lunedì 26 ottobre 2015

LANGHORNE SLIM

LANGHORNE SLIM
THE SPIRIT MOVES
Dualtone
***1/2

Strano destino quello di Sean Scolnick, alias Langhorne Slim: salutato agli esordi come una vera nuova promessa della canzone folk, grazie ad un album (When the Sun's Gone Down del 2005) che resta un piccolo classico della musica indie degli anni zero, dieci anni dopo sembra essere un po’ dimenticato dai più. Colpa di due album (Langhorne Slim del 2008 e Be Set Free del 2009) che hanno fallito nel consolidarne la fama, e anzi, per molti erano suonati un po’ come una delusione (ma sarebbe il caso di riascoltarli bene), e forse colpa anche del suo essere personaggio schivo e non certo attento a seguire l’onda del nuovo folk. Lui però non si è perso d’animo, e già con The Way We Move del 2012 aveva dimostrato che la sua coerenza stilistica non era necessariamente da scambiarsi per mancanza d’idee. L’ironia della sorte è quindi quella di star maturando come autore e artista proprio quando le luci della ribalta non lo illuminano più, e sono rimasti in pochi ad aspettare il suo nuovo disco come quello che salverà una stagione discografica. Non che The Spirit Moves sia l’album che risveglierà il 2015 del mondo indie-folk da un certo torpore, ma, tra i sopravvissuti al decennio scorso, pochi possono ancora oggi vantare di scrivere ballate come l’acustica Changes o maneggiare a dovere un duello con un’intera sezione d’archi come quello di Whsiperin’, brano degno del giovane Bill Fay. Sebbene non ci siano fuochi d’artificio, non c’è nulla in questi dodici brani (per 37 minuti) che sia fuori tema. Eppure di certo Langhorne Slim non ama andare sul sicuro, azzarda anche pop-song tutto fiati e coretti come Strangers e ne esce comunque a testa alta, soul-ballad improbabili solo in apparenza come Life’s A Bell, sgangherati blues (Bring You My Love) che esaltano il wurlitzer di David Moore (tastierista, ma curiosamente anche autore del disegno di copertina) e una sezione di voci e fiati in puro stile New Orleans. Ma è proprio quando fa le cose più semplici, come nell’ottima Airplane o nel finale di Meet Again, brani sospesi un po’ tra Dylan e Will Oldham, che Slim dimostra di saperci davvero fare come folksinger. The Spirit Moves in un certo senso conferma i suoi pregi (ottenere molto con poco) e difetti (gli manca comunque sempre la zampata vincente), grazie ad una produzione attenta (a cura dell’amico e anche co-autore Kenny Siegal) e a brani brevi e diretti come Southern Bells. Bisognerebbe forse ricordarsi di lui più spesso quando si saluta con facilità l’ennesimo nuovo folksinger indipendente, potremmo scoprire che in fondo già avevamo trovato quello che ancora cerchiamo.

Nicola Gervasini

lunedì 12 ottobre 2015

TITUS WOLFE

TITUS WOLFE
HO-HO-KUS N.J.
Score and More Music
***1/2

Con un nome d’arte che sarebbe piaciuto molto a Tom Waits per uno dei tanti nighthawks che popolano le sue canzoni, il tedesco Titus Wolfe è il classico fan che si fa protagonista dopo anni di gavetta nei club di Francoforte. Titolare di una poco conosciuta discografia locale, Wolfe prova ad uscire dai suoi confini con un album nato come omaggio ad uno dei suoi padri spirituali, Willy DeVille. Storia vuole che Wolfe abbia mandato una sua versione di Heaven Stood Still che potrebbe essere quello che ne verrebbe fuori dando la canzone in mano ad un Greg Brown (molto simili le voci in alcuni momenti) a David Keyes, bassista di Deville. Convinto dalla bellezza della versione, Keyes ha organizzato per Wolfe una session nel New Jersey (da qui lo strano titolo del disco) con alcuni amici e professionisti di genere (spicca su tutti Kenny Margolis alle tastiere), per un album che racchiude le migliori composizioni di Wolfe e due cover in omaggio a Deville (oltre a Heaven Stood Still, anche Angels Don’t Lie, struggente ballata ripescata da Loup Garoup). L’album ha una partenza particolarmente triste e ispirata con le notevoli Your Name in The Clouds e Too Far Gone, perfette per esaltare il suo vocione roco e basso, ed è solo con Guru For A Dime (qui Margolis si esalta con il Wurlitzer) che si trova un po’ di ritmo. Da qui si procede su buoni livelli, per quanto sia evidente che Wolfe non sia interessato a dimostrare particolare originalità e innovazione nelle soluzioni. Where Roses Grow, A Trip Nowhere (che sembra una ballata dello Springsteen epoca Devils And Dust), Calling Your Name o la soffice The Trouble You Must Have Seen si susseguono tra sussurri e una particolare attenzione ai suoni caldi e riverberati, evidenziando un autore comunque capace e un interprete di livello. Esame di maturità dunque superato per Wolfe, uno dei tanti che vede l’omaggio come punto di partenza per la propria arte, anche quando potrebbe farne a meno, come quando affronta l’abusatissima Willin’ dei Little Feat facendosi aiutare alla voce da Joe Lynn Turner, ex vocalist dei Rainbow e dei Deep Purple (Mark 5), uscendone degnamente, ma non aggiungendo poi niente che già i suoi brani non fossero in grado di dire. Consigliato per Deville-lovers e amanti della buona canzone roots.


Nicola Gervasini

giovedì 1 ottobre 2015

DAN WALSH

Dan Walsh
Incidents and Accidents
(Dan Walsh, 2015)
File Under: Banjo on my Knee

Abbiamo incontrato Dan Walsh solo nelle vesti di chitarrista (per Romi Mayes) e produttore (per Brock Zeman), ma affrontiamo per la prima volta un suo lavoro solista. Banjoista di altissimo livello e adepto di una roots-music vecchio stampo, Walsh è inglese, e con questo Incidents And Accidents sta ottenendo critiche positive soprattutto dalla stampa britannica, che già aveva spinto non poco il precedente Same But Different. Suonato con l’ausilio del violino di Patsy Reid e il mandolino di Nic Zuappardi (bandita la sezione ritmica invece…) , l’album è un piccolo manuale di musica rurale, eseguita con rigore anche negli strumentali (The Tune Set) e nei brani più autoriali (The Missing Light). Si potrebbe fare il paragone con gli album di William Elliott Whitmore, ma a Walsh manca una voce così caratterizzante, e soprattutto sembra essere meno interessato ad avventurarsi fuori da schemi predefiniti. Il disco è comunque piacevole e interessante, anche se pare difficile condividere l’entusiasmo d’oltremanica se non constatando come sempre più le posizioni estreme e meno volte ad un futuro (incerto e forse inesistente per quanto riguarda questo tipo di musica, ma vale davvero la pena smettere di cercarlo?) ottengano i consensi di critica più sperticati. In ogni caso dategli un ascolto e non avrete comunque perso tempo.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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