martedì 30 aprile 2013
J SINTONI
J. Sintoni
A Better Man
[J. Sintoni 2012]
songs for Stevie & Jimi
Recupero doveroso quello di A Better Man, secondo album di J. Sintoni, uscito già nel 2012. Chitarrista blues sulla piazza da più di quindici anni e solitamente più apprezzato all'estero che in patria, il cesenate Emanuele Sintoni lo abbiamo scoperto e apprezzato grazie al recente (e davvero soddisfacente) tour in duo con Grayson Capps, artista da sempre a noi caro, con cui da anni condivide amicizia e collaborazioni. Già titolare di un disco d'esordio del 2007 (The Red Suit) che ha avuto buoni riscontri in Europa, Sintoni scrive e produce interamente questi dieci brani di decisa matrice electric-blues (solo Lady is a Carpenter è stata scritta a due mani con Joe Cottonwood), basati su un sound da power-trio decisamente hendrixiano (Don't Wanna Be Nice potrebbe essere rivenduta come nuova dimenticata outtake di Jimi) o ancor più "à la Stevie Ray Vaughan" (e non ci vuole molto a scriverlo quando l'ultima traccia del disco s'intitola Song For Stevie & Jimi). I suoi Experience (o Double Trouble) si chiamano Andrea Taravelli (basso) e Carmine Bloisi (batteria), mentre in un paio di occasioni si aggiunge anche il Fender Rhodes di Andrea Spadaro. Blues incentrato sulla chitarra (due strumentali), ma anche con la dovuta attenzione alla scrittura (belle anche The Wish e Get Down) e poche concessioni ai gigionamenti tipici del genere, tanto che la sua presenza al fianco di Capps è stata sempre discreta e misurata. L'esperienza con Grayson si sente eccome in brani come Consequence (qualcosa dalle parti di Rainy Night in Georgia del maestro Tony Joe White), per il resto si va sul sicuro con blues lenti (Love Should Never Lose) o brani da manuale come la title-track. Consigliato a tutti i blues-lovers incalliti.
(Nicola Gervasini)
www.myspace.com/jsintoni
martedì 23 aprile 2013
FALLING MARTINS
La prima cosa da notare è proprio il fatto che a dispetto della quantità, il disco pare molto più monolitico nelle soluzioni del precedente, adagiandosi spesso e volentieri in un Americana-rock senza troppe deviazioni che li rende i veri eredi di band come Say Zuzu o Hangdogs (per citare nomi persi nei meandri di fine secolo). Scrittura affidata al leader Pierce Crask (spesso coadiuvato dal bassista Rich Wooten), due cover che uniscono il nuovo (una It's Gonna Come Back To You del Freedy Johnston più recente di Rain On The City) e il vecchio (una programmatica Are Your Ready For The Country? di Neil Young), e tanta, tanta mitologia della strada, a partire da titolo, copertina e title-track che strizza anche più di due occhi a Highway 61 Revisited di Dylan. Rispetto al passato c'è forse da lamentare il molto meno spazio concesso al piano di Paul Tervydis che era stato, soprattutto nella registrazione live, uno degli elementi più caratterizzanti del loro sound, mentre stavolta molta più ribalta trovano le chitarre di Pierce Crask fin da Illegal In China e Cadillac Jack's che aprono le danze. Come si può ben immaginare su venti brani non tutto pare necessario (Long Hot Summer sa proprio di demo buttato lì a far numero, Come Around sfrutta l'abusatissimo ritmo alla Bo Diddley che sarebbe ora di vietare d'ufficio), e forse anche l'unitarietà di stile non facilità la localizzazione dei pezzi forti, ma già fin dai primi ascolti si apprezzano molto una Demon che sarebbe piaciuta allo Steve Wynn di una decina d'anni fa e una Just Tell Me che si fa subito canticchiare al primo colpo. Altrove si va sul sicuro tra riff-songs da strada (One Day Girl), svisate psichedeliche (Surfers Unite To The Sounds Of Sonic Youth, e già il titolo dice tutto…), blues acustici (All The Things e Wait And See) country-songs scanzonate (Went To The Zoo) o ballate epiche (Fading Fast). Un repertorio classico che più classico non si può, realizzato secondo i nuovi crismi dell'autoproduzione, senza colpi di testa a livello di soluzioni sonore. E' un genere particolarmente in crisi di nuove vocazioni quello dei Falling Martins, e loro sono rimasti tra i pochi che ci credono ancora. Teniamoceli stretti. |
lunedì 15 aprile 2013
ALEX CAMBISE - L'UMANA RESISTENZA
Alex Cambise L'umana resistenza [Ultra Sound Records 2012] File Under: Still pumping iron… (a cura di Nicola Gervasini) La (dis)umana resistenza di Alex Cambise è quella di essere un chitarrista professionista che si barcamena nel mondo discografico italiano da più di vent'anni. Noto ai più come la spalla di Massimo Priviero, Cambise è oggi uno dei pochi chitarristi della penisola che usa una grammatica di rock americano con perizia e esperienza, sia che debba seguire personaggi della viva scena roots nostrana, sia che si presti al mondo della musica leggera. L'Umana Resistenza è il suo secondo album solista (il debutto discografico arrivò nel 1997 con i B.K.p.D e un titolo memorabile come Se non ci fanno casini in dogana), ed è una sorta di manifesto di rinascita della canzone "blue collar" nel suo senso più puro, con storie di ordinaria disoccupazione (Come macchine) e cancri professionali (Invisibile) che ripropongono una poetica "dal basso" che pareva scomparsa. Come dire che forse era meglio non aspettare Marchionne e l'Ilva per ricordarsi che gli operai esistono e combattono ancora, magari con qualche bandiera in meno del passato, ma con la stessa disperazione e - appunto - resistenza. Tra inni programmatici alla Priviero (Io rimango qua, Io non cadrò, Nati nei 70) , storie da scafato cantautore che parlano di Chernobyl (la toccante Canzone per Vladimir Pravik) e primavera araba (Pace e Libertà), e qualche colto riferimento letterario (Novecento, basato su un testo di Baricco, e una Ottobre 1918 che s'ispira a Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale di Remarque), l'album sciorina un rock genuino e forse "antico" come l'etica della lotta di cui si nutre. Da notare l'apporto di personaggi a noi ben noti come Riccardo Maccabruni dei Mandolin' Brothers, Guglielmo "Gnola" Glielmo, Daniele Tenca, Edward Abbiati dei Lowlands e tanti altri bravi "operai" di un rock che forse non è mai troppo tardi per riscoprire. www.alexcambise.com |
venerdì 12 aprile 2013
JOHNNY MARR
Johnny Marr The Messenger [Warner/ Audioglobe 2013] www.johnny-marr.com File Under: nostalgia rock di Nicola Gervasini (27/02/2013) |
Il capitolo sugli album solisti dei chitarristi è lungo e meriterebbe uno speciale a parte. Per presentare The Messenger di Johnny Marr basterebbe ricordare il luogo comune (supportato da una miriade di esempi reali) che vuole il chitarrista di una band capace di fare grande musica, ma solitamente limitato vocalmente e senza la forza scenica del frontman. Keith Richards insegna, il chitarrista può fare grandi album, ma anche i suoi dischi non sfuggivano alla sensazione di ascoltare un disco dei Rolling Stones registrato in un giorno di malattia di Mick Jagger. Marr non ha mai ceduto alla tentazione quando gli Smiths erano una delle realtà guida del rock britannico, ma neppure dopo, visto che da vent'anni fa il session man di lusso, prima per i The The, poi con il suo supergruppo Electronic, infine per tanti altri.
The Messenger è teoricamente il suo primo album, anche se bisognerebbe ricordare che nel 2003 uscì il criticato e ignorato Boomslang a nome Johnny Marr & The Healers. Curioso invece il fatto che esca poco dopo la prima uscita solista di Peter Buck dei REM, perché in qualche modo i due (insieme perlomeno a The Edge) rappresentano il modo di suonare la sei corde del rock 80, gli anti-guitar hero che fuggivano gli assoli spettacolari per far scoprire al mondo la potente forza comunicativa di un semplice arpeggio e di un melodico intreccio di chitarre acustiche e elettriche. Sebbene partiti da due mondi e sponde completamente differenti, la parentela concettuale tra i REM della prima ora e gli Smiths era proprio nel modo di suonare di questi due artisti. Se Buck però ha deluso, dimostrando di essere uomo forte solo nelle retrovie, Marr ci prova con un disco da primadonna che punta fortemente al pop e alla forza delle sue canzoni, riconducibile semmai alla recente sortita di Lee Ranaldo degli Sonic Youth.
Si riesuma il sound anni 80 approfittando del generale revival di questi tempi, si strizza l'occhio agli stessi Smiths (I Want The Heartbeat), si risentono anche forti echi new wave (Say Demesne) e dei Cure (il giro di European Mepotrebbe anche incuriosire gli avvocati di Robert Smith), si fanno omaggi ai REM (Upstarst), senza dimenticare certe spigolature dell'indie-rock più elettrico recente (Lockdown). Sembra quasi aver voluto dire alle nuove leve: "guardate che poi alla fin fine suonate la stessa roba che suonavamo noi trent'anni fa!". Alla fine il problema del disco è proprio l'averci voluto mettere troppo, esagerando con la ricerca di coretti radiofonici, inserti elettronici un po' a casaccio e soprattutto una vocalità che alla lunga fa davvero rimpiangere il povero Morrissey (che pare se la passi male in quanto a salute). Poi il gioco vale la candela anche solo per un brano come New Town Velocity, splendida canzone per costruzione, melodia (sembra la versione non-elettronica di un brano dei New Order) e effetto finale, ma The Messenger alla fine è davvero il classico disco del chitarrista: c'è tutto, ma sempre meno qualcosa.
The Messenger è teoricamente il suo primo album, anche se bisognerebbe ricordare che nel 2003 uscì il criticato e ignorato Boomslang a nome Johnny Marr & The Healers. Curioso invece il fatto che esca poco dopo la prima uscita solista di Peter Buck dei REM, perché in qualche modo i due (insieme perlomeno a The Edge) rappresentano il modo di suonare la sei corde del rock 80, gli anti-guitar hero che fuggivano gli assoli spettacolari per far scoprire al mondo la potente forza comunicativa di un semplice arpeggio e di un melodico intreccio di chitarre acustiche e elettriche. Sebbene partiti da due mondi e sponde completamente differenti, la parentela concettuale tra i REM della prima ora e gli Smiths era proprio nel modo di suonare di questi due artisti. Se Buck però ha deluso, dimostrando di essere uomo forte solo nelle retrovie, Marr ci prova con un disco da primadonna che punta fortemente al pop e alla forza delle sue canzoni, riconducibile semmai alla recente sortita di Lee Ranaldo degli Sonic Youth.
Si riesuma il sound anni 80 approfittando del generale revival di questi tempi, si strizza l'occhio agli stessi Smiths (I Want The Heartbeat), si risentono anche forti echi new wave (Say Demesne) e dei Cure (il giro di European Mepotrebbe anche incuriosire gli avvocati di Robert Smith), si fanno omaggi ai REM (Upstarst), senza dimenticare certe spigolature dell'indie-rock più elettrico recente (Lockdown). Sembra quasi aver voluto dire alle nuove leve: "guardate che poi alla fin fine suonate la stessa roba che suonavamo noi trent'anni fa!". Alla fine il problema del disco è proprio l'averci voluto mettere troppo, esagerando con la ricerca di coretti radiofonici, inserti elettronici un po' a casaccio e soprattutto una vocalità che alla lunga fa davvero rimpiangere il povero Morrissey (che pare se la passi male in quanto a salute). Poi il gioco vale la candela anche solo per un brano come New Town Velocity, splendida canzone per costruzione, melodia (sembra la versione non-elettronica di un brano dei New Order) e effetto finale, ma The Messenger alla fine è davvero il classico disco del chitarrista: c'è tutto, ma sempre meno qualcosa.
mercoledì 10 aprile 2013
PIRATI NOI SIAM...AGAIN
Un progetto che già bastava a se stesso, se non fosse che il signor Johnny Depp sulla pirateria ci ha costruito quella metà di carriera che non passa nei film di Tim Burton, e così ha sborsato una ingente cifra come produttore del progetto, convincendo così un Willner a corto di miti da celebrare a produrre un secondo capitolo. Son Of Rogue's Gallery è se vogliamo ancor più pregno del padre, anche se il giro di amici che vi partecipano cominciano ad essere sempre gli stessi del mondo Anti e limitrofi. Trattandosi di opera di 36 canzoni non stiamo qui a commentarvi ogni singola performance, anche perché i brani non sono noti e non esistono molti raffronti con altre versioni. Ci sono al solito cose molto interessanti (l'incontro tra Dan Zanes e Broken Social Scene ad esempio ) e altre davvero brutte (il brano di Todd Rundgren rasenta l'indecoroso), e, come spesso capita in questo tipo di operazioni, tanto materiale che non fa male ascoltare, ma che non cambia di troppo le carriere degli artisti coinvolti. La lamentela che si può inoltrare al signor Willner non riguarda tanto la realizzazione, al solito impeccabile e spesso per nulla banale e manierista, quanto il fatto che rispetto ai suoi più celebrati tributi del passato manca un'unitarietà di stile, affidata solo alla comune origine di tutti i brani (che hanno ovviamente forti parentele con le gighe del folk inglese). Insomma ancor più del volume precedente, questo album rischia di dover essere ascoltato con il dito pronto sul tasto "skip", per evitare le non poche cadute di gusto e certe spoken-songs che non invogliano troppo al ripetuto ascolto. Gli episodi che lo rendono comunque appetibile ci sono (il solito Richard Thompson e ovviamente Shane McGowan, che del pirata è quello che più di tutti ha il physique du role), a voi scegliere poi il singolo brano per cui vale la pena portarsi in casa più di due ore di musica. Una cosa è certa, sull'argomento "pirate's song" con questo doppio album dovremmo aver chiuso il discorso, mentre per Willner magari è tempo di trovare nuovi argomenti. :: La tracklist Disc 1 Leaving of Liverpool - Shane MacGowan w/ Johnny Depp & Gore Verbinski Sam's Gone Away - Robyn Hitchcock River Come Down - Beth Orton Row Bullies Row - Sean Lennon w/ Jack Shit Shenandoah - Tom Waits w/ Keith Richards Mr. Stormalong - Ivan Neville Asshole Rules the Navy - Iggy Pop w/ A Hawk and a Hacksaw Off to Sea Once More - Macy Gray The Ol' OG - Ed Harcourt Pirate Jenny - Shilpa Ray w/ Nick Cave & Warren Ellis The Mermaid - Patti Smith & Johnny Depp Anthem for Old Souls - Chuck E. Weiss Orange Claw Hammer - Ed Pastorini Sweet and Low - The Americans Ye Mariners All - Robin Holcomb & Jessica Kenny Tom's Gone to Hilo - Gavin Friday and Shannon McNally Bear Away - Kenny Wollesen & The Himalayas Marching Band Disc 2 Handsome Cabin Boy - Frank Zappa & the Mothers of Invention Rio Grande - Michael Stipe & Courtney Love Ship in Distress - Marc Almond In Lure of the Tropics - Dr. John Rolling Down to Old Maui - Todd Rundgren Jack Tar on Shore - Dan Zanes w/ Broken Social Scene Sally Racket Sissy Bounce - Katey Red & Big Freedia with Akron/Family Wild Goose - Broken Social Scene Flandyke Shore - Marianne Faithfull w/ Kate & Anna McGarrigle The Chantey of Noah and his Ark (Old School Song) - Ricky Jay Whiskey Johnny - Michael Gira Sunshine Life for Me - Petra Haden w/ Lenny Pickett Row the Boat Child - Jenni Muldaur General Taylor - Richard Thompson w/ Jack Shit Marianne - Tim Robbins w/ Matthew Sweet & Susanna Hoffs Barnacle Bill the Sailor - Kembra Phaler w/ Antony/Joseph Arthur/Foetus Missus McGraw - Angelica Huston w/ The Weisberg Strings The Dreadnought - Iggy Pop & Elegant Too Then Said the Captain to Me (Two Poems of the Sea) - Mary Margaret O'Hara |
lunedì 8 aprile 2013
ZACHARY RICHARD - LE FOU
Sul tutto vigila il produttore Nicolas Petrowski, attento a non uscire mai dal seminato con il suono, e benedice Sonny Landreth, che presta la sua inconfondibile chitarra laddove serve più carattere e energia. Il singolo che apre il discoLaisse Le Vent Souffler è accompagnato da un bel video ed è una delle migliori prove, ma in genere la prima parte di Le Fou sembra davvero volare ai livelli dei suoi migliori dischi francofoni come Cap Enragè o Coeur Fidèle. C'è lo zydeco saltellante di Lolly Lo e Sweet Sweet, la grande intensità di ballate come la stessa Le Fou (dedicata al primo uccello marino salvato dalla grande onda di petrolio della BP tre anni fa) e l'epica La Chanson des Migrateurs, e il gran bell'incontro tra cajun e blues di Clif's Zydeco. Richard si ritrova a suo agio con ritmi e canzoni che porta nel mondo (con sempre troppo poco successo purtroppo) da ormai più di quarant'anni, non sembra minimamente interessato ad una ricerca musicale che lo porti su altri lidi, e questo rappresenta insieme il suo limite così come la sua garanzia di qualità. Il disco passa in rassegna tutto il suo know-how, toccando lo spiritual di La Musique des Anges, il folk di La Ballade de Jean Saint Malo o il blues di Crevasse Crevasse. Il finale non entusiasma quanto la prima parte, con un Bee de La Manche un po' di maniera, una C'est Si Bon che cerca la roots-ballad senza avere però la voce giusta e l'accoppiataOrignal Ou Caribou e Les Ailes Des Hirondelles (questo è un brano già inciso più volte in carriera) esagera un po' con i toni tragici, ma sono davvero piccolezze rispetto ad un insieme che piace e convince se siete sintonizzati sulle frequenze della sua musica. |
giovedì 4 aprile 2013
STEPHEN FEARING - Between hurricanes
E' lo stesso Fearing a dichiarare che il precedente Yellowjacket rappresentava la fine di un'era personale (uscì all'indomani del fallimento di un matrimonio durato 14 anni) e artistica. Dichiarazione che potrebbe far intuire un nuovo corso, ma Between Hurricanes, nuovo disco uscito ben sette anni dopo, si "limita" invece a recuperare lo stile dei suoi anni novanta, aggiungendo magari una personalità più consapevole e definita. Ci si libera leggermente della pesante eredità di Bruce Cockburn, e magari ci si dirige più verso uno stile più easy-folk alla Gordon Lightfoot (non è un caso che il disco si concluda con una sua versione del classico Early Morning Rain). Prodotto dall'esperto John Whynot (Bruce Cockburn appunto, ma anche Blue Rodeo e Lucinda Williams) e registrato nel rassicurante scenario di Toronto, Between Hurricanes è una di quelle raccolte di canzoni che richiede tempo e silenzio per essere apprezzate, soprattutto perché il bel trittico iniziale As The Crow Flies, Don't You Wish Your Bread Was Dough e Cold Dawn sembra pensato apposta per allontanare il popolo dell'ascolto veloce e distratto della rete. Ci pensa Wheel of Love a dare un tocco di leggerezza e ritmo, ma alla fine dei 54 minuti ci sarà solo il bar-boogie da Austin-rock di Keep Your Mouth Shut a regalare tre minuti di brio in mezzo a tanta riflessiva poesia. Qualche passaggio a vuoto c'è (The Half-life if Childhood), ma se saprete trovare il momento giusto, ballate come The Fool o la folkish The Golden Days vi rapiranno. Probabilmente Stephen Fearing non è uomo in grado di produrre dischi clamorosi, e gli arrangiamenti sempre spartani e misurati di Between Hurricanes lo tengono ancorato ad un mondo "classic rock" che non lo aiuta certo a sfondare nei mondi indie e new-folk, ma se non avete frenesie di innovazione, dategli pure una chance. |
martedì 2 aprile 2013
ELLIOTT MURPHY
Elliott Murphy
It Takes a Worried Man
(Last Call 2013)
Niente da fare. Sordo alle richieste di cambiare registro (e probabilmente anche musicisti, senza avere nulla contro l'ottimo Olivier Durand e ai Normady All Stars), Elliott Murphy continua a produrre dischi in serie, destinati forse a soddisfare il suo pubblico (non numeroso, ma fedele nel tempo), ma che davvero nulla aggiungono al suo buon nome. Nome che è nato nel mito dell'uomo che non diventò mito quando lo meritava (ai tempi di Aquashow o Night Lights, per citare i suoi capolavori, ma anche di Murph The Surf), ma che francamente sono anni che sembra impegnarsi a dare una risposta alla tipica domanda da fan "perché non fa successo uno cosi?". Nonostante la copertina dai colori shock e la solita pretesa di una svolta che non arriva, It Takes a Worried Man continua laddove finiva il precedente Elliott Murphy (come questo prodotto dal figlio Gaspard), magari inserendo qualche elemento a sorpresa (il canto traditional della title tack o i lievi fiati alla Bacharach di Little Bit More) e facendo anche ben sperare con la sequenza di buon livello di Angeline, Little Big man e Murphyland (dove se non altro dimostra che l'esperienza conta ancora qualcosa quando si fanno i soliti quattro accordi). Ma lo spettacolo finisce qui, il resto sono le solite Murphy-songs basate sui soliti giri melodici, e soprattutto con una penna che, per quanto resti sempre notevole, sta via via perdendo argomenti e mordente. Il disco piacerà ai fans per la sua vena decisamente spensierata e briosa, ma per chi vuole di più esistono delle belle ristampe a cui rivolgersi prima di questo album.
(Nicola Gervasini)
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