Elvis
Costello & The Attractions
This
Year’s Model
Si può considerarlo il punto di arrivo, oppure l’inizio di una nuova partenza, ma è certo che This Year’s Model rappresenta uno dei dischi più importanti e influenti della scena pub rock. Costello ci arrivò già da star, visto il gran successo dell’esordio My Aim Is True dell’anno prima, capace addirittura di vendere un milione di copie solo negli Stati Uniti. Ma qui, abbandonati i Clover (ensamble dalle cui ceneri prenderanno poi vita Huey Lewis & The News), che lo avevano seguito nel primo album dandogli una connotazione perfettamente in linea con il genere, nascevano gli Attractions, messi insieme pochi mesi prima per registrare il singolo Watching The Detectives (con ancora Andrew Bodnar dei Rumour al basso), e diventati sua stabile spalla per lungo tempo. Un trio delle meraviglie formato dal pianista Stevie Nieve, ancora oggi uno dei tastieristi più determinanti della musica inglese, con Bruce e Pete Thomas, che col loro suono scriveranno la grammatica di un certo power-pop britannico, qui perfettamente sintetizzato nel micidiale singolo Pump It Up, un brano talmente trascinante da avere avuto versioni in ogni genere, dalla dance all’hard rock. È proprio in quel brano che confluiscono, caso più unico che raro, le influenze americane tipiche del pub-rock, con i nuovi ritmi sincopati della New Wave e la rabbia del Punk, un mix che lo stesso Costello insisteva nel definire una nuova versione di Aftermath dei Rolling Stones. Ma soprattutto qui si confermava il Costello autore, con perle come Lipstick Vogue e Little Triggers e le sue personali visioni dell’amore di Hand in Hand. Prodotto dal solito Nick Lowe, il disco è perfetto in ogni sua parte, dalla fulminea apertura di No Action al primo singolo (I Don't Want to Go to) Chelsea, con testi che gli procurarono non poche critiche di misantropia e misoginia spinte, per la cattiveria di alcuni brani come Lip Service o This Year’s Girl. Un album che contribuì a superare gli schemi del pub-rock più classico, finendo per decretarne in qualche modo la progressiva fine.
Tyla Gang
Yachtless
L’espressione
“Yacht Rock” delimita un genere in voga tra il 1975 e gli anni 80, un soft-rock
che nell’immaginario comune parlava di ricchi che navigavano con i cocktail in
mano,. Il termine però ai tempi non esisteva (è nato in una webserie nel 2005,
ma oggi è stato adottato da molti critici musicali), eppure nel 1977 i Tyla
Gang si inventarono un termine per definire la propria musica che era Yachtless,
(senza yacht dunque), senza saperlo definendo perfettamente la loro lontananza
da quel mondo. Ascoltate i primi 15 secondi dell’iniziale Hurricane e
capirete subito, i Tyla Gang erano lo sporco della working-class che si faceva
rock, fondati da un ex roadie degli Help Yourself finito ad entrare in pianta
stabile della band proprio quando stavano per sciogliersi, e già poi colonna
portante del pub-rock con i Ducks Deluxe. Band di cui i Tyla Gang dovevano
essere inizialmente un side-project di Sean Tyla, ma il moderato successo di
questo esordio ne sancì la fine. La sigla pubblicò poi il meno fortunato Moonproof,
prima poi che Sean decidesse di continuare da solo e da session man (entrerà
nel momento d’oro della band di Joan Jett). Il pub-rock di Yachtless guardava ormai
completamente all’America del hard rock blue-collar di Detroit, si respirava
aria di Bob Seger e Grand Funk Railroad, ma persino dei primi Aerosmith, ma con
nel motore le lezioni britanniche di Rod Stewart e Frankie Miller. Bastò per
fare rumore, un po’ meno per passare alla storia visto che il suo culto rimane
ancora oggi parecchio carbonaro (ha pubblicato anche una autobiografia nel
2010, Jumpin’ In The Fire, ma non la definiremmo un bestseller). I brani di
Yachtless furono pensati per esplodere nelle radio, ma arrivarono quando il
punk già stava andando oltre il rock urbano di On The Street e la New Wave
si sarebbe presto mangiata la scena. In un tripudio di chitarre qui si passa da
echi loureediani di New York Stuff a riffoni da vera band hard rock come
Speedball Morning. Non musica da yacht, ma da mozzi di uno yacht quindi,
con quella sana cattiveria di classe che si è poi persa nel rock and roll, ma
che allora aveva senso sottolineare.
Brinsley Schwarz
Nervous On The Road
Potremmo
dire che i Brinsley Schwarz siano stati la band di punta del pub-rock per far
capire come, se non proprio tutto sia partito da qui, il gruppo sia stato
comunque il cardine intorno al quale ruotò tutta la scena. Quando iniziarono
nel 1969 erano un supergruppo senza saperlo ancora, protagonisti di una
disastrosa partenza pensata per il mercato americano, con due dischi d’esordio sospesi
tra country-rock e amore per i Grateful Dead che vennero stroncati da pubblico
e critica, in più con la fuga dagli States dovuta al fatto che si presentarono
troppo ubriachi ad un concerto in cui dovevano fare da spalla nientemeno che a
Van Morrison. Tornati a bazzicare le strade di Londra nel 1972 (anche se il
disco è registrato in Galles), non si persero d’animo, e con Nervous On The
Road (“But Can't Stay At Home" chiosava il sottotitolo della title-track)
scrissero un po’ il primo vero manifesto della scena. La band era un perfetto
interplay tra il titolare Brinsley Schwarz, chitarrista che aveva capito come trasformare
il gusto degli americani in una pop-song buona per i palati inglesi, un
cantante e chitarrista, Ian Gomm, con un’aria innegabilmente inglese e la
carica degna del miglior Roger Daltrey, e un bassista, Nick Lowe, che stava
lentamente diventando il vero cervello di tutta la scena (sarà poi produttore
decisivo in tal senso). Senza dimenticare il tastierista e sassofonista Bob
Andrews, che con Schwarz poi fonderà i Rumours a seguito di Graham Parker, e il
solido batterista Billy Rankin, che Lowe si porterà appresso in ogni studio di
registrazione, prima che decidesse di lasciare la scena a metà degli anni 80.
Nonostante una copertina che ancora sognava la California, il disco si buttava
a testa bassa già in un rock stradaiolo che restitutiva a tutte le loro
influenze già citate nuovi piccoli classici come It's Been So Long, Don't
Lose Your Grip On Love, e la programmatica Happy Doing What We're Doing,
aggiungendo nel mix anche un po’ di New Orleans (I Like It Like That,
scritta da Allen Toussaint per Chris Kenner), e rockabilly con Home In My
Hand del dimenticato Ronnie Self. Era già tutto qui insomma.
Nessun commento:
Posta un commento