martedì 30 marzo 2010

ALO - Man of the World


Rootshighway
10/03/2010

"Non si preoccupi, sono uomo di mondo" usava dire spesso nei suoi film l'indimenticato Totò, un modo come un altro per dirsi uomo pronto a capire le debolezze umane, grazie all'esperienza e a una certa apertura e flessibilità mentale. Stavolta vogliamo provare ad essere uomini di mondo anche noi, capaci magari di capire quando un disco come Man Of The World degli Animal Liberation Orchestra - alias ALO per comodità nostra e bontà loro - va letto nel suo contesto e non in assoluto per apprezzarlo. Loro sono la punta di diamante dell'etichetta Brushfire di Jack Johnson, addirittura scomodato in veste di produttore in questa occasione, nonché l'ultima (o ormai penultima probabilmente) espressione di quella filosofia inventata dai Grateful Dead 40 anni fa (e trasformata in religione dai Phish negli anni '90) che vuole il gruppo visto non come mera fabbrica di dischi, ma come laboratorio d'idee e improvvisazioni continue sul palco di ogni dove e, solo saltuariamente, casualmente e frettolosamente, negli studi di registrazione. Un genere difficile da affrontare se decidete di transitarci da turisti e non da habituè, perché districarsi tra i mille live, ufficiali o "instant" che siano, è impresa titanica, e conoscere queste band solo tramite i lavori in studio significa poterci capire davvero poco.

Man Of The World non fa eccezione se dovessimo elencare pregi e difetti di queste produzioni, che mischiano sempre troppe idee, troppi stili, hanno sempre momenti altissimi affiancati da lungaggini o esperimenti fini a se stessi. Esattamente quello che ha impedito a band come Phish o Widespread Panic di uscire dal rango di cult-band a livello di uscite discografiche (non certo come entità del loro seguito, che resta enorme), nonostante a ben guardare il loro repertorio sia pieno di grandi canzoni e momenti memorabili, ma che vanno ben cercati in mezzo ad un mare di note
only for fans. E qui di memorabili ci sono i sette minuti di Suspended che aprono il disco, brano emozionante, incedere lento e sofferto alla Felice Brothers, interpretazione da antologia del leader Zach Gill e applausi già conquistati. Peccato che poi il disco non viaggi sempre sullo stesso livello (ma sarebbe stato difficile), e se grazie alla divertente title-track e alla toccante Put Away The Past si procede a buona velocità di crociera, quando si arriva a cosette un po' più inconsistenti come Big Appetite o Gardener's Grave si atterra nuovamente.

Nel finale comunque subentra l'estro e la fantasia della band, quelle che rendono le danzerecce
The Champ e I Love Music un finale con i fiocchi e The Country Electro un riuscito azzardo. Ma come ben potete notare, ci siamo ricascati, stiamo leggendo il particolare e analizzando il dettaglio, quando gli ALO sono solo una di quelle american-band che vanno considerate nell'insieme di un movimento culturale. Colpa nostra che ci ostiniamo a pensare ancora i dischi in termini di opera d'arte e non di semplici contenitori di canzoni a casaccio, forse perché siamo davvero un po' come Totò, che in Totò a colori disse "Non si preoccupi, sono un uomo di mondo", ma aggiunse "ho fatto 3 anni di militare a Cuneo".
(Nicola Gervasini)

venerdì 26 marzo 2010

BASIA BULAT - Heart Of My Own




05/03/2010
Rootshighway




Il miglior modo di realizzare un secondo disco sarebbe quello di saltare direttamente al terzo probabilmente, evitando dunque il confronto, il dover soddisfare le attese e confermare quei complimenti che solo le opere d'esordio sanno captare. Ma non si può, e quindi mirino puntato sulla canadese Basia Bulat, solo due anni fa "next big thing" del nuovo folk femminile con l'esordio Oh My Darling, non certo un capolavoro, ma sicuramente il classico bel disco scritto durante un'intera adolescenza e messo a fuoco a 23 anni con tanta inesperienza in dotazione ma con quel sacro fuoco artistico che ci anima nei nostri anni verdi. Esattamente quello che non sono le canzoni di Heart Of My Own, secondo capitolo scritto sulla strada durante tre anni passati a raccogliere consensi, un'opera di un'artista arrivata, non di una che vuole arrivare. Cambia tutto quindi, non magari lo stile, sempre legato a quella matrice canadese che si rifà a Joni Mitchell (facile tirarla in ballo quando praticamente ogni canzone sembra pensata con Blue che gira nel lettore accanto) o al primissimo Bruce Cockburn innamorato della sua chitarra acustica.

Prodotto ancora una volta da
Howard Bileman (Arcade Fire tra i suoi assistiti), l'album presenta dodici brani dall'ossatura prettamente acustica, con grande fiducia nella voce di Basia, un po' Tracy Chapman (in Run la ricorda proprio molto), un po' se stessa, e un evidente tentativo di continuare a far risaltare le canzoni a discapito della spettacolarità. E il gioco nelle prima fasi sembra anche funzionare, se è vero che Go On è una partenza che ben dispone e Sugar And Spice arriva poco dopo a cercare di piazzare il colpo del knock-out. Ma proprio quando il disco dovrebbe salire di tono, la Bulat cade nella propria autoindulgenza (suona lei la maggior parte degli strumenti), infilando una serie di brani senza troppa spina dorsale (Heart Of My Own), se non proprio bruttarelli (If Only You) o noiosi (Sparrow). E' l'empasse da secondo album evidentemente, quello scarso fluire di note e parole che rende molte di queste canzoni legnose e poco memorizzabili, e quando poi in The Shore si addormenta sui tasti di un piano, ci sembra davvero di capire quale sia il male che attanaglia troppe produzioni odierne.

Fortuna nostra che la ragazza riesce comunque ad uscirne, perché in ogni caso in molte occasioni dimostra talento e savoir faire, fino a quando con
Walk You Down infila anche il piccolo capolavoro, e visto che siamo arrivati alla traccia 11, la reazione naturale è quella di dire "ma non poteva dirlo prima?". In ogni caso il tentativo di restyling e ingrassamento della formula con qualche tastiera e fiato in più non ha sortito effetti significativi, Heart Of My Own è solo un discreto seguito di un bel disco, e non potendo contare sull'effetto novità e neppure sull'accattivante copertina dell'esordio, è facile immaginare che non farà lo stesso rumore.
(Nicola Gervasini)

mercoledì 24 marzo 2010

TINDERSTICKS - Falling Down A Mountain


24/02/2010
Rootshighway


La reunion sembra essere diventato lo sport preferito di molti eroi degli anni 90 in questa fine degli anni zero, ed esattamente come successe alla fine degli 80 con l'ondata di riesumazioni delle sixties-band, ci sono da fare molti distinguo tra chi ha ancora qualcosa da dare e chi semplicemente era scomparso per giusta selezione naturale. ITindersticks fanno certamente parte della prima schiera: osannati nel 1993 come nuova frontiera del pop gotico britannico e scomparsi nel 2003 nell'oblio generale, si sono riuniti nel 2008 con un album (The Hungry Saw) che ha ottenuto, se non successo (parola che oggi forse non ha più senso per nessuno), perlomeno quei riconoscimenti e attestati di stima che si concedono ai veterani che dimostrano di essere diventati insostituibili maestri per le nuove generazioni. Falling Down A Mountain è il secondo capitolo di questa nuova era, l'ottavo della loro intera storia, e arriva a sancire quel classico punto di arrivo nella vita creativa di una band in cui si cementa uno stile, si cristallizza un suono, e si procede per sempre con una sorta di pilota automatico che genera dischi sempre di buon livello, ma mai più decisivi ed influenti come i primi.

Nulla di male in fondo, non si può chiedere al leader Stuart Staples di cambiarsi a 45 anni suonati, per cui via a una nuova carrellata di dark-smooth-folk-pop che strizza l'occhio al trip-hop anni 90 che fu (la title track ipnotizza il disco fin dalle prime battute), come al folk più classico (
Keep You Beautiful viene cantata con voce tremolante alla Donovan, la stessa che invece nella bellissima Harmony Around My Table ricorda molto Eric Andersen), giri di chitarra alla Velvet Underground (Peanuts), echi dei Roxy Music che furono (Black Smoke) e così via. Siamo al punto in cui in questa musica si può ritrovare tutta la storia del rock inglese più sovrastrutturato ed intellettualoide, e su un brano come No Place So Alone ci si potrebbe piazzare il vocione di Nick Cave senza mutare effetto (o nella pianistica Factory Girls, che sarebbe stata bene in coda a Boatman's Call). E' una musica fatta di tastiere sognanti, fiati echeggianti e chitarre effettate, che guarda al passato per scrivere un presente dove parlare di novità significa solo saper ben mischiare vecchi ingredienti, ma Staples sembra davvero non curarsene e continuare imperterrito sulla sua strada.

Stavolta forse mette un occhio in meno sulla scrittura e uno in più sulla creazione di suggestioni sonore, ma sono particolari di discussione per i fans, per noi invece resta il fatto che
Falling Down A Mountainè un bel disco da ascoltare nelle ore serali, con il bicchiere di liquore sul tavolino e la voglia magari di lasciarsi andare a qualche emozione forte che necessita di una colonna sonora non troppo invadente. D'altronde i Tindersticks invadenti non lo sono stati mai, hanno passato vent'anni a dipingere paesaggi color pastello senza mai urlare una sola volta, e questo disco sembra voler dire che non hanno intenzione di farlo mai.
(Nicola Gervasini)

sabato 20 marzo 2010

WILL KIMBROUGH - Wings


Buscadero

Marzo 2010


Produttore, chitarrista e di tanto in tanto anche autore di dischi in proprio: il nome di Will Kimbrough è uno di quelli noti solo a chi usa leggere con attenzione i credits degli album che compra. Uomo dai mille progetti e gruppi estemporanei (con Tommy Womack ha dato vita ai Bis-Quits e più recentemente ai Daddy) e collaboratore di svariati grandi artisti abitualmente trattati in queste pagine, Kimbrough arriva con Wings al suo quinto album, forse il primo che comincia ad essere qualche cosa di più di un semplice sfogo da session-man. Will infatti stavolta ha giocato d’intelligenza e ha chiesto la collaborazione di alcune delle migliori penne incontrate nel corso della sua carriera. Troviamo così l’amico Jeff Finlin cercare le parole giuste per la romantica Big Big Love e per You Can’t Go Home e The Day Of The Troubador, Todd Snider sfoderare tutta la sua tipica ironia per la divertentissima invettiva contro il gossip di It Ain’t Cool (“non è carino parlare di qualcuno quando non è presente…”), e nientemeno che un ispirato Jimmy Buffett co-firmare la bella title-track (Will è coinvolto nel suo recente Buffett Hotel). Questi i nomi più altisonanti, ma non sono da meno altre penne meno note come le cantautrici Sara e Rene Kelley (la prima scrive Let Me Be Your Frame, la seconda A Couple Hundred Miracles) e il poco conosciuto Dave Zobl (per il mezzo gospel con tanto di fiati di Open To Love), tutti amici conosciuti nei locali di Nashville, città in cui questo album è stato concepito. Nota comunque di merito anche allo stesso Kimbrough, che da solo firma l’iniziale Three Angels e Love To Spare (in un intervista Will affermò che furono i dischi di Elvis Costello a spingerlo a scrivere canzoni, e davvero si sente…), ma quello che rende Wings un disco più che convincente è che stavolta una produzione semplicemente perfetta (suoni da 10 e lode) è finalmente al servizio di brani che non lasciano un attimo di tregua e non concedono nulla alla noia, per un risultato che può per certi versi ricordare molto i dischi più recenti di Rodney Crowell (uno che di Kimbrough si è servito spesso e volentieri) o la recente sortita solista di Dave Rawlings. Non aspettatatevi il disco che vi cambia la vita, ma quando sprechiamo tempo e denaro per cercare piacevoli chicche nel sottobosco del rock è questo tipo di disco che cerchiamo.

Nicola Gervasini

mercoledì 17 marzo 2010

MORPHINE - At Your Service


Febbraio 2010

Rootshighway


35 canzoni, più di 2 ore di musica, e Bill Convay nelle note di copertina assicura che Mark Sandman usava registrare qualunque concerto e idea, per cui l'impressione è che questo torrenziale e doppio At Your Service, che la Rykodisc licenzia per celebrare i dieci anni dalla morte del leader dei Morphine, sia solo l'inizio di una pletora di prodotti postumi, roba che potrebbe far impallidire la discografia post-mortem di Jimi Hendrix. Già, Hendrix appunto, un nome che non tiro fuori a caso, se è vero che Sandman amava definire la sua band come i "Baritone Experience". Esiste infatti una sorta di macabro parallelo tra la sua morte e quella di Jimi, niente di strettamente musicale o storico (e ovviamente fatte le debite distanze di importanza e mito), ma solo alcune curiose coincidenze. Entrambi sono morti quando avevano già espresso uno stile unico e particolare, ma sia Mark che Jimi erano nel pieno di una nuova esplosione creativa, stavano sperimentando nuove vie, nuove sonorità, Jimi con nuove band, Mark aveva invece aperto le porte dei suoi studi a collaborazioni e nuove influenze. La storia dei Morphine si dipana in quattro bellissimi album che il mondo della musica non seppe bene come catalogare, e poi c'è un quinto capitolo, The Night, uscito postumo ma in verità già rifinito, un disco ancora oggi inquietante e sconquassante che lascia aperti grossi interrogativi su dove sarebbe arrivata la loro musica se il cuore di Sandman non avesse ceduto sul palco di una triste sera romana.

I Morphine negli anni 90 hanno distorto il canovaccio di rock-band esattamente come fecero gli Experience negli anni 60: si presentavano come un trio jazz, basso-batteria-sax, roba da era del bebop, ma le dinamiche erano ben diverse. Nelle due band infatti la base ritmica aveva un elemento di stabilità che non usciva mai dagli schemi (negli Experience era il bassista Noel Redding, nei Morphine invece il severo batterista Bill Convay), mentre il partner era libero di stravolgere ogni regola del proprio strumento: Mitch Mitchell era solito seguire la melodia e gli assoli della chitarra invece che tenere il tempo (probabilmente l'errore numero uno segnalato da qualsiasi manuale del buon drummer), mentre Sandman si era inventato un basso a due corde, solo il mi e il la, strapazzati su un manico senza tasti con approccio da chitarrista e l'insolito uso del bottleneck per ottenere l'effetto "slide-bass" che rimane il marchio di fabbrica della ditta. E poi il solista: da una parte Hendrix, basta il nome e non c'è nulla da spiegare e ricordare, ma di qua un sassofonista (Dana Colley) che da solo bastava a coprire tutte le frequenze, tanto che mai si ha con loro la sensazione di musica scarna.

I critici impazzirono nel cercare di non dover ammettere che questi bostoniani si erano davvero inventati qualcosa di grande, si cercarono in fretta precursori, e qualcuno dotato di buona memoria si ricordò dei Backdoor, stessa formazione, ma una produzione di dischi strumentali a metà degli anni settanta (ma reunion negli anni 2000) che erano invece un tentativo (anche riuscito in molti casi) di ricreare la veemenza dell'hard rock con suoni jazz. Roba che aveva poco a che fare con i Morphine dunque, mentre l'abitudine di Colley di suonare due sax contemporaneamente ricordò a qualcuno il simile funambolismo di Dick Heckstall-Smith dei Colosseum. Sandman invece veniva dal blues, la sua incarnazione precedente (i trascuratissimi Treat Her Right) suonavano esattamente come i Morphine, solo con un armonicista al posto del sax, la presenza poi ritenuta superflua di una chitarra, brani con strutture più bluesy e senza quello strano tocco dark-new wave fuoriuscito con la sua seconda creatura.

Questa è la storia raccontata da At Your Service, fate voi se considerarlo un perfetto e completo strumento per conoscerli se li ignoravate, o un semplice feticcio per fans da comprare solo se avete già i cinque album in studio, la raccolta di b-sides e il live che lo precedono. E' un lungo viaggio, emozionante ed oscuro, tra brani live già noti (Good, Claire…), qualche deliziosa outtakes sfuggita ai precedenti rastrellamenti (Come Over, Come Along, Women R Dogs) e alternate version che rendono evidente solo come la band provava i brani in diverse tonalità prima di scegliere quella giusta per l'album (si sentano le classiche Buena o Empty Box). In ogni caso siete avvertiti, tutto qui suona a meraviglia, ed è un degno modo di ricordare la band del decennio scorso che forse sta invecchiando meno rispetto ai tanti compagni di viaggio della X-generation. Probabilmente perché erano fuori dal tempo già ai loro tempi.
(Nicola Gervasini)


sabato 13 marzo 2010

RAY WYLIE HUBBARD - A. Enlightenment B. Endarkenment (Hint: There is No C)



Rootshighway
10/02/2010

Titolo e copertina sono di quelle che preannunciano qualcosa di speciale, ed effettivamente il ritorno di Ray Wylie Hubbard non delude le attese. Quattro anni di silenzio gli hanno fatto bene evidentemente, dopo che nel 2006 ci aveva lasciato un po' con l'amaro in bocca, quandoSnake Farm aveva chiuso in tono minore una serie di dischi belli e importanti. A. Enlightenment B. Endarkenment (Hint: There is No C) è un titolo memorabile, ed evidenzia la sua anima fatta di luci e ombre, quanto la necessità, giunto a 64 anni suonati, di trovare una terza via, quella che l'immagine da cavaliere dell'apocalisse con tanto di testa mozzata, come la laconica constatazione messa in parentesi, sembrano tragicamente escludere. Ed è proprio la sensazione di un percorso che comincia a intravedere la propria conclusione a permeare queste dodici canzoni, dove non a caso il ricorso continuo a strutture che hanno più del blues e del gospel che del country (con Whoop And Hollar si viaggia proprio in terreno spiritual) evidenzia quel bisogno di religiosità e speranza in un aldilà che caratterizza l'umana paura della morte.

Per esprimere tutto questo Hubbard ha scelto una strada stilistica non nuova e, se vogliamo, poco personale: il dark-sound di
Down Home Country Blues potrebbe tranquillamente essere riconducibile al Dylan dell'ultimo decennio, quello intriso di musica del Mississippi quanto della consapevolezza del proprio invecchiamento, così come dalle acque del Delta sono già stati pescati miriadi di lenti blues da funerale come Wasp's Nest o Every Day Is The Day Of The Dead. E se proprio vogliamo essere ancor più severi, si può evidenziare come la canzone più compiuta e memorabile per scrittura sia Drunken Poet's Dream, brano scritto a due mani con Hayes Carll e già noto nella versione di quest'ultimo. Per il resto Hubbard sfrutta la propria naturale raucedine per vestirsi di nero e giocare fare il bluesman da strada, con anche qualche gigionamento di troppo come Pots and Pans (avvertenza: non ascoltate questa canzone a volume troppo alto, gli ansimi femminili del finale convincerebbero i vostri vicini che stiate visionando un film non proprio adatto ai bambini), ma con innegabile perizia quando fa le cose sul serio (la toccante Tornado Ripe o la strascicata Black Wings).

Quello che impressiona positivamente è l'ottimo suono, pieno e ben studiato nei minimi particolari, confezionato da lui stesso con l'aiuto di
George Reiff e non con il suo storico produttore Gurf Morlix, qui significativamente relegato a semplice session man. Merito anche dell'aiuto di molti validi musicisti comeKevin Russell dei Gourds e David Abeyta dei Reckless Kelly, o strumentisti intrisi di blues come Bukka Allen, Billy Cassis, Seth James e il gruppo vocale delle Trishas. Su tutti poi svetta l'elettrica di Ray Bonneville, quella che con numeri degni del miglior David Grissom rende Loose un brano davvero speciale. Pare che il progetto preveda anche un film diretto dallo stesso Hubbard che vedrà nel cast nientemeno che Kris Kristofferson e Dwight Yoakam, ma qui stiamo già parlando del contorno, quello che più ci interessa al momento è che stavolta la pietanza è degna del prestigio del cuoco.
(Nicola Gervasini)

mercoledì 10 marzo 2010

ROBERT BRADLEY BLACKWATER SURPRISE - Out Of The Wilderness




Rootshighway
Febbraio 2010


Ha avuto anche sfortuna Robert Bradley negli anni 90: quando grazie a Lenny Kravitz e similari il connubio tra black music e rock aveva raggiunto le charts, lui esordì nel 1996 con un disco che ancora oggi consiglio con forza (e che sorprendentemente i Gaslight Anthem hanno recentemente omaggiato, registrando una cover del singolo Once Upon A Time). Arrivò però evidentemente troppo tardi perché la sua carriera potesse prendere la giusta strada, e così fino a oggi la storia dei Robert Bradley Blackwater Surprise è continuata tra pochi dischi incerti e a basso budget. Out Of The Wilderness è il quinto della serie, ed è finalmente un ritorno ad uno standard qualitativo alto. Il suono pare lo stesso di sempre, anche se il produttore Bruce Robb (un veterano degli studi di registrazione fin dai gloriosi anni 70) ha voluto non sporcarlo troppo e il soul finisce per farla da padrone. Ritroviamo dunque le belle soul-ballads di un tempo, e se nell'esordio era California, qui l'highlight in materia si chiama Alabama, senza che il salto di confine abbia poi cambiato troppo la sostanza. Semmai stavolta si scopre una vena più romantica (Love You In The Daytime,Beautiful Girl, Good Times In My Life, Cryin' My Eyes Out), che non arriva magari alle levigate smancerie di certo Philly-sound, ma poco ci manca. I graffi arrivano con la micidiale title-track, la polemica Americaland e la soffertaDon't Pour Water, ruvide anche senza quelle chitarre ruggenti quanto la sua sgraziatissima voce che impolveravano i suoi esordi. Eppure questa nuova grazia acquisita con la maturità gli permette di uscire vincente anche da alcuni passaggi un po' banalotti (Gotta Find A Woman) che evidenziano i suoi noti limiti in sede di scrittura. Finale danzereccio con Everybody Wanna Party, e tutti a casa con quel gusto un po' retrò in bocca che non dispiace mai.
(Nicola Gervasini)

domenica 7 marzo 2010

LL COOPER - Tucson


05/02/2010
Rootshighway

Certe volte un rimorso di coscienza mi porta a ben ricordare la differenza tra creazione e imitazione, ma poi al momento giusto arriva un cd come questo Tucson di LL Cooper a scombinare qualsiasi coordinata critica. Mi era già capitato un anno fa esatto con un disco senza troppo futuro come Someone Take The Wheel di tal Wade Lashley (talmente incredulo dell'omaggio da aver richiesto la nostra recensione tradotta e averla pubblicata su tutti i suoi siti di riferimento), vale a dire di apprezzare e consigliare con tutte le riserve del caso uno di quei dischi che l'amante di certa roots music (ma solo lui probabilmente) ha bisogno di tanto in tanto come dell'aria che respira. Oggi tocca a questo LL Cooper, anzi, teoricamente "ai" LL Cooper, visto che il nome figura essere quello della band capitanata dal signor Larry Cooper, uno che con il sopracitato Lashley ha in comune una voce baritonale pressoché identica e un songwriting certamente imparato sul medesimo banco di scuola.

Di lui non si sa molto, che viene da Houston e bazzica Austin, ma questo non era necessario leggerlo nelle note, visto che solo in mezzo al deserto del Texas sanno creare questo sound elettro-acustico così perfetto, la stessa via di mezzo tra rock e folk che in mano ad un Alejandro Escovedo o a tanti altri eroi della città ha creato miracoli. Qui di moltiplicazioni dei pani e dei pesci non se ne vedono, ma di canzoni dannatamente buone sì, e pure molte (il disco ha tredici brani e dura 55 minuti, e per una volta pare difficile localizzare dove si sarebbe potuto tagliare per un minimo di senso della sintesi). Avrete capito che qui di colpi di testa non se ne prendono, Cooper pare uno dei tanti che se gli sposti una nota sul pentagramma cade in crisi esistenziale, ma è anche uno che ha prodotto uno di quei tran-tran fatto di ballate ariose (la stessa
Tucson che apre dopo un interlocutorio opening, ma ancor più l'irresistibileBehind), di bar-rock da balera (Swaggerin' Staggerin) e spruzzate soul (Punching Out) che ci piaceranno sempre.

Non manca nulla dunque, c'è la slow-song con assolo evocativo e pure archi a perdere nel lungo finale (
Snapshot), una bella saltellante country-song con piano honky-tonk incorporato (Topsy Turvy) e l'immancabile blue-collar rock da manuale (Stir It Up), oltre che ad una buona band che ha nella chitarra di Wil Woodward e nella bella voce di Kim Hundl i punti di forza. Per le compilation da macchina vanno sicuramente annotate la strappalacrime Open Guitar Case, l'highway song di turno Pullman Company Mane il diario di viaggio del finale acustico di Hippie Riviera, ma davvero i momenti di noia sono pochi (forse la promessa di matrimonio di Wearing Your Ring), e il tasto play si rischiaccia volentieri. Probabilmente di più non speravano neanche gli LL Cooper.
(Nicola Gervasini)

martedì 2 marzo 2010

PATTY GRIFFIN - Downtown Church


2/2/2010
Rootshighway


Galeotto fu un incontro con Mavis Staples per registrare un brano del disco tribute-record Oh Happy Day, quale occasione migliore per una cantautrice di matrice country come Patty Griffin di farsi avvolgere da nuovi umori e sonorità. E lei, che resta probabilmente una delle più importanti voci femminili del florido mondo delle songwriters yankee di questi anni 2000, un nuovo suono lo cercava da tempo, anche se i tentativi di uscire dal seminato ascoltati nel precedente Children Running Through avevano raggiunto risultati contrastanti (è comunque un disco da rivalutare in positivo). E’ nato così Downtown Church, sulla carta uno di quei progetti senza troppe pretese artistiche, nato per caso tra amici in una chiesa di Nashville, con l’immarcescibile Buddy Miller in cabina di regia, le voci delle amiche di sempre Emmylou Harris, Shawn Colvin e Julie Miller, e compagni d’avventura vecchi e nuovi come Jim Lauderdale, Raul Malo e Mike Farris (uno che di gospel se ne intende parecchio). Il risultato, ad un primo superficiale ascolto, ricorda molto le tante sortite di Lyle Lovett in campo spiritual, ma se la Griffin ha da sempre una marcia in più rispetto a molte coetanee, è proprio perché ha sempre dimostrato di non dare mai nulla di scontato nella sua musica, per cui, pur maneggiando un genere che ha delle regole ferree da seguire, il risultato è tutt’altro che lo scolastico e calligrafico compitino a cui siamo spesso abituati per operazioni a tema di questo tipo. La grande mossa è stata quella di non insistere troppo sul clichè del gospel costruito sui controcanti dei Fairfield Four (le stesse black-voices utilizzate da John Fogerty ai tempi di Blue Moon Swamp), ma di mischiare brani tradizionali con firme prestigiose e due bellissimi e toccanti brani autografi (Little Fire e Coming Home To Me) che di gospel hanno veramente poco, ma in compenso tanto della Patty Griffin più ispirata dei tempi di 1000 Kisses. Si parte subito con l’Hank Williams di House Of Gold in versione a cappella, con i primi versi che recitano “La gente ruba, parla e mente per la ricchezza e quello che questa porterà, ma non sanno che nel giorno del giudizio il loro oro e argento saranno liquefatti”, giusto per mettere le cose in chiaro fin dall’inizio sul tono decisamente religioso dell’operazione, utile anche per chi non può sapere che la Credential Records per cui esce il disco è l’etichetta di christian-music della EMI, e magari non è ancora arrivato alla fine dell’album, chiuso da una All Creatures of Our God and King, tradizionale attribuito nientemeno che a Francesco D’Assisi. Si prosegue tra momenti da messa di Harlem come Move Up, If I Had My Way o Death’s Got A Warrant, dove la grande forza della sua voce è stata quella di riuscire ad eliminare quella tipica tonalità un po’ piangente delle country-singer, tanto che quando i suoi polmoni si gonfiano per urlare I Small A Rat come una vera rockabilly-girl, lo spettacolo è garantito (si tratta di un brano della coppia Leiber-Stoller che fu un successo di Big Mama Thornton). Ben dosati i momenti riflessivi (Waiting For My child o The Strange Man), quelli più country-oriented (We Shall All Be Reunited) e quelli nati per muovere il sedere sulla panca della chiesa (Wade In The Water), e in mezzo anche qualche gustoso diversivo come Virgen de Guadalupe, brano in lingua ispanica alla Los Lobos che celebra la famosa madonna apparsa, secondo tradizione, nel Messico del lontano 1531. Un grazie quindi a Patty per averci riconciliato con l’idea del cover-album a tema, e magari anche con quella spiritualità che, credenti o no, grazie alla musica alberga in tutti noi. (Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...