Hand
34 THE DUKE & THE KING - Nothing Gold Can Stay
35 JASON LYTLE - Yours truly, the commuter
36 DEEP DARK WOODS - Winter Hours
37 STAR ANNA & the laughing dogs - the only thing that matters
38 CRACKER - Sunrise in the Land of Milk and Honey
39 HOOTS AND HELLMOUTH - The Holy Open Secret
40 DEREK TRUCKS BAND - Already Free
41 CHRISTY MOORE - Listen
42 LEVON HELM - Electric Dirt
43 RAMBLIN JACK ELLIOTT - A Stranger Here
44 DINOSAUR JR - Farm
45 HEARTLESS BASTARDS - The mountain
46 SON VOLT - American Central Dust
47 RICHMOND FONTAINE- We used to think.....
48 RUTHIE FOSTER - The Truth According to Ruthie Foster
49 GREAT LAKE SWIMMERS - Lost Channels
50 BRENDAN BENSON - My Old, Familiar Friend


3 Canzoni (non comprese tra quelle della top 10)

1 Shampoo - Elvis Perkins
2 Cheater's Town - Chris Isaak
3 Daniel - Joshua James


LIVE ALBUM:


1 LEONARD COHEN - Live in London
TOM PETTY & The Heartbrekers - Live anthology
ex aequo
3 ERIC CLAPTON-STEVE WINWOOD -


CONCERTI:

BRUCE SPRINGSTEEN - TORINO
GASLIGHT ANTHEM - MILANO
ROBYN HITCHCOCK - MILANO
DINOSAUR JR - MILANO






PREMIO DELUSIONE DELL'ANNO
DAVID GRAY - Draw The Line



PREMIO BOLLITO DELL'ANNO
(aka...elettroencefalogramma ormai piatto...)

1 U2 - No Line on the Horizon
- ormai definitivamente morti
2 Neil Young-Fork the road
- preoccupante
3 Steve Earle-Townes
- lo stiamo perdendo...dottore!
4 Pearl Jam - Backspacer
- danno timidi segnali di vita...ma ormai vegetano
5 Bruce Springsteen- Working on a Dream
- quando entra in uno studio muore, poi esce e torna in vita....c'è speranza ancora per lui
nota:
(Bob Dylan non ci entra d'un soffio perchè il suo Together through life è meglio di tutti questi,....ma rischia...uh se rischia....)

martedì 8 dicembre 2009

MATTHEW RYAN - Dear Lover


23/11/2009
Rootshighway


Niente da fare, neanche questa è la volta buona per risolvere il difficile rapporto tra canzone d'autore e elettronica, uno dei crucci di tanti eroi della canzone americana (Mellencamp, Prophet, McDermott, la lista di tentativi è lunga). Matthew Ryan è solo l'ultimo che ci sta credendo ancora, e Dear Lover doveva essere nelle sue intenzioni lo zenith di una sperimentazione che è iniziata con qualche registrazione casalinga e ha avuto i primi irrisolti step con il progetto degli Strays Don't Sleep e l'album From a Late Night Highrise, ma anche stavolta dobbiamo registrare solo qualche buon risultato, ma non un vero e proprio successo. Auto-prodotto e auto-distribuito sfruttando le infinite possibilità del mondo web, Dear Lover porta alle estreme conseguenze il tentativo di modernizzare un tipo di struttura dei brani che resta inesorabilmente classica, in quanto da qualunque parte le si rigirino, queste canzoni hanno il marchio di fabbrica di Ryan esattamente come quelle che scriveva dieci anni fa: si parla di angoscia (The Wilderness), solitudine (Your Museum), rapporti umani difficili (Dear Lover) e tutto quanto ha sempre caratterizzato l'affascinante mondo lirico di Matthew. E qui sta forse il problema, nel fatto che ancora una volta ci troviamo di fronte ad un artista che decide di ricorrere alle strumentazioni elettroniche senza prima cambiare il proprio modo di affrontare la scrittura, con il risultato che spesso e volentieri si ha la sensazione di un utilizzo aprioristico di drum-machines e effetti di ogni tipo, quindi, a conti fatti, per nulla necessario. Dividiamo dunque i brani di questo album in tre categorie: prima gli episodi dove l'utilizzo delle tastiere sostituisce perfettamente quello di chitarre e percussioni - anzi, donano forse un qualcosa in più - come l'iniziale City Life, o anche il dialogo tra il drumming nervoso e il tocco di piano di We Are The Snowman. Poi ci sono gli episodi più classici (ad esempio The World Is…, oppure Some Streets Lead Nowhere e il finale The End Of A Ghost Story, che aggiungono pianoforte e finti archi al menu), che vedono in campo lo stesso Ryan dei tempi di Concussion, anche se forse solo la sofferta Your Museum riesce a eguagliare quella perfetta rappresentazione degli abissi umani. E infine ci sono una serie di esperimenti mal riusciti, che vedono gli arrangiamenti confusi, le distorsioni inutili e i ritmi irrisolti della title-track e di The Wilderness (e qui peccato davvero, perché il brano meritava qualche idea migliore), brani semplicemente ordinari come P.S., o veri e propri disastri come Spark, che non consideriamo brutta in quanto brano techno-dance, ma perché anche come techno-dance suona vecchia, con quel controcanto del DJ tanto in voga negli anni 90. Fa davvero sorridere in questo caso pensare che una semplice chitarra acustica nel 2009 suona più moderna, e perfino più alla moda se vogliamo. Questo è il Ryan testardo e solitario di oggi, prendere o lasciare: prendiamo naturalmente, ma non ci toglierete dalla testa che Dear Lover sappia molto di occasione persa. (Nicola Gervasini)

sabato 5 dicembre 2009

ROSIE FLORES - Girl Of The Century


18/11/2009
Rootshighway



Ci guardiamo alle spalle e ci rendiamo conto con una certa sorpresa di non aver mai affrontato un disco di Rosie Flores in questi quasi dieci anni di vita del nostro sito. Curioso per una delle voci femminili di Austin più invitate come guest star in studio dal mondo della canzone roots, un po' meno sorprendente se si realizza che dopo i suoi anni 90, copiosi di dischi e riconoscimenti nel genere (a fine anni 80 ebbe anche l'onore di qualche hit da classifica), negli ultimi dieci anni la Flores ha licenziato un solo nuovo album (Speed Of Sound dell'ormai lontano 2001) e alcuni prodotti di riciclo (un live, un'antologia per la Hightone e un disco natalizio). Girl Of The Century può dunque essere salutato come una specie di ritorno, oppure come l'inizio di una nuova vita, a 59 anni suonati, con un nuova etichetta di valore (la Bloodshot) e nuove amicizie per rilanciarsi.

Nata nel mondo rockabilly degli anni 80 e virata verso un country-rock più nashvilliano nel corso della carriera, Rosie Flores ha trovato il proprio nuovo pigmalione artistico nel sempre attivissimo Jon Langford (Mekons, Waco Brothers), che per l'occasione riesuma il nome del supergruppo dei Pine Valley Cosmonauts (cercate i loro dischi, sono dei veri e propri happening del mondo Bloodshot), in questo caso composti da Joe Camarillo, Pat Brennan, Tom V.Ray e il bravissimo chitarrista John Rice. Quello che salta subito all'orecchio di questo disco è l'intenzione di realizzare una sorta di presentazione antologica del personaggio Flores per le nuove generazioni, con un occhio più volto a quello che è stato, che a quel che potrebbe essere. Peccato, perché a Langford non manca certo il coraggio dei buoni azzardi, ma qui si ripropone il mito della rock and roll girl nelle cover di I Ain't Got You di Calvin Carter e This Little Girl's Gone Rockin' di Bobby Darin e si bazzicano iper-classici come Get Rhythm di Johnny Cash con noncuranza dello spessore storico di quanto si sta facendo.

Nulla di male dunque se vi piacerà questo disco, cullarsi sulle frizzanti note di classici iper-rodati o nuovi originali che non fanno male a nessuno (Langford fornisce materiale di buona fattura con Last Song e Halfway Home, la Flores si fa aiutare da altri co-autori per scrivere la title track e la divertente The Cat's In The Doghouse) è in fondo una delle ragioni d'essere di questo tipo di roots-music, e in un certo senso questo disco finisce di diritto in quel mondo che si accontenta di rileggersi con piena autoreferenzialità che ci hanno raccontato il John Fogerty o la Rosanne Cash più recenti, anche se con più personalità. Noi invece pretendiamo di più, contando che Girl Of The Century sancisce il definitivo ridimensionamento di Rosie Flores a personaggio di contorno, una deliziosa ciliegina senza la quale la torta sarebbe stata ugualmente buonissima.
(Nicola Gervasini)

venerdì 4 dicembre 2009

BEN BEDFORD - Lincoln's Man




Rootshighway
Novembre 2009




Nel mondo del "fai da te" del mercato discografico capita che un cd del 2008, di un autore esordiente come Ben Bedford, venga distribuito in Italia quando ormai è già disponibile l'opera successiva (Land Of The Shadows). Ben venga però il ritardo, se permette di segnalare qualche disco interessante perso nei meandri del mondo come questo Lincoln's Man, primo disco di un cantautore di vecchia scuola (tra un Gordon Lightfoot d'annata e un Loudon Wainwright III quando si prende sul serio), che ha probabilmente passato più tempo sui libri che sulla chitarra. Lui stesso, nella nota di copertina, sottolinea come il disco nasce dall'indecisione tra il fare il cantautore o il professore di storia, e, scelta la prima opzione, le dieci canzoni di Lincoln's Man altro non sono che le dieci storie che non lo lasciavano dormire la notte e che avrebbe da tempo voluto raccogliere in un libro. Storie di guerre, povertà, storie d'America insomma, scritte con piglio alla Steinbeck e con tanto di brano celebrativo al mito Kerouac (Goodbye Jack). Seguire i testi con il libretto è il godimento massimo qui, visto che la penna è davvero invidiabile, e non mancano le emozioni forti quando il lettore arriva a Migrant Mother o a Virginia Girls. Quello che ancora manca a Bedford è un senso della misura nel dosare parole e musica, anche perché ha la tendenza ad una verbosità che porta i minutaggi quasi sempre oltre i cinque minuti, a fronte di una voce monotona e troppo poco particolare, con conseguente appiattimento del suono. Salva il tutto lo splendido dobro di Chas Williams, anche produttore del disco, al quale speriamo venga dato più spazio nel secondo capitolo. Saper fare "dischi da leggere" senza annoiare è dote di pochi, grandi talenti; a Bedford il consiglio di riprovarci con più attenzione al lavoro in studio. (Nicola Gervasini)

mercoledì 2 dicembre 2009

BAP KENNEDY - Howl On


09/11/2009
Rootshighway



Figlio minore di una generazione di folker nord-britannici (dai Pogues ai Waterboys, per arrivare agli Hothouse Flowers e ai suoi Energy Orchard), irripetibile quanto ormai dispersa tra drastici cali d'ispirazione e rovine fisiche, Bap Kennedy non molla il colpo e continua imperterrito a seguire la sua strada. Un sentiero che dai pascoli della verde Irlanda porta inevitabilmente a qualche highway americana, ormai talmente calato nella parte di un "Hillbilly Shakespeare", da aver prodotto con questo Howl On una sorta di concept album sull'America, vista con i suoi occhi da ragazzino negli anni sessanta. E così dopo l'omaggio alla musica d'Irlanda della sua ultima fatica (The Big Picture del 2005), Howl On ribadisce la sua appartenenza stilistica fin dal primo brano, l'accorata America che racconta dei tanti piccoli Belfast Cowboys che vivevano aspettando notizie da quell'oltreoceano mitico e mitizzato. Il racconto prende spunto dallo stupore per la visione dei primi uomini sulla luna ("They took Hank Williams to the moon" canta in Cold War Country Blues), vero simbolo di un sogno americano che non aveva confini, almeno agli occhi dei piccoli irlandesi che dovevano fare i conti con la loro società lacerata da povertà e diatribe religiose.

L'America era dunque il simbolo della giustizia (se ne parla in The Right Stuff, piccola ballata capolavoro, con intarsi di chitarre e dobro quasi da frontiera texana), ed era bello non accorgersi da bambini innocenti della differenza tra realtà e finzione (Irish Moon gioca sullo strano caso di omonimia tra il Michael Collins che fu il terzo uomo dell'equipaggio dell'Apollo 11 e il noto attivista irlandese, e sulla conseguente confusione che questo generò nelle menti di un bambino). E poi ovviamente l'America del rock, quella del festival di Woodstock, qui raccontata tramite una versione di Hey Joe che trasforma in Irlanda ciò che Willy DeVille anni fa riportò in Messico, con la partecipazione della chitarra di Henry McCullough, un nome che qualcuno potrà ricordare nei Wings di Paul McCartney, ma che a Belfast è riverito come "l'unico irlandese presente a Woodstock" (era con Joe Cocker).

Nella seconda parte Kennedy perde leggermente il ritmo del racconto, se è vero che dopo la bellissima title-track, affiora qualche brano (la sequenza Brave Captain, The Heart Of Universal Love e la folk Last Adventure ad esempio) che avrebbe necessitato di più nerbo negli arrangiamenti (il sound prettamente acustico richiama molto quello delle produzioni nashvilliane di fine anni sessanta, quasi in zona John Wesley Harding di Dylan diremmo). Si arriva comunque soddisfatti al finale di Ballad Of Neil Armstrong, una ninna nanna in chiave country che manda i bimbi di Belfast a letto a sognare di diventare il loro eroe americano che passeggiava sulla luna. Il vero sogno americano invece sarebbe già finito pochi anni dopo, con la presa di coscienza del Vietnam, la crisi economica, e la scoperta di un mondo che non era proprio come Walt Disney lo aveva disegnato.
(Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...