lunedì 19 febbraio 2024

BILL RYDER-JONES

 

Bill Ryder-Jones

Lechyd Da

(Domino 2024)

File Under:  Welsh Sound

I Coral sono da più di vent’anni  una di quelle band che tutti in qualche modo apprezzano, anche se poi, chissà perché, non scatenano mai gli entusiasmi che meriterebbero, nonostante il recente Sea of Mirrors, ma soprattutto il corposo Coral Island del 2021, siano tra i dischi più interessanti usciti in questi anni Venti. Qualche vecchio fan però sostiene che qualcosa si era irrimediabilmente rotto nel 2008, quando il chitarrista Bill Ryder-Jones abbandonò il gruppo, che lui stesso aveva fondato, dopo solo 5 album. La storia dice che la sua carriera solista poi non ha avuto gli stessi onori di quella della band, che ha continuato senza di lui come nulla fosse, anche se A Bad Wind Blows in My Heart del 2013 andrebbe recuperato, ma forse una piccola svolta potrebbe arrivare da questo Iechyd Da. Che è un’opera che si distingue più che altro perché in un era di home-record e facili scappatoie nell’elettronica per ovviare all’impossibilità di una antica ma costosa session in uno studio di registrazione, il disco si presenta invece come una sontuosa operazione produttiva, dove non ci si fa mancare nulla tra fiati, archi, cori, e chi più ne ha, ne metta.

Lui stesso ha presentato l’album sottolineando quanto sia fiero degli arrangiamenti, il che potrebbe lasciare le canzoni in secondo piano, ma ovviamente non è così. Partiamo dal presupposto che Ryde-Jones (ma anche i Coral in fondo) non ha paura di essere accusato di “retromania”, anzi, ci sguazza con gran piacere fin dal primo brano I Know That It's Like This (Baby) che non ha timore di mischiare l’incedere e i cori da Velvet Undeground e un sample di Baby di Cateano Veloso (la voce di Gal Costa si riconosce subito comunque). Oppure di iniziare If Tomorrow Starts Without Me con lo stesso giro di archi di Street Hassle di Lou Reed, anche se poi il brano viaggia per altri lidi stilistici nel proseguo. E se in alcuni casi lavora anche per sottrazione (l’indie-folk alla Belle And Sebastian di I Hold Something In My Hand o la piano-song A Bad Wind Blows in My Heart Pt. 3), il resto si fa notare per i muri di suono, in cui persino il coro di fanciulli della Bidston Avenue School Choir che affiora in We Don't Need Them e in altri episodi, concorre al buon risultato senza ingolfare il meccanismo.

La sua vocalità bassa e laconica, e la sua ossessione per gli arrangiamenti, me lo fa avvicinare al Lee Hazlewood più coraggioso, anche se il suo sangue britannico si sente parecchio in alcuni episodi come una This Can’t Go On che sarebbe piaciuta ai Pulp. C’è tanta materia da analizzare e discutere qui, dai crescendo orchestrali che caratterizzano molti brani come How Beautiful I Am o Thankfully For Anthony, a qualche breve intermezzo utile a stemperare una tensione degna del migliore Bill Fay come …And the Sea... o Nos Da (piccola lezione di gallese, Nos Da vuol dire “Buonanotte”, Iechyd Da “Buona Salute”). C’è però da notare che sotto tanti suoni si celano delle belle canzoni, scritte con l’amore per quel cantautorato oscuro e sotterraneo dei primi anni settanta. Non è nuovo nella sostanza, ma lo è nella realizzazione questo album, e potrebbe aprire una nuova fase di ritrovato gusto per la costruzione di una registrazione, la stessa che lui aveva già dimostrato producendo lo splendido Dear Scott di Michael Head ad esempio. O, perlomeno, prendiamolo come un disperato tentativo di far sopravvivere l’arte sempre più sorpassata della produzione.

 

Nicola Gervasini

domenica 18 febbraio 2024

SABRINA NAPOLEONE

 

Sabrina Napoleone – Cristalli Sognanti

2024, Lilith Associazione Culturale

 

Scrivo queste righe nei giorni del Festival di Sanremo, e mi rendo conto di quanto quello che esce dal mio stereo e quello che sta tenendo impegnata mezza Italia in un grande unico mix di discussioni/applausi/ironia/sfottò, siano davvero mondi lontanissimi. E non per una questione per forza qualitativa, ma proprio perché la musica italiana “mainstream”, ormai un mix tra tradizione canora nostrana, pop radiofonico e varie forme di moderno rap edulcorato, non ha nulla del coraggio e della libertà di espressione che la musica nostrana sviluppa a livello più carbonaro.

Ascolto ad esempio Cristalli Sognanti, il nuovo album di Sabrina Napoleone, artista genovese sulla scena fin dal 1995 quando esordiva con gli Aut-Aut (Il dizionario Cantautori e Cantautrici del Nuovo Millennio di Michele Neri identifica in quegli anni uno sfortunato  “sliding doors” per una sponsorizzazione da parte di Roberto Vecchioni che non portò però allo sperato contratto discografico con una major), animatrice tra l’altro del Lilith, Festival della musica d’autrice, kermesse tutta al femminile creata con le colleghe Cristina Nico e Valentina Amandolese.

Se dalla televisione mi arriva un unico suono piatto e stereotipato, qui  vengo raggiunto da una variopinta tavolozza di suoni e strumenti, svariati ritmi, testi liberi, polemici e poetici al tempo stesso. Insomma, in uno stile che ovviamente non può che far venire in mente la Nada degli anni 2000  (vuoi anche per quel vago scostamento tra testo e melodia che caratterizza le canzoni di entrambe) o la scrittura di Cristina Donà, la Napoleone, giunta al terzo album solista dopo i già molto interessanti  La Parte Migliore (2014) e Nodir Min (2017), ci regala un bell’esempio di che senso dare all’espressione “musica italiana di qualità”.

Nato per essere un album registrato in solitaria, basato tutto su un synth e programmazione di drum-machines, il progetto si è colorato con alcune determinanti collaborazioni, come quelle con gli amici di vecchia data Cristina Nico e Giulio Gaietto, o con le voci di Stefano Luna, Hilja Russo e Simone Meneghelli. Ma gli interventi forse più determinante sono quelli del violino di Alice Nappi e della viola di Osvaldo Loi, con un suono spesso più minaccioso che suadente che fa da contraltare alle programmazioni curate della stessa Napoleone. E poi, a parte il lungo finale quasi “ambient” di Mevidda, ci sono le canzoni, con i loro testi graffianti (Come 7/4), ironici (Stupidi Disperati). che parlano di solitudine (Gardur), indugiano in riferimenti classici (Critone), in ricordi di lockdown (Malattia Invettiva) o alluvioni vere o simboliche (Chimera).

Da dire poi della complessa personale rilettura della Genesi di La Visione dell’Occhio di Dio, caratterizzata dalle programmazioni di Salvatore Papotto. La Napoleone ci tiene a dire che la versione su CD è diversa da quella che troverete in streaming, perché “questo è un album, non una semplice playlist”. A qualcuno potrà sembrare una puntualizzazione anacronistica, ma forse è proprio nello spirito battagliero e innamorato della cultura come ancora di salvezza che anima queste canzoni (e che non ritroviamo più in ciò che passa la radio e la tv), che possiamo ancora sperare che la canzone italiana possa trovare una propria via alternativa all’omologazione odierna, e arrivare, non dico sempre, ma almeno ogni tanto, a qualche grande palco.

Nicola Gervasini

VOTO: 7,5

RYAN ADAMS

 

Ryan Adams

Heatwave

Sword & Stone

1985

Star Sign

Prisoner (Live)

2024, Ryan Adams

 

Quest’anno Ryan Adams compirà 50 anni, età ormai da veterano nel mondo rock, ma che, visto l’andazzo odierno per cui gli ottantenni bazzicano ancora i palchi con immutata verve, vuol dire che potremmo anche ipotizzare più di trent’anni di carriera ancora da consumare per questo artista di Jacksonville. Altro discorso è immaginarsi come li spenderà, perché la sua attuale condizione lo vede da una parte relegato ad un esilio dal grande giro per note cause che non hanno a che fare con la sua musica, dall’altra, dopo un autoimposto stop tra il 2017 e il 2020, il nostro si sta ostinando non solo a fare più concerti  che può (con fatica, ma qualche tour senza troppe polemiche a contorno riesce ancora imbastirlo), ma a pubblicare tutto ciò che registra nel suo sofferto esilio. E così, come regalo di inizio 2024, eccolo licenziare online ben 5 album contemporaneamente, con un effetto immaginabile di stanchezza anche nei fans più fedeli per una produzione che già si concedeva qualche episodio di troppo ai tempi d’oro quando aveva una etichetta che lo seguiva, figuriamoci oggi che agisce da battitore libero. Ed ecco quindi la follia di ben 17 pubblicazioni dalla fine del 2020 ad oggi.

Peccato, soprattutto perché si rischia di far passare sotto silenzio il fatto che album come Wednesdays o il nuovissimo Star Sign continuano a dare i frutti sperati, grazie al suo inconfondibile stile a metà tra cantautorato country-roots e brit-pop smithsiano, e soprattutto perché lui resta una penna davvero felice quando butta fuori tutta la sua rabbia e la sua frustrazione. E quindi il consiglio, se non siete dei completisti, e di dirigersi subito su Star Sign, disco non sensazionale, ma degno di essere il nuovo capitolo di una bella carriera. Al massimo, se proprio ne avete ancora voglia, la seconda scelta è Heatwave, album in cui Adams alza il volume delle chitarre elettriche consegnando anche qualche brano più che godibile, senza però impressionare troppo. Se siete invece tra quelli che difesero le piccole tonalità di punk-rock di Rock and Roll del 2003, potete scegliere tra l’estremo 1985 (29 canzoni di puro rauco garage-rock alla Hüsker Dü o Bad Religion della durata media di un minuto), o il più indeciso Sword & Stone, forse il meno interessante del lotto proprio perché si ferma in mezzo al guado tra un rock classico e un punkettino da adolescenti con rabbia e brufoli da combattere. Se poi ancora volete ricordarvi quanto Adams resti un grande performer, passate pure a Prisoner (Live), disco forse non necessario a questo punto, ma sicuramente non indegno del suo buon nome.

Non ci chiediamo più dei perché quando si tratta di Ryan Adams, prendetelo così perché il “ragazzo” (50 anni si, ma il look resta quello dei vent’anni) sembra che non abbia nessuna intenzione di mollare,  e noi che lo seguiamo  siamo costretti a tenere duro perché fra trent’anni, quando la mole della sua discografia farà invidia anche a quella di Frank Zappa,ci vorrà molto di più di una bussola o di una guida per aggirarsi nel suo mondo. Che resta sempre comunque pregno di grandi emozioni quando la canzone e il sound sono quelli giusti.

VOTI

Heatwave   6,5

Sword & Stone  5

1985   5,5

Star Sign   7

Prisoner (Live) 6

 

Nicola Gervasini

 

SWANZ THE LONELY CAT

 

Swanz The Lonely Cat

Swanz The Lonely Cat's Macbeth

(Oten Schwan / EEEE)

File Under: “La vita non è che un’ombra vagante”

 

Probabilmente se Swanz The Lonely Cat non fosse stato già un artista seguito dalle nostre pagine non saremmo mai arrivati  a parlarvi di questo Swanz The Lonely Cat's Macbeth.  Di lui, al secolo Luca Andriolo, vi avevamo già parlato due volte con i bei dischi pubblicati con il suo gruppo Dead Cat in a Bag (Sad Dolls and Furious Flowers del 2018 e We've Been Through del 2022), dischi intrisi di una roots-music gotica che ci riportava sempre a citare David Eugene Edwards come riferimento più evidente, e quindi decisamente in linea con l’indirizzo artistico scelto dalla nostra testata. Ma  stavolta si presenta con il suo nickname da solitario felino per un album dove non troverete canzoni, ma due lunghe suite che fanno da colonna sonora ad un cortometraggio (intitolato “All is but Toys”)  in puro stile gotic-horror, realizzato dal duo di creatori di immagini Plastikwombat (Silvia Vaulà e Paolo Grinza), per cui prendetelo un po’ come i fans di Neil Young hanno accolto la colonna sonora di Dead Man di Jim Jarmusch, come una occasione per Swanz di dare sfogo alle sue visioni musicali, unendo quindi il suo background di musica americana con l’elettronica e suggestioni a metà tra kraut-rock di altri tempi e musica industriale. Un viaggio sonoro negli inferi shakespeariani  che mi azzardo a descrivere un po’ scherzosamente come il disco che avrebbero fatto i Tangerine Dream se fossero nati ad Austin.

Non ci sono quindi canzoni da commentare,  le suite sono divise in varie fasi in cui Swanz a volte gioca anche con la recitazione del classico della letteratura britannica The Tragedy of Macbeth, suonando tutti gli strumenti per gettarsi a capofitto nelle atmosfere che l’orrore della sete di potere del protagonista creano negli immortali versi scritti da William Shakespeare. Quello che mi porta a proporre comunque il disco a dei lettori magari più abituati a cercare qui la forma canzone che la tradizione del songwriting americano (di cui Swanz è intriso, come dimostrava anche nel suo disco d’esordio Covers On My Bed, Stones In My Pillow del 2017 dove si destreggiava tra riletture di Hank Williams e Kris Kristofferson), è una riflessione su quanto negli ultimi anni stiamo assistendo ad un sempre più consueto uso di atmosfere derivanti da altri mondi (come prog, dark/new wave e musica elettronica) anche nel mondo della musica di ispirazione “roots”, e non è un caso che l’anno scorso vi presentammo  We've Been Through in abbinamento ad un album di Nero Kane, altro artista nostrano che crea mondi sonori suggestivi per cercare di andare oltre la tradizione, senza però perderla nella costruzione delle canzoni.

Qui ovviamente siamo in un caso più estremo, ma al di là del fatto che il disco sicuramente attirerà l’attenzione di ascoltatori che di certo non hanno familiarità con la musica solitamente proposta da Swanz, questo Macbeth con il suo vortice di suoni  potrebbe davvero diventare un punto di confronto anche per altre opere di cui vi parleremo , significativamente sempre più spesso create da artisti italiani. E non mi meraviglierei che già il prossimo disco dei Dead Cat in the Bag riparta da qui.

Nicola Gervasini

Link video: https://www.youtube.com/watch?v=4OdHOqb_L3E

GHOST WOMAN

 

Ghost Woman - Hindsight is 50​/​50

2023, Full Time Hobby

Il culto sotterraneo per i Ghost Woman è abbastanza atipico per i nostri tempi, in cui tutto viene strillato e bruciato in poco tempo, perché di loro si parla ancora molto poco rispetto al seguito che in patria sono già riusciti a costruirsi (ma anche a Londra, dove infatti hanno trovato casa come etichetta discografica). Se vi fate un giro nel web è persin difficile trovare informazioni su questo combo canadese che fa capo all’artista Evan Uschenko, e anche il loro sito ufficiale pubblica esclusivamente le date dell’imminente tour, ma nessuna biografia o discografia utile, nonostante Hindsight is 50​/​50 sia già il loro quarto album.

Partiti nel 2016, la band ha avuto qualche sotterraneo riconoscimento con gli album Anne, If del 2000 e l’omonimo del 2022, cambiando formazioni e svelando, con questo nuovo sforzo, quanto poi davvero il progetto sia completamente in mano a Uschenko. Lui, infatti, qui fa tutto tranne le parti di batteria, affidate alla percussionista Ille Van Dessel, strumentista evidentemente cresciuta alla scuola Meg White, mentre ad esempio l’album del 2000 era stato registrato da una formazione di 5 elementi. Il risultato è che lo psych-rock figlio dei sixties o dei Dream Syndicate di qualche anno fa ha sempre più lasciato spazio a ritmi più lenti e rarefatti.

Hindsight is 50/50 gioca subito l’unica carta rauca in apertura con Bonehead, un fuzz-blues sospeso tra i Jon Spencer Blues Explosion o i White Stripes più garage, ma è un caso unico, perché poi a partire da Alright Alright entriamo in un lungo percorso ipnotico e lisergico fatto di chitarre acide e atmosfere dark. Con ingredienti che potete anche immaginare, come le dosi massicce di Velvet Underground sparse in Yoko (no, qui Lennon non c’entra, ma avrebbe comunque apprezzato il brano), il finale maestosamente shoegaze di Joan, l’assalto di suoni effettati dello strumentale Wormfeast o l’alternative-rock da primi anni 90 della finale Buick (potei tirare in ballo gli Spaceman 3 ma poi ci perdiamo in discussioni su chi trova un riferimento ancora più preciso). Insomma, siamo davanti ad un disco che mette a proprio agio chiunque abbia sondato i bassifondi dell’industria discografia degli ultimi decenni, il che ci dice quanto Uschenko sia prima di tutto un fan e appassionato, ma forse meno che nei dischi precedenti si ha la sensazione che abbia trovato una sua via stilistica definita.

Per questo non troverete nulla che non vada in brani di forte presa come Highly Unlikely o Ottessa (probabilmente anche il Billy Corgan dei tempi d’oro degli Smashing Pumpkins li avrebbe apprezzati), se non che manca forse quello sforzo in più per emergere dal sottobosco, per rendersi più che riconoscibile, e soprattutto manca anche quella varietà di stili e ritmi che rendeva i dischi precedenti più stuzzicanti. L’album però piacerà forse a chi ancora cerca eroicamente di rimanere fedele al lato più oscuro e ostico di questo vecchio rock, e che sicuramente immagina di poter trovare nella camera di Uschenko gli stessi vinili che abbiamo consumato per anni sognando che questa musica potesse diventare un giorno il nuovo mainstream.

Nicola Gervasini

VOTO: 6,5

HARP

 

Harp

Albion

(Bella Union, 2024)

File Under: Dream-Indie

La storia è di quelle che si sono raccontate mille volte nelle riviste che si occupano di gruppi musicali, una band parte per amicizia fin dai banchi di scuola, arriva a farsi conoscere, ma proprio quando il momento pare quello d’oro, qualcosa si incrina, per poi rompersi in uno scioglimento o un abbandono pesante che interrompe la favola. In pochi scommettevano sul futuro dei Midlake nel 2012 quando il cantante e tastierista Tim Smith (e soprattutto praticamente unico autore dei brani fino a quel momento, da non confondere con il da poco scomparso vocalist dei Cardiacs) ha lasciato il gruppo a registrazioni del quarto album già iniziate. Eppure i suoi compagni hanno comunque portato a termine il lavoro (facendo uscire il più che dignitoso Antiphon nel 2013), e, soprattutto, nel 2022 sono tornati con il disco For the Sake of Bethel Woods, dimostrando che, dopo averci pensato un po’, hanno deciso che la sigla non merita di morire così presto. Smith aveva lasciato la barca proprio quando stava andando fortissima, con due album giustamente osannati dalla critica (The Trials of Van Occupanther e The Courage of Others), e soprattutto il contributo decisivo dato al fortunatissimo Queen of Denmark di John Grant. E lo ha fatto dando poche spiegazioni, e soprattutto quasi scomparendo dalla circolazione. Per questo possiamo ben dire che questo Albion, suo primo album mezzo-solista pubblicato con il moniker Harp che comprende anche la moglie e collaboratrice Kathi Zung, è un disco che in molti hanno atteso, con grandi aspettative che francamente non so quanto siano state rispettate. La voce è ancora quella celestiale che ricordavamo, e la mano felice a scrivere melodie sognanti e perfettamente costruite non sembra affatto arrugginita, come dimostrano bellissime canzoni come I Am The Seed o Silver Wings. Ma qualche perplessità la esprimiamo sulla parte di produzione e arrangiamenti, tutti basati su una tastiera che insegue gli anni ’80 a metà tra il dream pop dei Cocteau Twins nel migliore dei casi (che sono davvero la prima band a cui pensi ascoltando il disco), e certo pop di atmosfera di quegli anni. Gli fa da contraltare una chitarra che insiste in un arpeggio ipnotico, impantanandosi anche un po’ nella ripetitività, il che rende l’impianto sonoro del disco un po’ monocorde, e alla fine in certi momenti, tra piccoli strumentali quasi new age e suoni molto cristallini, più che ai Cocteau Twins pensi quasi ai levigatissimi Clannad degli anni 80. Peccato perché dal punto di vista della scrittura Smith ha ampliato la gamma espressiva includendo anche un tono vagamente acid-folk  alla Roy Harper, e i testi sono anche più elaborati della media nel sondare le fragilità umane, ma la sensazione è che nell’inevitabile confronto con i suoi vecchi compagni di strada, ad averci perso nel divorzio al momento pare proprio lui. Il suo vantaggio è che però lui ha appena iniziato, e ha davanti una strada ancora lunga.

Nicola Gervasini

 

LONG HAIR IN THREE STAGES

 

Long Hair In Three Stages - The Oak Within the Acorn

2023 Noisewave/ Long Hair In Three Stages

Diciamo pure che viviamo in un’era in cui parlare di logiche di mercato per il 99% dei prodotti musicali che affollano il web non ha più senso, rispetto a 30 anni fa escono parecchi più titoli e se ne vendono parecchi meno, per cui è logico che ogni artista indipendente (ma anche questa distinzione non so se ha davvero più senso) ragiona secondo un suo tornaconto del tutto personale. Certo, pecunia non olet dicevano i nostri antenati, ma è certo che la lussuosa confezione a libro (che vagamente mi ricorda le elaborate copertine a libro dei Pearl Jam, ad esempio Vitalogy) che i Long Hair In Three Stages hanno pensato per dare un contorno al loro album The Oak Within the Acorn, non è certo frutto di un ragionato e calcolato bilancio tra spese di produzione e vendite previste. Ma facciamo un passo indietro, perché gli anni scorrono e forse non tutti si ricordano dei  Long Hair In Three Stages, nome che quattro catanesi (Giuseppe Lacobaci, Santi Zappalà, Giovanni Piccinini e Fabio Corsaro) presero probabilmente in prestito dal primo album del  1995 della noise-band U.S.Maple per dare vita ad un progetto che unisce la nostalgia per la scena sperimentale degli anni  80-90 alla voglia di tenere viva la fiamma creativa del lato oscuro del rock odierno, sempre se si possa ancora chiamare così. La band ha pubblicato due dischi tra il 2012 e il 2014, e ora arriva questo terzo con quasi 9 anni di studi e ripensamenti alle spalle. Non è un album per tutti The Oak Within the Acorn, anche se dietro il suo sound da garage di altri tempi si nascondono anche brani più che accattivanti come Tired, e sebbene le 72 pagine del libro che lo accompagna tra fotografie, bellissimi disegni  di Yako Batchee e testi invogliano ad un tranquillo ascolto serale in poltrona, l’iniziale Dunning-Kruger-Voight-Kampff regala subito inquietudine sonora e oscuri presagi dietro un testo parecchio polemico sul tragico livello di discussione odierno su molti temi fondamentali . Il seguito è una sorta di quasi-concept, in cui un ipotetico trattato sulla natura di altri tempi diventa una impietosa e per nulla ottimistica fotografia sulla realtà. Non si salva nulla, dall’ecologismo che perde di vista il suo senso finale di The Cult Of Nature, alle storie sui migranti (The Blue Frontier), alla difficoltà di distinguere tra mondo reale e pornografia (Pornest Song Ever) alle lotte perse contro le discriminazioni (Mysogynocyde), tutto viene letto con l’occhio di capisce che, seppur vorrebbe, non può chiamarsi fuori da questo macello generale. Compreso quando si tocca la storia siciliana, raccontata in dialetto di Bronte, in Nunzio Frajunco (si parla dei Mille).  D’altronde il sottotitolo del disco è “Punk Songs After The End Of The World”, e brani come How Charming The Beauty Of An Impending Extinction sono lì a gettare quel ponte tra ironica provocazione e sconsolata rabbia che caratterizzava la filosofia underground di un tempo. Sospesi a metà tra la voglia di essere i nuovi figli degli Husker Du (si ascolti 1991), l’amore per i giri di basso e le complesse trame chitarristiche dei Fall, e qualche frenata velleità avanguardistica alla Einstürzende Neubauten, i Long Hair In Three Stages raccontano da Catania quella Sicilia invisibile, lontana ma per nulla distaccata da una sofferente visione del mondo, che abbiamo conosciuto dai dischi del messinese Humpty Dumpty ad esempio.  

Nicola Gervasini

VOTO: 7

 

CAT POWER

 

Cat Power

Cat Power Sings Dylan: The 1966 Royal Albert Hall Concert

(2023, Domino)

File Under:  Judas!

Quella che segue potrebbe essere la recensione più inutile che abbiate mai letto, per cui vediamo se riesco a fare in modo che la leggiate fino alla fine impegnando i 3 minuti che necessita. Cosa abbiamo qui? Bob Dylan. E non c’è altro da dire. Abbiamo le canzoni di Bob Dylan fino al 1966, classici, capolavori, chiamatele come volete, ma restano una delle esperienze letterarie e musicali più grande del secolo scorso, Nobel o non Nobel.  C’è poi un disco di cover di Bob Dylan, l’ennesimo, e certo non l’ultimo, non sto a contare quanti artisti l’hanno fatto perché sicuramente sbaglierei per difetto. C’è poi il fatto che una cover di un brano di Bob Dylan credo sia un obbligo, sicuramente morale, che un qualsiasi autore di canzoni statunitense e non solo deve prima o poi affrontare, ma non mi meraviglierei di trovarlo anche come diktat nella Costituzione Americana. C’è poi Cat Power, che ha deciso di regalarsi questo concerto (e tra l’altro è anche il suo primo live-record ufficiale) per i suoi 50 anni e congiuntamente 30 anni di carriera (la sua prima esibizione da artista fu a Brooklyn nel 1993 come spalla ai Man or Astro-man?), una artista per cui, anche qui, non devo prodigarmi troppo in presentazioni, visto che è ospite fissa sulle nostre pagine da sempre. C’è anche il fatto che sulle cover Cat Power ci ha ormai fondato una carriera parallela, che tiene a bada i tempi lunghi, l’insicurezza, e i mille dubbi con cui porta avanti in maniera sempre sofferta la sua da autrice, e che sia brava a calarsi nei testi altrui non è più una novità. C’è il suo amore per Dylan, anche questa tutt’altro che una novità, visto che in Jukebox del 2008 oltre ad una cover di I Believe In You (da Slow Train Coming), ci aveva piazzato come unico suo brano autografo una splendida Song To Bobby che potrebbe anche da sola sostituire questa recensione. C’è un concerto, quello mitico di Bob Dylan con la Band (ai tempi ancora Hawks) del 1966 alla Royal Albert Hall (ufficialmente, perché poi pare che, per un errore dei bootleggers, venne messa la location errata alla serata clou, che si tenne invece alla Manchester Free Trade Hall), il numero 4 delle sue Bootleg Series se ancora non lo avete recuperato, la sera di chitarre elettriche esibite a sorpresa, del “Judas!”, “I’Don’t Believe you, You’re a Liar”, che è probabilmente l’unica parte che qui non viene ripresa con ingegneristica precisione. Insomma,  la sera che ha cambiato il rock and roll tutto. E che Cat Power ripercorre con perfetta aderenza, calandosi nei panni della folk-singer ante litteram voce-chitarra-armonica nella prima parte, e passando alla parte elettrica nella seconda. Stavolta senza troppi scandali, anche perché la sua band ricrea perfettamente il suono del tempo, segue gli arrangiamenti originali senza smuovere una virgola, non cambia tempi e modi. Ovvio quindi che il risultato sia bellissimo.  Ma quindi come la chiudo senza aver solo enumerato una serie di ovvietà? Chiedendomi se tutto ciò ha senso? No, non più, non nel 2023 in piena era di autocelebrazione del classic-rock. Se sarebbe stato meglio avere riletture diverse e coraggiose? Forse, ma è evidente che la serata era più un regalo a sé stessa che ai fans, per cui perché rovinarle la sorpresa? Sperando che le giovani generazioni raggiungano Dylan attraverso questo disco?. Io non ci spero più dal 2010 ormai, e non ci spera neanche la stessa Cat Power secondo me, che è mia perfetta coetanea, e ai suoi coetanei si rivolge ormai da tempo. Per cui va benissimo così, viviamo di grandi ricordi, questo vuole dirci Cat, riviviamoli assieme ancora una volta, e altro non c’è da dire.

Nicola Gervasini

ALLAH-LAS

 

Allah-Las -  Zuma 85

2023, Calico Discos/Innovative Leisure.

Non si sa con esattezza chi abbia coniato il termine “retromania”, tra l’altro usato anche tra gli anglofoni, tanto da essere diventato anche il titolo di un trattato teorico scritto nel 2011 dal famoso critico musicale Simon Reynolds (colui che ha ufficialmente la paternità dell’oggi abusatissimo termine “post-rock”), ma sicuramente non è ormai recentissimo (la Treccani attesta il primo utilizzo nei quotidiani italiani nel 1999 sull’Unità). Per Reynolds più che di una corrente culturale e artistica, si tratta proprio di una mera ossessione che impedisce di slegarsi da schemi mentali il cui unico merito, secondo lui, resta quello di essere stati efficaci e di successo nella loro epoca. Oggi però viviamo una fase difficilissima per il rock, o “classic rock”, termine che già lo relega ad oggetto di retromania per definizione, perché se  è vero che internazionalmente dobbiamo affidarci ai Måneskin o ai Greta Van Fleet per trovare adepti anagraficamente definibili come “giovani” e di successo, (ma volendo potremmo anche arrenderci ed aspettare solo il nuovo album dei Rolling Stones, e chiudiamo così la discussione), anche il mondo del rock indipendente non sembra riuscire a slegarsi dal passato. E’ così anche, e soprattutto, per gli Allah-Las, con gli Algiers tra le band più spesso citate da chi cerca di far valere l’idea che no, il rock non è affatto morto, ma anzi vive e progredisce. Il loro nuovo album Zuma 85 sembra infatti quasi una risposta degli stessi, quasi a dire “no, guardate che anche noi, anche se siamo più giovani, sempre là siamo rimasti”. Con un titolo che non può far pensare a Neil Young, una data che ci riporta indietro di quasi quarant’anni, ma soprattutto con quel riff di Sweet Jane rielaborato non solo palesemente nell’iniziale The Stuff, ma pure in versione più lenta dalla successiva Jelly. Poi però scopri che il testo di The Stuff ironizza parecchio sulla retromania, pare quasi uno di quei brani di Frank Zappa quando si divertiva a ricreare perfettamente (e con grande rispetto) un genere musicale, ma nello stesso tempo lo sbeffeggiava nel testo. E qui si apre la discussione, perché Zuma 85 è decisamente il disco più retrò di una band che retrò ci era già nata, ma con uno sguardo moderno che evitava l’effetto cover-band. Effetto scongiurato anche qui, state tranquilli, perché poi il disco è più che divertente, i brani scritti dai quattro ragazzi di Los Angeles reggono bene il confronto con i modelli a cui si rifanno (bello il finale con la title-track e The Fall), e gli Allah-Las dopo 15 anni di carriera hanno ormai percorso abbastanza chilometri da conoscere tutti i trucchi del mestiere per far sentire l’ingrediente della casa anche in una ricetta banalissima. Ma qui siamo ormai ad una sorta di struttura ricorsiva in cui una band che ripropone il passato fa un disco che ripropone il passato ragionando sulla musica che ripropone il passato con l’idea che tutto ciò ci parlerà del presente. D’altronde anche il cinema si è fermato lì, tra remake, reboot, e quella prassi consolidata di mostrare il passato per parlare dell’oggi (pensate anche solo al successo del film di Paola Cortellesi). Trucco che agli Allah-Las riesce in parte secondo me, perché il gioco non è nuovissimo e alla lunga stanca, e pare essere davvero l‘unica stuzzicante riflessione  che in questo momento questo sound riesce a proporre. Lassù Lou Reed, primo omaggiato da queste canzoni, mi sa che apprezza, ma un po’ se la ride anche, perché lui ci aveva avvertito in tempi non sospetti che non c’era poi molto da dire su una musica basata su massimo due accordi (che già tre è jazz…) e un paio di chitarre.

Nicola Gervasini

VOTO: 6,5

BLACK PUMAS

 

The Black Pumas

Chronicles of a Diamond

( ATO Records, 2023)

File Under: Black Pop

Non è facile dire quale sia stato l’anno, o il disco, o l’artista, che ha chiuso il ciclo evolutivo di quella che per mera comodità continuiamo a chiamare “Black Music”, confidando sul fatto che con questa definizione non si corre il rischio di sospetti di razzismo e poca inclusività. Ma la - al momento - breve  epopea dei  Black Pumas, duo di Austin formato da Eric Burton e Adrian Quesada (un afroamericano e un ispanico che suonano nella capitale della roots music americana, cosa fare di più per confondere le vecchie idee?), sta in qualche modo dimostrando che il genere è arrivato ad un punto di sintesi ormai completo. Loro già lo fecero capire nel 2019 con il loro acclamatissimo esordio omonimo, e cioè che ormai non ha più troppo senso fare divisioni tra il vecchio Soul ravvivato in questi anni 2000 dal foltissimo movimento New Soul, la tradizione delle band funky degli anni 70, e il totale cambio di paradigma portato negli anni 80 da Thriller di Jackson e ovviamente Prince, l’hip hop e l’ R&B degli anni 90, e i grandi nomi dei 2000 che già avevano operato un ulteriore passo in avanti nell’unire il tutto (penso a D’Angelo, Cody Chesnutt o tanti altri). I Black Pumas arrivano ultimi, eppure suonano freschi, e, buona notizia, continuano ad esserlo anche in questo secondo album, Chronicles of a Diamond, che si è fatto attendere più di quattro anni, in cui i due hanno ammesso di essersi sentiti parecchio sotto pressione. La scelta, secondo me saggia (vedremo poi se vincente o no), è stata quella di aver deciso di non avere nulla da dimostrare a nessuno, e così questo disco sposta il focus sulle canzoni e sulle melodie (alquanto cantabili e “radiofoniche”, per usare un vecchio termine che non saprei sinceramente attualizzare in epoca di streaming), mentre non cerca di strabiliare unendo stili diversi senza criterio. La giornalista Emma Harrison su Clash lo ha definito “una paradisiaca tavolozza interculturale di soul stellato, rock psichedelico, jazz funk, e pop sinfonico" e francamente potremmo fermarci qui, soprattutto perché l’ultima delle definizioni è quella su cui più mi soffermerei. Perché brani come More Than a Love Song o Mrs Postman dimostrano quanto lavoro ha fatto Burton nel costruire melodie sopra le ritmiche di Quesada riuscendo a unire le lezioni “black” di Smokey Robinson e quella “white” di Harry Nilsson in un unico risultato. E’ forse meno ballabile del suo predecessore, in cui l’amore per il funky di Quesada aveva più spazio, ma forse ancora più pregno di influenze, dal gospel di Angel alla quasi filastrocca pop di Ice Cream (Pay Phone). Nel finale arriva poi Rock and Roll a trovare un accordo tra generi che valga per tutti i gusti sotto un titolo così loureediano. Eppure, nonostante la bontà di molti brani brani, non sta piacendo a tutti questo Chronicles of a Diamond, forse perchè ci mette meno istinto e sudore e più ragione e cultura musicale, o forse perché il tentativo dei Black Pumas di farci anche solo riflettere su cosa ancora si può fare di più in questa musica necessita ancora di tempo. Risentiamolo fra qualche anno magari, potremmo scoprire che avevano capito qualcosa in anticipo, oppure davvero sì, lo ricorderemo solo come una svolta più leggera (un tempo dicevamo “easy” pure sui giornali italiani, ricordate?) del primo album.

Nicola Gervasini

BEIRUT

 

Beirut – Hadsel

2023 – Pompeii Records

Il trentasettenne Zachary Francis Condon rappresenta in qualche modo l’ormai deragliato sogno della globalizzazione, intendendo il termine come un tempo, con una accezione del tutto positiva di incontro tra culture diverse, conseguente arricchimento reciproco, e nascita di un uomo nuovo che travalichi i confini e le divisioni. Messicano nato a Santa Fe, si è innamorato dei suoni del mondo in una viaggio in Europa dove ha incontrato la musica etnica (quella che chiamavamo World Music, ma pure questa è storia vecchia), il fado portoghese, e ovviamente la musica balcanica. Pure il nickname che si è scelto, Beirut (inizialmente a rappresentanza solo di sé stesso, ma ormai a tutti gli effetti considerato il nome di una band), è stato scelto proprio perché la capitale libanese, prima che lui nascesse, rappresentava questo ideale di perfetto incontro tra culture antitetiche (ricordate quando la chiamavano “La Parigi del Medio Oriente”? A dirlo oggi viene quasi da pensare che ce lo siamo davvero tutti sognato).

Il primo album Gulag Orkestar del 2006 era un unico grande omaggio all’Europa dell’Est, una sorta di versione indie-mex di un disco di Goran Bregovic secondo alcuni. E il viaggio multiculturale non è mai finito da allora, portandolo con il precedente Gallipoli a registrate anche in Puglia e cibarsi anche dei sapori del nostro sud (ricordiamo che l’etichetta discografica da lui fondata si chiama Pompeii). Stavolta però, per il loro sesto album, ci dobbiamo spostare ad Hadsel, paese della Norvegia dove Zachary si era rifugiato in tempi di lockdown anche per curare una forte laringite contratta proprio a casa nostra, e dove in quella solitudine che solo i paesi nordici sanno orchestrare in maniera così perfetta, lui ha scritto queste canzoni usando l’organo della chiesa del paese (da qui la copertina). Capite subito che quindi non sarà facilissimo entrare nel mood di brani che si intitolano Arctic Forest o Island Life vivendo magari a Milano, dove il silenzio nessuno sa cosa sia da secoli, ma se siamo riusciti ad entrare in sintonia con gli album dei Sigur Rós o apprezzare l’aura bucolica dei dischi dei Big Thief anche in mezzo al traffico cittadino, allora il risultato di tanto isolamento, che quasi potete anche facilmente immaginare, ci suonerà famigliare.

Il disco è stato scritto suonato da solo, persino quando è stato perfezionato in Messico utilizzando elementi tipici del loro sound come la tromba, che chiude benissimo il disco in Regulatory, o l’ukulele, ma l’assenza della band ha aumentato il peso di sintetizzatori e drum machines,  che allontanano l’album dal concetto di folk a cui spesso vengono associati. Il risultato è un disco monolitico nella sua ispirazione, ma decisamente vario negli spunti che propone, e ogni brano meriterebbe un discorso a parte, dall’ottimismo di The Tern alla malinconia della title-track. Probabilmente Hadsel sarà un titolo che volentieri metteremo in una  ipotetica lista dei migliori dischi nati nel più totale isolamento umano e artistico, dall’esordio di Bon Iver di For Emma, Forever Ago fino al Van Morrison quando inseguiva in solitudine i sentieri battuti dalla poesia di Yeats. Fatelo vostro come il disco ideale per questo lungo inverno che ci attende

Nicola Gervasini

VOTO: 8

 

MASSIMILIANO LAROCCA

 

Massimiliano Larocca

DÀIMŌN

(Santeria Records - La Chute Dischi/Audioglobe)

File Under: You Want It Darker

Sta prendendo una direzione inaspettata, e se vogliamo sorprendente, la carriera di Massimiliano Larocca, artista toscano che seguiamo fin dagli esordi, quando dischi come ll Ritorno delle Passioni (2005) e, soprattutto, La Breve Estate del 2008, avevano contribuito a mantenere viva la tradizione della canzone popolar-cantautoriale nostrana. Probabilmente la non riuscitissima esperienza dei Barnetti Bros, supergruppo creato nel 2009 con l’amico Andrea Parodi, il maestro di genere Massimo Bubola, e il da noi ormai onnipresente Jono Manson, lo ha spinto a cambiare direzione in cerca di una marca più indipendente, perché da allora Massimo ha pubblicato dischi che davvero non abusano della parola “progetto”, in quanto sono realmente passi ponderati e approfonditi di un percorso che solo lui sa dove vuole arrivare. La svolta fu affidarsi nel 2014 alla produzione di Antonio Gramentieri per il disco Qualcuno stanotte, album intrigante in cui l’oggi Don Antonio cercava di scardinare le regole ferree di canzoni scritte ancora con in mente schemi classici. E poi l’incontro nel 2019 con l’ex Bad Seeds Hugo Race, che ha operato quasi allo stesso modo per il successivo Exit|Enfer, primo capitolo di una trilogia che giunge ora con questo al secondo capitolo DÀIMŌN.

E subito si nota come il processo iniziato col primo disco del sodalizio assume qui piena realizzazione, dove non c’è più un cantautore che affida le proprie canzoni ad un produttore perché le vesta coi suoi suoni, ma un autore che ha scritto brani specificatamente per un progetto artistico già ben definito, e il Larocca che si sente in questo album è davvero ormai lontano da quello degli esordi sia nella scrittura che anche nell’uso della voce, che segue la lezione dark-blues di Race per addentrarsi in un concept album dedicato al mito di Er raccontato da Platone nella sua Repubblica, a pretesto di un lungo ragionare sulla nostra essenza fatta di demonio e santità. Certo, qui si scivola verso altri riferimenti, tra Tom Waits e chitarre Marc-Ribottiane, e quel parlato alla Leonard Cohen di fine carriera che apre molti brani, e un pezzo come la lockdown-song Leviatano deve sicuramente qualcosa al Vinicio Capossela in zona Canzoni a Manovella, ma l’opera resta comunque un bello sforzo personale che sicuramente mette in campo un autore che non si sta accontentando dei complimenti passati. Tra i brani si fanno notare anche Giorni di Alcione, L’abbandono e il singolo Non saremo più gli stessi, in cui si apprezza meglio la voce di Federica Ottombrino, metà del duo partenopeo Fede'n'Marlen, ormai assunta in pianta stabile in una band forte di collaboratori ormai storici come lo stesso Don Antonio, Roberto Villa, Franco Beat Naddei e Diego Sapignoli.

Ci sarebbe da approfondire il gran lavoro di produzione e post-produzione (opera di Nicola Baronti, collaboratore di Iosonouncane), ma mi piace soffermarmi anche sulla confezione del disco, con tre bellissime copertine create dall’illustratore Enrico Pantani, una destinata alla versione vinile e due a quella CD, che dimostrano che c’è ancora differenza tra registrare in casa una canzone in una mattinata e buttarla nel mare magnum delle piattaforme streaming, e creare in quattro anni un’opera che forse non venderà tanto da portare Larocca nelle classifiche, ma resterà nel tempo, nelle case giuste, su quei lettori o piatti che ancora sanno accogliere un lavoro ben fatto.

Nicola Gervasini

 

GRAND DRIFTER

 

Grand Drifter

Paradise Window

(2023, Subjangle)

File Under: This is Pop

Inutile disquisire ormai sul confine tra album e EP in tempi di musica liquida, per cui accogliamo come terzo album di Grand Drifter questo seppur breve Paradise Window, dopo che già lo avevamo conosciuto coi suoi apprezzatissimi  precedenti lavori Lost Spring Songs (2018) e Only Child (2021). Sette brani che proseguono il percorso del proprietario del moniker  Andrea Calvo in uno stile figlio dell’indie-folk di fine anni ‘90 che si sta facendo via via sempre più sofisticato. Il patron dell’etichetta inglese Subjangle, Darrin Lee, che aveva creduto in lui per un lancio più internazionale già dal precedente lavoro (e i tanti concerti tenuti all’estero sembrano dargli ragione), anticipa un po’ la sorpresa in cartella stampa citando Belle & Sebastian, Burt Bacharach e il jangly indie-pop in stile Sarah Records,chiudendo così la porta ad ogni altro possibile riferimento, se non magari la possibilità di notare che nel passaggio dalle atmosfere autunnali di Only Child ad il mood più scanzonato di questo album, molto fa il giocoso pianoforte in stile Misread dei Kings Of Convenience che spesso trapunta i brani. Grand Drifter è oramai un artista completo, capace di giocare in studio suonando tutti gli strumenti (solo il basso di As the Days Change viene suonato da The Cascarino), il che forse limita il raggio di azione al suo particolare stile che ricorda spesso l’Iron & Wine più intimo, ma che sicuramente gli permette di concentrarsi molto sui particolari. Il dono della sintesi spesso è un pregio, ma visto che stavolta il gioco è pure più brioso e per nulla tedioso, quando si arriva al finale di Memory and Dust si sentirebbe quasi il bisogno di almeno un bis. Ma di una cosa sono certo, se cantasse in italiano, Grand Drifter godrebbe qui da noi di molta più attenzione, ma se leggete le classifiche di ascolto del nostro paese vi accorgerete che la musica anglofona è praticamente quasi sparita, a parte qualche consolidato nome, per cui purtroppo sempre meno possiamo dire che questo bel Paradise Window (e bella anche la copertina di Sergio Varbella) rappresenta il nostro Made in Italy.

Nicola Gervasini

LUCA & THE TAUTOLOGIST

 

Luca & The Tautologist

Paris Airport ’77

IRD 2023

File Under: Rockin’ on a Jet Plane

 

La copertina è un po’ artigianale, quasi da post social messo a documentare un viaggio che sa di memorabile per una band italiana tutta chitarre e passione, ma comunica il giusto sapore  degli elementi messi in campo da Luca & The Tautologist. C’è il cantautore che guarda senza paura un orizzonte noto solo a lui, brandendo con severità una chitarra come fosse un mitragliatore, e ci sono i compagni di viaggio sullo sfondo, colleghi musicisti, ma prima di tutto commensali di mangiate e bevute, navigatori per non perdere la strada durante i viaggi alla ricerca di sperduti locali dove ancora la musica può sovrastare le chiacchiere da bar. Paiono tre autostoppisti trovati per l’occasione, ma sono nomi a noi ben noti come il riconoscibilissimo bluesman Ruben Minuto (qui si cimenta al basso, ma ovviamente non si fa attendere alla sei corde e al mandolino quando c’è da duellare con le altre chitarre) Leandro Diana (chitarre) e Deneb Bucella alle pelli  Persino la maglietta è un indizio chiarissimo, il logo di un noto negozio di dischi di Piacenza, uno di quegli antichi punti di ritrovo per appassionati dove tutte queste canzoni hanno trovato linfa e ispirazione. Album corposo questo Paris Airport ’77 , più di un’ora di musica in cui il leader Luca Andrea Crippa ha messo un po’ tutta la sua vita nei testi in inglese, con uno stile da heartland-rock stradaiolo pensato nel modo tipico della scena italiana (vengono in mente Edward Abbiati e i suoi Lowlands in molti momenti), eppure la title-track iniziale quasi depista un po’ sul contenuto, un sopraffina melodia sognante che fa capire quanto la lezione di Jonathan Wilson sia oramai entrata nel gergo del genere. Poi  Dreams Becomes Promise e Things…From a Spell (canzone che ha due parti) riportano tutto a casa, accomunate anche da un finale che aumenta il ritmo dando sempre più spazio alle chitarre. Tra tante cavalcate da american-rock si distinguono anche la più tetra Winter Heights And My Falldowns, con anche inserti di elettronica realizzati da ZOWA (Lele Ledda), e la baldanzosa Undelivering che da spazio anche alle tastiere di Riccardo Maccabruni. Se state per partire per un lungo viaggio è il disco giusto da mettere in valigia.

Nicola Gervasini

CORAL

 

Coral – Sea Of Mirrors

Run On  Records - 2023

 

C’è da considerarli ormai dei veterani di questi anni 2000 gli inglesi Coral, che con Sea of Mirrors arrivano all’undicesimo album di inediti pubblicato dal 2002 ad oggi. Baciati inizialmente anche da un successo e un “hype da next big thing” britannica  (e scusate se lo dico con parole inglesi, ma in italiano non rende bene l’idea di come la stampa musicale d’oltremanica sappia pompare a dismisura un fenomeno quando si mette d’impegno), la produzione della band si è poi via via assestata in una invidiabile velocità di crociera, che ha avuto forse il suo culmine nel doppio album del 2021 Coral Island, sorta di vademecum di ogni possibile idea , influenza, proposta e riproposizione della loro formula musicale. Che è da sempre un originale brit-pop in salsa roots americana, con un gioco a mille rimandi e citazioni che in questo Sea of Mirrors, tredici brevi canzoni per 36 minuti di musica, diventa quasi un quiz per i loro fans.

 Insomma, c’è da indovinare a chi stanno pensando in ogni brano, e allora via a pensare ad uno spaghetti western in North Wind, ai Beach Boys nella title-track, ad un qualsiasi cantautore della West Coast dei primi anni 70 in That's Where She Belongs, e addirittura ad un Billy Joel prima era in Faraway Worlds. Non manca nulla quindi, c’è persino un soffuso ritmo quasi samba in Child Of The Moon per completare l’ideale programmazione di una radio di cinquant’anni fa. Il disco è in verità la prima parte di un doppio che avrà un altro capitolo di prossima uscita (il titolo dovrebbe essere Holy Joe's Coral Island Medicine), e questo spiega forse il percorso puramente tematico di questi tredici brani, che loro hanno presentato come un disco country rock in salsa psichedelica con omaggi sparsi a Ennio Morricone. A produrre c’è l’ex High Llamas Sean O'Hagan, irlandese con le orecchie piantate nel rock alternativo USA, altro segno di questo curioso ponte UK-USA che il disco cerca di tracciare. E qui scatta la discussione, laddove una band che comunque ha una sua marca stilistica fa un ulteriore passo verso un “passatismo” che apre due linee di pensiero, una negativa che giudica il tutto come un mero esercizio di stile (e di fatto non si sbaglia di molto), e l’altra, non meno condivisibile, che invece considera questa l’unica via per continuare a far vivere una tradizione e questo suono anche nell’era moderna, incapace (o forse davvero è impossibile riuscirci, a meno di uscire dai seminati del mainstream) di rigenerare nuove ispirazioni. Sea of Mirrors è questo, un buon disco che di fatto esisteva già, ma che in fondo nessuno ha mai detto di non voler più ascoltare.

 

VOTO: 7

Nicola Gervasini

RODOLFO SANTANDREA

 

Artisti Vari – Un Sentito Omaggio a Rodolfo Santandrea

Snowdonia, 2023

 

 

 

Perdonate il ricordo personale: fine anni ottanta, ho 15 anni e una grande passione per Edoardo Bennato, tanto da seguirlo in varie date dei suoi tour. E’ lì che, prima di uno show, sale sul palco, certo non troppo atteso,  Rodolfo Santandrea, che solitario intona, tra le altre, Un’Arancia, brano che non sarà impossibile vedere passare anche nelle programmazioni della italianissima Videomusic (la ricordate?) nei mesi successivi. Il brano suscita una certa ilarità nel pubblico, io invece la prendo in simpatia, e comincio subito a canticchiarla. e da allora, pur non avendola mai più sentita, non ho davvero mai smesso di cantarla. Chiedete ai miei figli cosa ripete da sempre il loro padre quando porge loro un’arancia, e vi risponderanno sicuri, e probabilmente esausti per il pluridecennale tormentone, “che ti balla, che ti balla, nella pancia”. Singolare che io non mi sia mai posto la domanda in questi anni su chi diavolo fosse quel personaggio che mi aveva insinuato un simile tarlo nella mente, anche perché il CD ora prodotto dalla Snowdonia in collaborazione con il MEI, ci ricorda che, sebbene sia uscito dal mondo del pop vissuto in prima persona dopo soli quattro album, Santandrea è vivo e ben conosciuto nell’ambiente della musica classica per la sua orchestra Camerata Veneziana, che dirige. Già, perché poi la canzone per cui più lo si ricorda è legata proprio a quel mondo, quella La Fenice presentata da esordiente a Sanremo nel 1984 con tanto di musiche firmate da Riccardo Cocciante, che gli valse sguardi ancor più stralunati dai telespettatori, una bocciatura piena in una classifica delle nuove proposte dominata dal fenomeno Eros Ramazzotti,  ma anche, a sorpresa, un prestigioso premio della critica. Si era in epoca “post La Voce del Padrone di Franco Battiato”, e lui venne considerato come uno dei più promettenti  seguaci di quella nuova New Wave italiana, e il brano ancora oggi viene spesso ricordato nei social quando si scandagliano gli episodi più curiosi e dimenticati del Festival dei Fiori. L’album tributo vede il brano aprire e chiudere in due versioni, quella solo piano e  voce di Claudio Lolli, che ne trasforma in termini più cantautoriali le velleità operistiche, e quella ammantata di elettronica e organi ribattezzata Capriccio Fenice, offerta dai NichelOdeon di Claudio Milano (autore anche dei disegni di copertina) con Filippo Manini. E se i padroni di casa Maisie non si perdono la ghiotta occasione di rioffrire una frizzante versione quasi in stile Sweet Jane di Lou Reed di Un’Arancia  (canzone che potrebbe tranquillamente albergare anche in un loro album), molto interessante è riscoprire i brani, soprattutto provenienti dal disco d’esordio omonimo, riletti da Manuel Pistacchio (la straordinaria Le Aquile) , Stefano Barotti (che suona tutti gli strumenti della versione di Guance Bianche) e Jet Set Roger (molto moderno l’arrangiamento pensato per Niente). E ancora, sempre dallo stesso disco, provengono la teatrale Amsterdam riproposta da Davide Matrisciano, e la più classicamente cantautoriale Marta riletta da Mapuche e Matteo Castellano. Il disco si chiude invece, seguendo un rigoroso  ordine cronologico (da cui viene escluso solo il secondo affascinante, ma probabilmente irrileggibile album, Ricordi e Sogni del Mio Vescovo), con due estratti del terzo album Aiutatemi, Amo i Delfini, che sono appunto Un’Arancia e Un Delfino offerta da Paolo Zangara, mentre il cupo addio alle scene di Anni, album pubblicato nel 1995 nel silenzio, viene omaggiato dagli Ossi di Vittorio Nistri e Dome La Muerte con la voce di Simone Tilli che interpreta la struggente Alice. Prodotto di gran valore storico che pone l’attenzione su una stagione musicale nostrana vivacissima, ma penalizzata dagli anni più cinici e crudeli dell’industria discografica, anni in cui finivi in disgrazia anche solo per una battuta sbagliata detta in televisione. Come quella che Santandrea disse a Claudio Villa durante una importante intervista di una televisione sul festival degli Stati Uniti, quando Villa enumerò con grande orgoglio al pubblico americano i grandi nomi della musica melodica italiana, ma quando toccò a Santandrea continuarla, lui chiuse la questione con un “ma che ci frega della musica italiana quando ci sono I Rolling Stones!” che fece imbestialire non poco il vecchio Claudio, e dice molto del perché di Santandrea ce ne occupiamo con quasi quarant’anni di ritardo. .

Nicola Gervasini

VOTO: 8

BUCK MEEK

 

Buck Meek

Haunted Mountains

(4AD, 2023)

File Under: Waitin for the UFO’s

Lo hanno già notato in molti, ma il periodo del Covid ha affrettato una tendenza che già stava evidenziando nel mondo della musica, e cioè quella della sempre meno possibile identificazione di scene musicali geograficamente definite. Difficile che oggi si ripeta infatti ad esempio una Seattle del periodo fine anni 80 /primi anni 90, perché la musica sempre meno nasce nei locali e nei garage, e sempre più nelle solitarie stanze, e le collaborazioni tra artisti sono sempre più scambi di file e opinioni nei social. Esistono però grandi famiglie musicali che operano nel loro piccolo come piccole scene musicali, e sicuramente lo sono i Big Thief, combo newyorkese, ma composto da musicisti di varie provenienze geografiche , che in questi ultimi anni  ha rappresentato senza dubbio la novità più interessante del mondo indie-folk (ma spesso più decisamente roots) a cui appartengono. E se nel 2020 la cantante Adrianne Lenker ha trovato modo di venire acclamata anche col suo doppio lavoro solista Songs/Instrumentals, il 2023 pare essere l’anno della ribalta personale per il chitarrista Buck Meek. Texano e fiero di esserlo, Meek aveva iniziato la carriera dieci anni fa con la Lenker proprio con l’intenzione di essere un duo aperto a collaborazioni (continuano ad esserlo in fondo, anche se nella vita il loro matrimonio è finito già nel 2018), e questo Haunted Mountain, suo terzo disco in solitaria, segna un suo percorso musicale del tutto indipendente. La parola d’ordine è “tradizione moderna”, quella che lo portò a registrare il suo secondo album Two Saviors a New Orleans, e che ha convinto nientemeno che Sua Maestà Bob Dylan a volerlo come secondo chitarrista per il suo recente film/album  Shadow Kingdom. Haunted Mountain, sebbene cantato con lo stile folk tipico degli anni 2000, è un album che davvero potrebbe appartenere alla tradizione cantautoriale di Austin, con incursioni country (Lagrimas) e quella voglia di cantare con un certo raccolto imbarazzo dei propri amori (Didn't Know You Then, Mood Ring), e soprattutto con anche la passione per il racconto in forma di canzone (Undae Dunes, addirittura a tema sci-fi con tanto di alieni), che potrebbe anche far intravedere future velleità da scrittore alla Willy Vlautin. E’ comunque evidente che Meek si è concentrato molto sulle canzoni e la loro scrittura, spesso molto lontana da quella dei pezzi di suo pugno prestati ai Big Thief, lasciando la forma ancora un po’ in secondo piano, con una continua insistenza sui giri della propria chitarra, il che rende Haunted Mountains un disco di ottime ballate ma ancora forse un po’ ostico e scarno per palati che magari non masticano questo folk da sempre. Ma di lui parleremo ancora molto spesso, questo è certo.

 

Nicola Gervasini

SAY ZUZU

 

Say Zuzu

Every Mile

(2002/2023 Strolling Bones)

File Under : Say it again

Se in Italia dite Say Zuzu è probabile che vi prendano per qualcuno che straparla, e la cosa potrebbe non essere diversa  se vi trovate  in un gruppo di musicofili e assidui lettori di riviste musicali che ricordano i gloriosi anni 90 nominando REM, Sonic Youth o Black Crowes. Ma se tra di loro c’è un vecchio abbonato alla rivista L’ultimo Buscadero state certi che gli occhi gli si illumineranno, e la citazione al mensile diretto da Paolo Carù in questo caso suona doverosa, perché gli stessi Say Zuzu non hanno mai mancato di ringraziarlo per l’insolito e forse insperato supporto che la rivista diede alla band. Il gruppo veniva dal New Hampshire e si era formato nel 1992 in piena passione per il revival country-rock risvegliato dagli Uncle Tupelo, loro più evidente punto di riferimento stilistico, ma per imperscrutabili scherzi del destino i loro album in studio pubblicati tra il 1994 e il 2002 in patria sono passati praticamente inosservati, vendendo quanto basta per sopravvivere quasi solo in Europa, e in particolare, appunto, nelle nostre lande, solitamente inospitali per il genere. Una ingiustizia palese, perché per quanto le loro produzioni fossero grezze e casalinghe rispetto agli standard dell’epoca, vivevano in un’era in cui lo stile suscitava l’interesse delle major, con band meno talentuose come Sister Hazel o Matchbox Twenty che arrivavano a grandi vendite, e ancora oggi non si trova un rapporto logico tra le poche copie distribuite dei loro dischi più interessanti  come Take These Turns, e le oltre dieci milioni di copie vendute dal pur valido Cracked Rear View degli Hootie & The Blowfish nel 1994, band che in fondo si muoveva  negli stessi ambiti verso lo stesso ipotetico pubblico. Paradossalmente qualcosa è cambiato in questo 2023, perché a sorpresa Jon Nolan e Cliff Murphy hanno rimesso insieme la band con un comeback record (No Time To Lose) che, se vi fate un giro nei siti specializzati americani, scoprirete quanto abbia risvegliato qualche appassionato in più, che si è accorto di loro e di quanto forse sarebbe bene recuperarli. In questo scenario  esce questa riedizione di Every Mile, ultimo capitolo della band del 2002 mestamente passato sotto silenzio, indirizzata soprattutto ai nuovi cultori del vinile, e chissà se davvero a nuovi fans, e che aggiunge ai dodici pezzi originali un inedito uscito dalle stesse session (la discreta The Boxing Song), più due demo acustiche dei due pezzi forti del disco, e cioè Doldrums e Good Girl. Non tantissimo se già possedete il cd originale, ma visto che sarete in pochi a potervene fare vanto, è abbastanza per recuperare un disco ancora oggi validissimo che finiva esattamente là dove sono ripartiti con il recente capitolo, e anche se non aveva nel suo menu i pezzi più amati e rodati nei live della band , era comunque una nuova testimonianza di vitalità di un gruppo che pur non cambiando mai troppo la propria formula musicale, ha sempre trovato nuove interessanti storie da raccontare nel songrwriting di Nolan e Murphy, sicuramente più di qualità di quanto ci si possa aspettare da produzioni così indipendenti. Insomma, non riuniranno mai le oceaniche folle che accorrono ad un concerto della Dave Matthews Band o dei Phish, ma un posticino seppur piccolo nella storia della musica americana di quegli anni fecondi, a fatica, se lo possono riconquistare anche loro.

 

Nicola Gervasini

DEVENDRA BANHART

 

Devendra Banhart – Flying Wig

Mexican Summer 2022

C’è stato un momento , a metà degli zero, in cui la palma della “next big thing” della musica indie-folk, che ai tempi imperava nelle classifiche delle riviste specializzate, se la giocavano il mezzo venezuelano Devendra Banhart con una accoppiata di acclamati album ancora oggi consigliabili (Cripple Crow e Smokey Rolls Down Thunder Canyon) e Sufjan Stevens (soprattutto grazie al successo del’album Illinois). Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, il revival della new wave e dei suoni “anni 80” degli anni dieci ha costretto molti artisti dell’epoca a rivedere i propri piani, e non è un caso che entrambi abbiano tentato svolte più elettroniche. Ma se le poche pubblicazioni di Sufjan Stevens, sia quelle più ardite nello sperimentare come The Age of Adz, o quelle fieramente intimiste come Carrie & Lowell, hanno mantenuto alta l’attenzione nei suoi confronti, l’impressione è che invece gli album di Devendra Banhart come Mala e soprattutto Ape in Pink Marble siano non dico passati inosservati, ma abbiano suscitato una certa noia generalizzata. L’album Ma del 2019 pareva voler essere un segnale di ripartenza, anche dalla semplicità di una folk.song, e infatti ha avuto i suoi sostenitori, ma ora questo Flying Wig riprova la carta del rilancio tramite un sound tutto ad emozioni sintetiche creato con Cate Le Bon in produzione. Il matrimonio tra folk intimista anni 2000 e l’elettronica è ormai consolidato da anni, e bene o male ci sono incappati tutti i grandi e piccoli nomi del genere, per cui anche definire “sperimentale” un disco del genere oggi suonerebbe un po’ grottesco, semmai si potrebbe anche dire con una certa severità che Banhart stia viaggiando su terreni sicuri per non sbagliare.

La buona notizia è che perlomeno ha rinunciato ad una certa tendenza a mettere sempre troppa carne al fuoco nei suoi album, a favore di una scaletta essenziale di dieci pezzi, dove persino i titoli sono di massimo due parole e quindi subito facilmente memorizzabili (l’epoca dello streaming, si sa, non ama la prolissità). Ritmi eterei, tappeti di tastiere ovunque, batterie elettroniche (anche se non tutte), interventi timidi di chitarre, pedal steel e sassofoni, sono la ricetta pensata da Cate Le Bon per un disco molto omogeneo, anzi, forse fin troppo monolitico nel perseguire una precisa scelta stilistica. Come spesso succede nei casi di brani adattati ad un suono a tutti i costi, il gioco funziona bene in alcuni casi (Nun, Flying Wig, May), mentre in altri (il suadente singolo Sirens, Twin) forse il suo stile più “folkish” avrebbe dato più risalto alla canzone e ai testi, che trovano nel concetto di speranza una sorta di filo conduttore quasi da concept-album (l’ispirazione arriva da un componimento del poeta giapponese Kobayashi Issa). Flying Wig mostra un artista sicuramente ancora vivo, ma che sembra aver perso però un filo conduttore per la sua carriera. A novembre comunque arriva in Italia, e vedremo sul palco come queste canzoni si sposano coi suoi classici

VOTO: 6,5

Nicola Gervasini

pullin & the little mice

 

Pulin & The Little Mice

Friends Of Mice

(2022, Pulin & The Little Mice)

File Under: Irish Heartbeat

 

Partiamo da alcuni dati: i Pulin & The Little Mice sono in cinque, ma, se ho contato bene, la schiera di ospiti che hanno contribuito alle quattordici tracce di questo album conta 29 nomi, quasi una mega  jam session in stile West Coast 1967 più che una semplice seduta di registrazione. “We Believe in old time music “ dichiarano dal loro sito, e lo dimostra anche questo loro secondo album che sempre più sposta il focus dal blues e dalla musica Americana tradizionale verso le origini delle terre irlandesi. Quasi tutti i brani sono infatti dei medley di traditionals, che uniscono standard sia americani che d’oltremanica con un effetto del tutto unitario. Pensate ad un tour dei Chieftains a Nashville (ascoltate Viola Lee Blues ad esempio) e centrerete il messaggio. L’impasto di voci creato dai cinque sa di Planxty vecchia maniera d’altronde, così come piace l’alternarsi di molti strumenti tradizionali. Tra gli invitati alla festa organizzata da Antonio Capelli, Marco Crea, Giorgio Profetto, Matteo Profetto e Marcello Scotto, non potevano mancare anche Max De Bernardi e Veronica Sbergia che portano voci, chitarre e washboard nel medley Love Will Ye Marry Me/The Cuckoo’s Nest/Viper Mad e Hammer Ring/John of Badenyon/The Gravel Walks, e va tra gli altri citato il contributo di Luca Bartolini, pare non solo come chitarrista, ma anche  in sede di “scelte incontestabili e definitive ad eccezione quelle con cui non eravamo d’accordo”.  Ne è uscito un divertente bigino di tradizionali ormai fuori dal tempo ma incredibilmente sempre richiesti ed attuali, sia per ballare vecchie gighe (Plains of the Boyle/Good Ole Rebel/Kitty’s Wedding)  che per farsi venire la malinconia (Hanapepe Waltz/After The Ball/Vales des Iles de la Madeleine o anche Ghost Woman Blues), fino al quasi inevitabile finale affidato a Rocky Road to Dublin. Da servire rigorosamente con pinta di Guinness.

THE HIVES

 

The Hives - The Death of Randy Fitzsimmons

2023 – Disques Hives

 

La saggezza degli svedesi Hives nel corso di ben 30 anni di carriera è stata sicuramente quella di pubblicare pochissimo, ma con cadenza abbastanza regolare. Questo The Death of Randy Fitzsimmons è infatti solo il sesto album della loro lunga storia, nata sui banchi di una scuola di Fagersta nel 1993, e che dopo un esordio nato in puro entusiasmo post-Green Day/Offspring nel 1997, ha trovato negli anni 2000 un inaspettato successo sull’onda della longevità che questa musica di stampo “garage-punk” ha continuato ad avere anche nei nostri tempi. Il botto lo fecero nel 2000 con il singolo Hate to Say I Told You So e l’album Veni  Vidi  Vicious , tanto che nel 2001 conquistarono il disco di platino con una raccolta (Your New Favourite Band) che informava il loro nuovo pubblico internazionale su quanto avevano fatto fino ad allora. Il successo discografico è andato via via scemando, tanto che il precedente Lex Hives del 2012 convinse la band a prendersi una pausa dalle sale d’incisioni, anche se l ‘attività live non è mai venuta meno, e chi li ha visti in azione ha sempre parlato di uno show esplosivo  che lascia sempre il segno anche nei vari festival a cui hanno partecipato. E il nuovo album, registrato negli studios degli Abba (l’Abbey Road di Svezia insomma), evidenzia subito il perché la band non ha poi troppo bisogno di pubblicare spesso, visto che la formula della punk-rock-song non richiede grosse variazioni, anzi, in questo caso ancor più che nei lavori precedenti, la band punta su 12 brani a velocità da pogo, 31 minuti con soli due brani oltre i tre minuti e alcuni che non raggiungono i due, insomma niente che un ideale bigino dei Ramones non preveda già. Per cui, a parte l’improbabile esperimento intriso di elettronica di What Did I Ever Do To You, il disco è quello che è, funzionale a rinfrescare il songbook per i concerti dove sicuramente il singolo Bogus Operandi farà bella figura nei gran finali, e dove altri pezzi come una Rigor Mortis Radio piena di battimani o una The Bomb esplosiva di nome e di fatto potrebbero trovare il giusto spazio. Il cantante Pelle Almqvist ha presentato il disco dicendo che “ Il rock'n'roll non può crescere, è un adolescente perpetuo, e questo album sembra esattamente così.”, e così dicendo taglia fuori anche qualsiasi possibilità critica perché alla fine The Death of Randy Fitzsimmons è volutamente e fieramente un album di genere, quindi fedele ad una grammatica che non ammette variazioni, e il “piace/non piace” dipende quasi solo dal fatto se avete o no ancora bisogno di un album che racconta un rock and roll vecchio e sorpassato, eppure uno dei pochi stili che ancora pare fare presa sui giovani immersi in rap e autotune-sound. Per contro, come diceva il buon Dan Baird dei Georgia Satellites, “se ti accontenti di suonare in pubblico solo i vecchi successi senza proporre materiale nuovo stai solo ammettendo di essere un cadavere nelle loro mani”, e direi che con tutti i limiti di un disco che non sposta una virgola la storia, sia la loro che la nostra che quella del rock and roll, The Death of Randy Fitzsimmons è quella dichiarazione di vita e vitalità che è in fondo è il senso finale di tutto questo saltare, urlare e sudare che chiamiamo rock.

Nicola Gervasini

VOTO: 6,5

GRAHAM PARKER

 

Graham Parker & The Goldtops

Last Chance To Learn The Twist

(Big Stir, 2023)

File Under:  Let’s Twist Again

Sule nostre pagine Graham Parker è un po’ come un lontano parente, uno zio d’America direi visto che là si è ritirato, che ogni tanto ci manda la desiderata paghetta sottoforma di un disco nuovo. La cifra è sempre più o meno la stessa, così come uguale è il biglietto di ringraziamento che gli rispediamo con amore e riconoscenza, e soprattutto felici che questa ricorrenza non abbia ancora dovuto interrompersi. La sensazione di essere rimasti tra i suoi pochi parenti a cui mandare la busta è sempre più crescente però, e se non ci fosse una attiva pagina di fans in Facebook a ricordarci che qualcuno in USA  ancora lo segue con gran devozione (mentre la sua Inghilterra pare averlo davvero dimenticato), ci sarebbe da chiedersi per chi canta e suona oggi questo eroe del pub-rock che fu. Non che lui abbia poi fatto molto per rinfrescare il suo seguito, più o meno dagli anni 90 pubblica regolarmente dischi registrati con pochi mezzi e spesso con i soliti amici (dai Figgs ai riformati Rumour, a questi  Goldtops in cui però scopri che ci suonano sempre collaboratori storici come Martin Belmont), senza porsi mai l’obiettivo di avere nuove frecce da scagliare nel mondo discografico. Meglio così da un lato, perché non esiste un suo titolo che non trasudi sincerità e passione, sostenuti dalla sua penna sempre brillante e feroce nel descrivere la realtà. Spiace però che si parli poco di lui anche per quanto di oggettivamente importante ha fatto, perlomeno della sua carriera dal 1976 al 1991, che consiglierei sempre di recuperare in toto. Tutto ciò per dire che anche Last Chance To Learn The Twist non cambierà nulla della storia di questo grande rocker, possiamo al massimo notare che c’è parecchia cura negli arrangiamenti (complice anche una sezione fiati e una di voci femminili che colorano il tutto), e che pare un lavoro meno frettoloso dei predecessori (ha ingaggiato un produttore stavolta, il giovane londinese Tuck Nelson consigliatogli da Nick Lowe, e si sente), anche se, sebbene lui sostenga nel presentarlo che “i miei arrangiamenti conservatori sono stati buttati fuori dalla finestra” (sic), alla fine noi nipotini d’Europa ci ritroviamo nella busta esattamente quello che ci aspettiamo da lui, seppur con rinnovata e invidiabile verve giovanile. E cioè tanta ironia (Cannabis, Them Bugs), una ferocia verso i tempi moderni che molti oggi liquiderebbero come “acredine da boomer” (We Did Nothing, It Mattered To Me), e quella capacità di cogliere il nocciolo dei sentimenti umani che resta il gran valore di quel mix di cuore e ragione che compone da sempre il suo songwriting (Shorthand, Grand Scheme of Things, Since You Left Me Baby). Insomma, diremo una banalità, ma se già siete suoi fans, allora anche questo capitolo pare necessario per sapere che non combattiamo da soli contro il mondo, ma se ancora vi state chiedendo di chi diavolo stiamo parlando, allora ritornate al via, che quando arriverete qui avrete fatto un viaggio bellissimo che un po’ vi invidiamo.

 

Nicola Gervasini

PJ HARVEY

 

PJ Harvey
I Inside the Old Year Dying

(Partisan, 2023)
File Under: To Bring You My Pain

 

Ci siamo presi del tempo prima di parlare di questo I Inside the Old Year Dying, decimo album di PJ Harvey, e sicuramente avremo ancora ulteriore tempo per metabolizzare anche questa nuova uscita, vista la centellinata cadenza con cui pubblica i suoi nuovi lavori. Soprattutto perché questo lavoro è stato descritto un po’ da tutti come ostico e per nulla immediato, lo si è subito paragonato a White Chalk, il suo disco più intimo ed etereo, e forse è proprio dal paragone tra le due opere che possiamo trovare la chiave giusta per inquadrare l’album nella sua discografia. Partendo da una constatazione, e cioè che quando nel 2007 uscì quell’album breve e parecchio discusso, la Harvey attraversava un momento non facile, in cui il parziale insuccesso, sia di critica che di pubblico, del precedente Uh Huh Her del 2004 aveva messo in dubbio la sua statura di artista di primo livello nel panorama internazionale. La critica che più spesso si leggeva in quegli anni è che i suoi continui cambi di stile potevano essere il sintomo di una mancanza di personalità propria ben definita, ed effettivamente non era facile definire quale fosse una ipotetica “canzone alla PJ Harvey” mettendo a paragone anche le sue opera più osannate come To Bring You My Love o Rid Of Me, e il repentino (e forse effettivamente troppo forzato) cambio di rotta di White Chalk, uno di quegli album che si amano o si odiano, non aiutò a risolvere la questione. Lei ha risposto invece nel migliore dei modi, con tre album che, seppur molto diversi tra loro, non permettono più  ai critici di fare riferimenti precisi ad altri artisti (To Bring You My Love pagava pegno al rapporto artistico con Nick Cave, Stories from the City, Stories from the Sea era segnato inevitabilmente  dalla collaborazione con Thom Yorke dei Radiohead), ma sono opere unicamente attribuibili a lei. Per questo se Let England Shake resta il caposaldo della sua raggiunta maturità, e The Hope Six Demolition Project la sua sorprendente evoluzione (non era piaciuto a tutti, ma col tempo sta avendo ragione), I Inside the Old Year Dying è probabilmente il disco che voleva fare da tempo, intimo,personale, scritto e suonato per sé stessa senza minimamente chiedersi quale tipo di pubblico potrebbe apprezzarlo, e soprattutto senza preoccuparsi su come potrebbe un disco che dopo tre ascolti ancora ci si è capito poco, sopravvivere in un era in cui l’ascoltatore medio concede ad un’ artista massimo 30 secondi per decidere se mettere un pezzo in una playlist. Anche perché qui avrei difficoltà ad isolare un singolo brano da un contesto che pare essere una sorta di flusso mentale continuo di emozioni, storie, e suoni (anche qui c’è tutto il suo mondo di chitarre e elettronica, con John Parish che la segue fin dagli esordi e Flood in cabina di regia). Probabilmente un domani non sarà questo lento e tortuoso  I Inside the Old Year Dying il primo disco che nomineremo a rappresentanza di questa grande artista, ma sono già sicuro che sarà il primo disco che consiglieremo da  sentire per chi vuole davvero conoscerla, perché qui c’è davvero tutto il suo sofferto, ostico, ma meraviglioso, mondo.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

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