lunedì 28 maggio 2012

FATHER JOHN MISTY


FATHER JOHN MISTY

FEAR FUN

Bella Union

***1/2


Trattasi di una eccezione alla regola: se nel rock l’unione di grandi talenti ha sempre sortito risultati inferiori alla somma dei due fattori, ecco che invece il mondo indie può bearsi della buona riuscita dell’atteso progetto a nome Father John Misty. Lo scontro qui è tra titani di genere: da una parte il padrone di casa, quel J. Tillman che dal 2003 produce dischi da sottobosco spesso portati su un palmo di mano dalla critica specializzata (su tutti forse Vacilando Territory Blues del 2009), trovando magari anche il tempo di fare il batterista dei pluridecorati Fleet Foxes (ma l’esperienza pare essere stata definitivamente accantonata). Dall’altra parte c’è invece il produttore, lo stesso Jonathan Wilson che l’anno scorso ha strabiliato con al sua West Coast music riletta in chiave freak-folk del bellissimo album Gentle Spirit, album dal mood all’antica riportato fedelmente anche in questi solchi. Ne è uscito Fear Fun, convincente patchwork di tutte queste esperienze, quelle di folk minimale (Funtimes in Babylon), i muri vocali alla Beach Boys/Fleet Foxes (Nancy From Now On, O I Long To Feel Your Arms Around Me), le pesanti e ipnotiche cavalcate percussive (Hollywood Forever Cemetery Sings), ma anche ballate folk classiche (la bellissima I’m Writing A Novel o Tee Pees 1-12 e Misty’s Nightmares 1 And 2, quasi un country-rock d’altritempi) e orchestrazioni elaborate (Now I’m Learning To Love The War). In alcuni casi sembra di sentire il Bonnie Prince Billy più variegato di Beware (This is Sally Hatchet potrebbe tranquillamente essere un suo brano), con un bagaglio pieno di omaggi agli eroi del passato che regala risultati addirittura vicini a certe soluzioni vintage alla Ray LaMontagne (Well, You Can Do It Without Me). Concentrato non solo a scrivere brani ma anche a scegliere la giusta veste con cui presentarli al pubblico, Tillman realizza così la sua opera più accessibile, dove per la prima volta episodi come Everyman Needs A Companion riescono subito a farsi memorizzare e richiedono una coralità e una partecipazione che contrasta lo spirito solitario e depresso dei testi dell’autore. Perchè poi la presentazione del disco parla del solito parto dell’artista che non si abitua al mondo, ma stavolta il risultato è solare e pieno di vita, pure quando le liriche calcano la mano sulla malinconia. E sta proprio in questa salutare contraddizione il lato più positivo di questo progetto.
Nicola Gervasini

giovedì 24 maggio 2012

GABRIEL & THE HOUNDS


GABRIEL & THE HOUNDS

KISS FULL OF TEETH

Communion Records

**

Bisogna stare attenti a muoversi nel mondo del folk indipendente di questi anni: troppi prodotti, troppi artisti bravi a presentarsi come piccoli geni ma incapaci poi di avere vera sostanza dietro il loro atteggiamento modè. Poi ci sono le vie di mezzo come questo Gabriel Levine, esordiente con il nickname di Gabriel & The Hounds, già annunciato dal doveroso hype via web per via delle prestigiose collaborazioni di cui Kiss Full Of Teeth si pregia. I National innanzitutto, che gli hanno anche messo a disposizione gli studios per sgrezzare quanto lui aveva già registrato nel garage di casa, e poi Sufjan Stevens, Bjork, i Beirut e tanti altri nomi di altri mondi musicali, tutti vogliosi di esserci per la nascita del nuovo Bon Iver. Perché il tentativo di ricalcare le orme (sopravvalutate?) di quest’ultimo sono evidenti, nella registrazione lo-fi cercata anche quando il sound è infarcito di sovraregistrazioni e orchestrazioni, quasi avesse voluto creare il Pet Sounds del mondo indie, tra violini e fiati maestosi. Il risultato a livello di impatto è alterno ma in ogni caso sufficientemente professionale e suggestivo, quello che invece a ben sentire ancora non convince è se poi tanta mobilitazione di geni valesse la pena per un pugno di canzoni che non sempre riescono a farsi ricordare. Ci riesce certo What Good Would That Do?, che posta in apertura fa ben sperare, magari il giro alla Lou Reed di The World Unfolds, ma in altri casi come Lovely Thief o When We Die in South America è difficile capire la necessità di tanti fronzoli e barocchismi per ballate che avrebbero fatto centro anche in veste scarna e acustica. Problema che nel finale diventa evidente, quando addirittura si fa fatica a cercare la canzone Who Will Fall On Knees? in mezzo a tanti strumenti. Non parliamo certo di una bocciatura, Levine ha del suo da dire, anche se la sua vocalità soffocata alla M Ward a volte pare essere un freno non indifferente per futuri sviluppi, ma probabilmente in questo primo passo era troppo concentrato nel sembrare qualcun altro, e se avrà il carattere giusto per correre con le sue gambe non è detto che un giorno non scopriremo quale ottimo autore per questi anni dieci si cela dietro queste canzoni. Per ora invece ci teniamo in disparte alle lodi del mondo indie che pioveranno a catinelle su questi nuovo enfant prodige, proprio perché con le stesse idee Sufjan Stevens ha fatto lavori di ben altro spessore, con la promessa comunque che torneremo a seguirlo. Sempre che qualcuno nel frattempo lo abbia davvero convinto che basta così…
Nicola Gervasini

martedì 22 maggio 2012

SEA OF BEES


SEA OF BEES

ORANGEFARBEN

Heavenly Records

***

Si cela una piccolo icona della indie-music come Jules (all’anagrafe Julie Ann Bee) dietro la sigla Sea Of Bees, una ragazza di Sacramento dall’aria dimessa che potrebbe tranquillamente apparire come la commessa del vostro supermercato di fiducia, quasi una (non) veste da star voluta per far concentrare tutti solo sulla sua musica. Orangefarben è il secondo capitolo di questa oscura saga, e se con The Bee Eee Pee del 2009 si era ancora nel recinto del fai da te discografico, qui la ragazza comincia davvero a far sentire il proprio talento. Undici brani che il critico Robin Hilton di NPR ha definito “la versione femminile degli Sparklehorse”, ma che noi invece sentiamo più come una coda alla nuova tradizione di muse femminili degli anni 2000 come Feist o Joan As A Police Woman e persino Brandi Carline nelle sue soluzioni più tradizionalmente rootsy-rock. In più però anche un piglio pop-rock che manca alle colleghe, come si evince fin dall’iniziale Broke, che ha un bella base da mainstream rock tutt’altro che eterea. E’ con Take che tra acustiche e violoncelli che si comincia a scendere negli inferi delle suggestioni, ma già Gone riporta tutto in una chiave folk-pop quasi alla Suzanne Vega anni 80. Jules suona praticamente tutti gli strumenti, persino la batteria, aiutata dal produttore John Baccigaluppi, e a dispetto della sua immagine oltremodo timida, nei testi apre il suo cuore per raccontare il dolore della fine di un rapporto, lasciando poche parole ai titoli (tutti composti da una sola singola parola come era di moda fare negli anni 90) e molte alle sue storie. Il disco tiene un bel ritmo anche nel proseguo (molto belli gli intrecci di chitarra di Teeth) fino al fisiologico calo, (il trittico More, Give e Smile allenta troppo la tensione dell’inizio). I titoli ermetici nascondo poi una sorpresa, visto che Leaving altro non è che una azzeccata cover di Leaving On A Jet Plane di John Denver (con batteria elettronica), canzone dell’addio per antonomasia, e poi l’album si riprende con la veloce e arrabbiata Girl e la più sofferta Alien. Piacevole e pieno di buone canzoni, Orangefarben è una bella sorpresa a cui manca solo il supporto di un team professionale in fase di registrazione. Se mai vincerà la sua ritrosia ai contatti umani e deciderà di affidarsi a collaborazioni proficue, la ragazza potrebbe riservare piacevoli sviluppi.
Nicola Gervasini

domenica 20 maggio 2012



 
 
 Justin Townes EarleNothing's Gonna Change The Way You Feel About Me Now
[
Bloodshot  
2012]
www.justintownesearle.com

 File Under: songwriter, country-soul
di Nicola Gervasini (26/03/2012)

Non so…c'è che forse dopo sei anni e cinque album ho finalmente colto cosa non va in Justin Townes Earle. Perché, c'era qualcosa che non andava? Diranno i fans accaniti. Che sono tanti oltretutto, e qui so e di andare controcorrente, perché questo figlio d'arte ha mietuto consensi ben al di là dell'orticello angusto e vetusto della country-roots-folk-oldstyle music che produce. E allora uno si chiede perché mai tra i nuovi ascoltatori "lui sì" e "altri no", visto che è difficile pensare a qualcosa di più "classic" e adult-oriented della sua musica. E soprattutto noi, che su queste pagine la sua musica la mastichiamo quotidianamente, recensione dopo recensione abbiamo sempre evidenziato che il ragazzo ci sa fare, "è bravo", ma…appunto…c'è sempre un ma e un non so.Nothing's Gonna Change The Way You Feel About Me Now, oltre a rispondere ai nostri dubbi fin dal titolo (sarò maligno, ma mi suona come un se qualunque cosa io faccia non vi farà cambiare idea, allora beccatevi ancora sta minestra riscaldata!), ci aiuta anche a finire la frase. Ma. Non so.

E allora ecco cosa c'è: c'è che Justin Townes Earle è freddo. Tranquilli, forse la colpa è di quelli della mia generazione, nati vedendo il padre sputare sangue e sudore su ogni nota che ha prodotto, o quel Townes Van Zandt, di cui lui porta pure il nome, piangere per ogni parola scritta, e non ci fa piacere sapere che la loro tradizione viene poi ripresa da uno che canta ogni singola canzone con compostezza e precisione, ma anche con un trasporto pari allo zero. Pare uno che registra le canzoni pensando che alla fine della session di registrazione deve correre al bar a farsi l'aperitivo con gli amici. Non so. Poi magari mi viene anche da pensare positivo, e realizzo che, grazie a lui, a nuove piccole schiere di giovani ascoltatori arrivano i fiati soul di Look The Other Way, o un bell'honky-tonk blues da balera come Baby's Got A Bad Idea. Insomma, si studiano l'ABC del buon american-songwriter. E me lo vedo il giovane strafottente che mi fa notare che Lyle Lovett fa lo stesso identico disco da anni, e se vogliamo con maggior impostazione e freddezza (e aggiungiamoci che è pure più brutto) ma…appunto…non so…Lovett quando swinga pigramente ti fa sentire a casa al caldo, Justin quando country-jazzeggia con stile in Lower East Side ti lascia in maniche corte in mezzo ad una strada.

Manca il cuore in mano che sanguina, mancano le palle, manca l'anima. Ci sono invece i suoni molto black-oriented creati dal produttore Skylar Wilson (la nerissima Memphis in The Rain è guardacaso uno dei brani più interessanti), il bel violino di Amanda Shires (che dona profondità alla piatta Won't Be The Last Time). Non so, forse sono io che mi sbaglio, sono io che penso che un artista al quinto album dovrebbe essere ancora nella fase in cui ribalta le sue canzoni con cattiveria, sperimentando e magari anche sbagliando. Non so, sarà che per me il rock and roll, inteso come filosofia di far musica, è un'altra cosa rispetto a questo compitino. Queste probabilmente sono le altre storie...

domenica 13 maggio 2012


 
 Bonnie Raitt Slipstream
[
Redwing/ Proper  
2012]
www.bonnieraitt.com


 File Under: blues rock
di Nicola Gervasini (30/04/2012)

Durante un recente concerto a Milano, John Hiatt ha attribuito a Bonnie Raitt il merito di aver finanziato l'università della sua prole grazie alla stra-venduta cover di Little Thing Called Love. E non è certo lui l'unico artista che deve alla brava Bonnie la soddisfazione di aver visto il proprio nome in una classifica di Billboard. Eppure non è stata davvero solo questa la funzione nella storia del rock di questa timida blues-girl dai capelli rossi, nata come una delle primissime chitarriste blues bianche e forte di uno stile riconoscibile che finirà per assorbire tutta la lezione di Lowell George. Fu prima l'innamoramento per la canzone d'autore, e poi una fruttuosa sequenza di titoli annacquati con certo pop da radio FM che hanno fatto di lei un personaggio amato, ma pur sempre considerato secondario dai più, una brava a mettere in bella forma quelle opere che sarebbero rimaste nel retrobottega se proposte nella versione originale.

Dopo aver tentato una improbabile svolta sperimentale con Fundamental nel 1997 (matrimonio artistico con il produttore Mitchell Froom), Bonnie già da tre album sbarca il lunario facendo bene quello che meglio sa fare, senza più cedimenti a suoni plastificati, ma senza neppure particolari slanci creativi. Non fa eccezione neppure questoSlipstream, che, se non altro, rispetto ai precedenti Silver Lining e Souls Alike ha il merito di azzeccare quasi tutte le scelte di repertorio e suonare più fresco grazie alla sapiente produzione di Joe Henry. E se forse ben due riletture tratte da Time Out Of Mind di Bob Dylan paiono una esagerata genuflessione al mito (meglio il blues Million Milescomunque, rispetto ad una Standing On The Doorway che forse necessitava più pathos), se magari di If You Fail Me Now bastava lo splendido botta e risposta tra lo stesso Henry e Loudon Wainwright III di quattro anni fa, risultano interessanti la pianistica God Only Knows o la leggera Right Down The Line di Gerry Rafferty.

Il resto è tutto appannaggio del suo team compositivo, coadiuvato da Randall Bramblett (che tira fuori dal cilindro lo scoppiettante inizio di Used To Rule The World e qualche buon blues di marca come Down To You Ain't Gonna Let You Go) e dall'ex NRBQ Al Anderson (ma i suoi contributi appaiono i meno incisivi, con una Split Decision che ormai sa davvero troppo di Little Feat ultima maniera). Forse alla fine il brano più memorabile resta la semplice e delicataMarriage Made In Hollywood, un bel testo di Paul Brady che la Raitt interpreta con il garbo che ce l'ha fatta amare tanto tempo fa. Nessun brano autografo e un composto e distaccato impegno in fase di registrazione, se vi accontentate è tutto quello che la Raitt può ancora dare nel 2012. Basta, ma non avanza.

martedì 1 maggio 2012

LEE RANALDO



Lee Ranaldo Between The Times and The Tides
[
Matador/ Self 
2012]
www.sonicyouth.com/symu/lee
www.matadorrecords.com
 File Under: alternative-rock, indie-rock
di Nicola Gervasini (16/04/2012)

La mente va al 1994, quando uscì Experimental Jet Set, Trash & No Star, e non pochi salutarono il brano di apertura Winner's Blues (un semplice blues acustico con registrazione al livello demo) come una definitiva apertura dei Sonic Youth al mondo della canzone tradizionale, l'ultima tappa di quel passaggio al mainstream paventato dai vecchi fans ai tempi della loro forma per una major nel 1990. Oggi, 2012, sappiamo come è andata la storia, la variazione stilistica della band newyorkese si fermò a quell'episodio, e ad oggi la band ha continuato a proporre il suo rock alternativo con una coerenza stilistica invidiabile vista la longevità (30 anni esatti, praticamente i Rolling Stones della scena alternativa). Eppure sia il disco dello scorso anno di Thurston Moore (Demolished Thoughs), sia il rilancio del compare Lee Ranaldo con questo Between The Times and The Tides, sembrano indicare che la voglia di approdare ad una forma-canzone classica che non sia schiava dell'obbligo di apparire "alternativi" e sperimentali, fosse tutt'altro che solo una tentazione.

Ranaldo non è nuovo ad uscite soliste, ma la distanza concettuale che intercorre tra queste dieci canzoni che richiamano alla mente i R.E.M. di metà anni 80 e gli abbozzi sperimentali di From Here To Infinity del 1987 è abissale. Il riferimento più chiaro potrebbe essere il Bob Mould delle prime sortite soliste, quando appunto scoprì le gioie della mainstream-song dopo gli anni focosi degli Husker Du, ma anche certe quadrature di Steve Wynn. Viene forse da pensare con malizia che sia Moore che Ranaldo volessero scrivere queste canzoni molto prima, ma che l'impossibilità di snaturare il marchio Sonic Youth abbia fatto desistere i due e continuare sulle loro consuete strade.

Il rovescio della medaglia c'è, ed è la constatazione che se sul terreno del noise-rock loro restano i maestri indiscussi, alle prese con le trame elettro-acustiche che spesso strizzano l'occhio ai Wilco (e non solo per la riconoscibilissima presenza della chitarra di Nels Cline nella stupenda Xtina As I Knew Her) e a molto indie-rock moderno, Ranaldo finisce per essere solamente "uno buono", e se questo fosse il disco di un esordiente (potrebbe esserlo, i riferimenti sono vecchi, ma il risultato è decisamente attuale), lo saluteremmo con la stessa enfasi riservata ad un Kurt Vile o altri nuovi piccoli eroi del mondo rock sotterraneo. Qui Ranaldo esibisce una buona prova d'autore (Strandedaddirittura rasenta il folk), barcamenandosi tra episodi in stile gioventù sonica (Waiting On A Dream) semplicemente spogliati dal loro tipico rumorismo, dimostrando comunque una grande esperienza nella costruzione anche di brani più complessi (Fire Island). Benvenuto tra i "normali" Mr Ranaldo. 

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...