venerdì 28 ottobre 2016

IGGY POP

Iggy Pop
Post Pop Depression
(Loma Vista, 2016)
File Under:  Post Bowie Depression

La dannazione eterna dell’Iguana Iggy Pop è sempre stata quella di essere un animale da palcoscenico, forse davvero uno dei più grandi intrattenitori da palco della storia, ma di non essersi mai trovato veramente a suo agio all’interno di uno studio di registrazione. La buona riuscita dei suoi album, fin dagli esordi con gli Stooges, è sempre dipesa dai collaboratori e produttori scelti, ed è per questo che la sua discografia è così varia nell’essere anche un continuo susseguirsi di alti e bassi, perché da solo il nome di Iggy Pop suona a garanzia di concerti perfetti, ma assolutamente non di dischi perfetti. Perfino le sue opere migliori dipendono comunque dalla firma in sede di produzione, sia il Bowie di The Idiot o il Malcolm Burn che operò pesantemente su American Caesar (che resta forse ad oggi la sua opera più completa), o il Don Was che gli fece fare un convincente viaggio nel mainstream con Brick By Brick. Non sorprende quindi che nonostante venisse da una serie di avventure per nulla memorabili (Skull Ring o i tentativi di riciclarsi chansonnier alla francese di Preliminaires) o perlomeno discutibili (le due reunion con gli Stooges, anche se il secondo capitolo già pareva più convincente), Pop sforni a sorpresa uno dei suoi lavori migliori di sempre ricorrendo ad una stretta collaborazione. Post Pop Depression è il titolo perfetto per un disco confezionato più da che con Josh Homme, mente musicale purtroppo oggi nota a tutti per i fatti tragici di Parigi 2015, ma pur sempre una delle migliori eredità lasciate dal rock degli anni novanta, quando già con i suoi Kyuss dimostrava un acume artistico non comune. E non sorprende sentire che in questi nove brani la presenza di Homme è sì evidente (come anche quella degli altri membri della band Dean Fertita e Matt Helders degli Arctic Monkeys), ma alla fine tutti gli episodi suonano come dei brani di Iggy Pop al 100%. Niente pseudo-punk o scimmiottamenti del passato, i 9 brani mirano al sodo curando testi e arrangiamenti (con uno stile che ricorda parecchio il John Cale meno intellettualoide di metà anni settanta, vedi Gardenia), e finendo ad apparire come il testamento del Pop di fine carriera, il suo Blackstar sfornato fortunatamente senza bisogno di doverci anche lasciare. Poco importa che qua e là ci siano rimandi a cose già fatte (American Valhalla è la China Girl del 2000?), ritmi già sentiti (Chocolate Drops pare rubare il giro nientemeno che ad Another Brick in the Wall dei Pink Floyd) e qualche furbata delle sue (Vulture), quando però Sunday o la conclusiva Paraguay già suonano come dei nuovi classici. E dopo la scomparsa di Bowie e Reed, potrebbe davvero essere uno dei pochi in grado di sfornarne ancora.


Nicola Gervasini

sabato 22 ottobre 2016

NADA SURF

Nada Surf
You Know Who You Are
(Barsuk Records, 2016)
File Under:  Back to schooldays

Negli anni ottanta usavamo il termine “college rock” per band come i Nada Surf, oggi non ho ben idea se nei college americani continui la tradizione di carbonara diffusione della musica indipendente, o se l’indie anni 2000 è diventato talmente la norma da non poter più trovare un denominatore comunque nella musica ascoltata dagli studenti americani. In ogni caso i newyorkesi Nada Surf, band nata nella seconda metà degli anni 90 quando ormai già il college rock veniva chiamato alternative rock, se non già indie-rock, stanno cominciando a diventare dei veri veterani del genere. Parliamo di qualcosa che sta dalle parti del suono dei primi R.E.M., con chitarre che sanno di Byrds e California anni 60 e impasti vocali che invece guardano ai Beach Boys. Matthew Caws (voce e chitarra), Ira Elliot (batteria), Doug Gillard (chitarra) e Daniel Lorca (basso) fanno parte di quella generazione di musicisti refrattari ai cambi d’epoca e a nuove logiche di mercato (che forse semplicemente si traducono in una totale assenza di un mercato gestito per questo  tipo di produzioni). Per questo l’unica sorpresa che si ha nell’ascoltare You Know Who You Are, loro ottavo album, è quella di quanto questi quattro ragazzi ancora sappiano confezionare perle di old-pop californiano unendo ingredienti risaputissimi, eppure trovando un tocco personale che sta pian piano diventando un piccolo marchio di fabbrica. Faranno meno scena di altre band per orecchie meno allenate, ma chi ha nel cuore certe costruzioni di sopraffino power-pop troverà quasi geniali brani come Cold To See Clear, un muro di chitarre e voci decisamente anni 90 che suona ancora fresco, come anche le aperture alt-country alla Jayhwaks più poppettari di Believe You’re Mine,o  il bel rock urbano di Friend Hospital che pare il risultato di una session tra Johnny Marr e Jesse Malin (che potrebbe anche essere l’autore anche della title-track volendo). Il disco in genere ha una quadratura decisamente listener-friendly, quasi un tocco radiofonico nel suo indugiare più del loro solito su melodie (rinforzate anche dalle voci di Ken Stringfellow e Dan Wilson dei Semisonic), persino quando il ritmo accelera come in New Bird o quando si lambisce il jingle-jangle rock in una Out Of Dark impreziosita dai fiati o in una quasi easy-listening Rushing. Animal invece sembra un brano di un qualsiasi cantautore di Austin, con acustiche ed elettriche che inseguono la musica roots. Un cambio di rotta che testimonia ed elegge i  Nada Surf a ultimi paladini di underground-rock che fa tesoro di lezioni inglesi e americane in egual misura, una sorta di incrocio finale di tutta la storia del rock indipendente, quello che cerca la canzone e non la sperimentazione fine a sé stessa, e spesso la trova ancora. E in un era in cui escono miriadi di dischi dove le canzoni con la C maiuscola sono al massimo 2 o 3 se va bene, comincia ad essere un merito non da poco. Per nostalgici, ma anche per chi ancora crede in un futuro di questo rock essenziale.


Nicola Gervasini

mercoledì 12 ottobre 2016

DAVID BOWIE IS

Sarebbe stato facile allestire una mostra come David Bowie Is all’indomani della sua improvvisa morte, avvenuta il 10 gennaio scorso. L’agiografia del personaggio, spinta molto oltre il mero discorso artistico, è evidente, quasi da esaltazione postuma, ma l’esposizione (in scena al MAMbo di Bologna ancora fino al 13 novembre 2016) è stata in verità ideata nel 2013 da Victoria Broackes e Geoffrey Marsh, e, ad oggi, è già transitata in altre otto città mondiali. Il concept è semplice ed efficace: non potendo rappresentare al meglio la sua musica, si è scelto di illustrare “lo stile Bowie”, rivisitato attraverso una pittoresca storia dei suo abiti di scena e dei tanti personaggi interpretati dal signor David Jones (questo il suo vero nome ) sul palco, in televisione e al cinema. Per quest’ultimo è presente una vera e propria riproduzione di sala cinematografica con in onda spezzoni dai suoi film più famosi, dall’Uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg a The Prestige di Cristopher Nolan, teatro compreso. Più che i musicisti,  a parlare di lui in questa mostra sono soprattutto gli stilisti che lo hanno vestito, e che con lui hanno contribuito a creare un vasto catalogo di icone rock, imitate da mille artisti in ogni epoca. Il pregio della rassegna è proprio quello di introdurre qualunque visitatore (anche chi non ne conosce approfonditamente storia e musica) nel mondo di un entusiasta e instancabile creatore d’arte e idee. Bowie ha fatto di tutto e tutto sempre bene, sbagliando a volte, ma riuscendo poi sempre ad arrivare dove voleva. Il ritratto che ne esce  è quello di un uomo assolutamente non manipolabile, una spugna di mille influenze che nessuno è stato in grado di strizzare senza la sua consapevole direzione. Ha venduto anche tanto, ma sempre come ha voluto lui, con il vestito che aveva in mente, e con il suono preciso che cercava in quel momento. Particolare enfasi la mostra pone sugli esordi, sull’era Ziggy Stardust e sull’esilio berlinese, in un tripudio multimediatico di video, musica, abiti e reperti storici come testi scritti a mano, i synth utilizzati da Brian Eno, e tante altre curiosità che tengono impegnati per due ore buone senza mai avere la sensazione di vuoto. Ad esaltare l’unico grande artista che ha dimostrato che la forma conta quanto il contenuto.


Nicola Gervasini

mercoledì 5 ottobre 2016

ANDRE WILLIAMS

Abbiamo già parlato in passato di Andre Williams su queste pagine, ma è bene ricapitolare. Ottant'anni da compiere il prossimo 1 novembre, Williams conobbe una brevissima stagione di successi tra il 1955 e il 1957, quando finì in classifica con brani come Bacon Fat, Jail Bait o Greasy Chicken, piccoli classici su cui hanno studiato generazioni di artisti a New Orleans, da Dr. John fino a Willy DeVille. Poi però la sua storia parla di un unico ritorno discografico nel 1966 (il brano era Cadillac Jack), e quindi l'oblio. Negli anni Ottanta, finiti anche i soldi delle royalties per aver messo la penna nel successo Shake Your Tailfeather (cantata, tra i tanti, anche da Ray Charles nel film The Blues Brothers), Williams fece vita da barbone, alcoolizzato, drogato, e come tanti altri suoi coetanei, dimenticato da un era in cui la sua musica non poteva essere più di moda. 

Benedetti furono gli anni Novanta e un certo rilancio del gusto blues e del soul old-style, se è vero che dal 1990 ad oggi Williams ha ripreso a pubblicare con regolarità. Della freschezza blues-pop di gioventù resta ben poco, con una voce affaticata e usata quasi sempre più per parlare che per cantare, Williams ha abbracciato uno stile di blues infernale che ben si adatta alle sue esigue possibilità. Da recuperare anche le sue collaborazioni con i Sadies (Red Dirt del 1999 e Night & Day del 2012). Di Hoods and Shades nel 2012 avevamo parlato storcendo un po' il naso, ma sebbene oggi nel mondo new soul si possa trovare molto di meglio in termini di black music, questo I Wanna Go Back to Detroit City riesce a tratti ad attirare l'attenzione. Lo fa recuperando spirito, suoni e temi di una città ormai ridotta in macerie e povertà a seguito di un decadimento industriale che ha radici profonde e lontane, ma che proprio grazie alla forte rabbia da sfogare dei suoi cittadini, ha rappresentato da sempre un polo musicale importante e volto sempre ad una musica sporca ed energica, sia nel blues e nel soul (è nata qui la Motown Records), che nel rock classico (pensate a Bob Seger e Grand Funk Railroad), fino ad arrivare agli Stooges di Iggy Pop e agli MC5. 

La title-track iniziale è una sorta di programmatico annuncio di amore per il clima malsano della città, ma nel disco è davvero notevole l'ideale seguito di Detroit (I'm So Glad I Stayed), che in poco più di quattro minuti riassume anche ironicamente (Sono un Democratico con attitudini repubblicane declama l'incipit del brano) tutto il perché dell'amore/odio per una realtà ormai degna di un film apocalittico. Ben prodotto da Matthew Smith, il disco si avvale della esperta chitarra di Dennis Coffey, vecchio house-guitarist della Motown, che con il suo tocco infonde il giusto ritmo funky a brani come Times o al giro rock di What Now?. A volte si gira a vuoto (Mississippi Sue, o l'inutile strumentale finale) o dilata troppo brani come Hall Of Fame, più di cinque minuti di ironico e tagliente spoken sulle nomination del rock storico, mentre altrove si va sul sicuro con vecchi giri blues (Meet Me At The Graveyard e I Don't Like You No More). Comunque consigliato.

BILL RYDER-JONES

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