mercoledì 30 settembre 2009

ZACHARY RICHARD - Last Call


14/09/2009
Rootshighway


Quando si ama incondizionatamente un outsider storico come Zachary Richard ci si chiede sempre se farebbe davvero piacere vederlo svettare alto nelle classifiche o diventare un fenomeno di massa, probabilmente assaliti da quella naturale gelosia per quel che consideriamo (detto senza troppa ipocrisia) un artista per "pochi eletti". Per cui vien naturale storcere il naso nel sentire i suoni levigati di questo Last Kiss, con i suoi arrangiamenti facili e le canzoni presto memorizzabili, perché dopo anni di vita ai margini, Zachary Richard sembra proprio aver voluto concepire un disco per tutti i palati. Poi leggi pure che il disco termina con un duetto con Celine Dion e si viene colti da improvviso terrore per quello che ci aspetta. Niente paura però, Last Kiss è semplicemente un disco pensato per uscire dalle acque di New Orleans senza perderne troppo il ricordo, un pantano che il precedente Lumiere Dans Le Noir aveva descritto nel migliore dei modi.

E' un disco fatto da canzoni di origine cajùn molto semplici, in cui Zachary esibisce tutta la sua migliore verve melodica, come non lo sentivamo fare perlomeno dai tempi dei suoi album più "radiofonici" e "anglofoni" come Women in The Room o Snake Bite Love. E tranquillizzatevi: è pur vero che la cover di un testo supremo come Acadian Driftwood della Band porta per la prima volta nelle nostre discografie l'odioso canto di Celine Dion (non è la prima volta?...ahi ahi!), ma è pur vero che la versione è degna (produce in questo caso il vecchio volpone Larry Klein) e rispettosa del suo significato (Zachary e Celine l'hanno cantata nel corso delle celebrazioni della fondazione del Quebec), e la Dion fortunatamente dimentica Las Vegas e canta in maniera convinta e senza strafare. Per il resto troverete qui un concentrato pronto all'uso di tutta l'arte di Zachary Richard, dal convincente singolo Dansè che apre le danze (appunto…) fino all'emozionante title-track, passando anche per alcune ottime prove d'autore come The Ballad of C.C. Boudreaux o Sweet Daniel , dove però l'uso della lingua inglese sembra sempre frenare qualche emozione in più.

Per il resto i suoni confezionanti con il pur brano pianista David Torkanowsky lasciano un po' nell'anonimato brani come Some Day o Come To Me, mentre con il coro di The Levee Broke si sfiora anche quel kitsch che si temeva leggendo il nome della Dion nei credits (e invece lei non c'entra in questo caso, vedete a volte come ci si sbaglia con simili pregiudizi…). In ogni caso con Last Kiss Richard sarà ben lungi dal diventare famoso, ma potrebbe davvero rilanciare una carriera che lo vedeva ormai recluso tra i giunchi della propria terra. Ma se volete conoscere la sua vera musica, allora indirizzatevi verso dischi come Cape Enragè o i suoi classici degli anni '70, giusto per capire che di questa versione un po' spolverata e tirata a lucido se ne ha bisogno più per amore del personaggio che per vera necessità.
(Nicola Gervasini)

martedì 29 settembre 2009

STAMMER LEE - Victorietapes


Settembre 2009

Rootshighway


E' un vero simpaticone questo Leo De Vlieger, olandese dalla voce profonda che tenta di nascondere le proprie origini europee sotto lo pseudonimo di Stammer Lee. Artista innamorato della musica americana più dark e autoriale, Lee è una specie di polistrumentista dedito ad un ossessivo fai da te del rock, fino all'eccesso di essersi costruito per le esibizioni dal vivo uno strano aggeggio (denominato "foot drum kit") grazie al quale può suonare batteria e chitarra contemporaneamente. (quando suona con una band, si presenta comunque come "gli" Stammer Lee). Facile immaginare quindi com'è nato questo Victorietapes, registrato in quasi totale solitudine nel suo studio casalingo, e sorta di piccolo incrocio tra il Tom Waits più ubriaco e il Nick Cave più rumoroso, con spruzzate di country in salsa olandese che trovano nella stravolta cover di Alone And Forsaken di Hank Williams la propria apoteosi. Undici brani in cui Stammer Lee prova, anche riuscendoci, a divertire con brani sbilenchi che sanno molto del nostro Capossela (Some Day Soon), forti echi dei Bad Seeds (Like Rain), folk minacciosi (Long Time Sitting Down), ballate alla Steve Wynn lacerate da assoli rumoristi (No Reason To Leave) e tanti altri numeri da circo di un artista che cerca lo spettacolo più che la creazione. Derivativo per volontà e scelta programmatica, Victorietapes finisce per essere un giocattolino curioso, anche se la voglia di trastullarcisi è poco duratura, giusto magari il tempo di muovere un po' il sedere all'irresistibile ritmo di Rock And Roll Monkey e annotarsi il nome per un eventuale capatina ad un suo concerto al primo viaggio ad Amsterdam che vi capiterà di fare. (Nicola Gervasini)

venerdì 25 settembre 2009

IAN HUNTER - Man Overboard


03/08/2009
Rootshighway


Pur augurando a questo baldo settantenne altri trent'anni di salute e dischi di tal fatta, ci azzardiamo a dire che Man Overboard potrebbe anche chiudere (con il botto…) il ciclo artistico di Ian Hunter. Dopo i fasti dei Mott The Hoople, ingiustamente noti ai più solo grazie ad uno scarto di magazzino del Duca Bianco Bowie, l'ispirazione di Hunter era sempre rimasta in bilico tra la madrepatria britannica e una terra americana che lo attraeva, ma che lo ha sempre ignorato e ritenuto un "alieno". L'album All-American Alien Boy nel 1976 arrivava a questa conclusione partendo proprio da un'accorata lettera alla propria terra d'origine ridotta in macerie (Letter To Britannia From The Union Jack era il triste brano che apriva il disco). Poi sono arrivati il "disco americano" (You're Never Alone With a Schizophrenic, con mezza E-Street Band al seguito), il tuffo nella new wave di casa (Short Back 'n' Sides) e di nuovo oltreoceano per la deriva nell'FM statunitense di Yui Orta, salvo poi varcare ancora La Manica per il folle progetto di Dirty Laundry, album concepito casualmente con alcuni rimasugli del punk inglese. Ora l'alternanza sembra essersi interrotta, perché dopo gli atti di rabbia e definitivo rifiuto per il decadente Regno Unito post-tatcheriano (Rant del 2001) e per l'America di Bush Jr. (Shrunken Heads del 2007), ben rappresentati dai due testi più disgustati della sua carriera (in Ripoff l'Inghilterra era vista come un lusso che nessuno può più permettersi, Soul Of America negava addirittura un'anima alla nazione americana), stavolta la palla sarebbe dovuta ripassare alla sfera britannica.

Invece Man Overboard non solo resta in America, ma si accasa stabilmente, trova alla sua musica una dimensione definitiva. Il Dylan in lui ha vinto sui Kinks che gli rullano da sempre nel cuore si potrebbe dire, o semplicemente per la prima volta nella sua carriera, a parte il duraturo matrimonio artistico con il chitarrista Mick Ronson, Hunter sembra aver trovato un gruppo di musicisti con cui collaborare stabilmente e condividere non solo un paio di fugaci sessions. Il sodalizio produttivo con Andy York (chitarrista spesso al servizio di Willie Nile e John Mellencamp) iniziato con il disco precedente pare ormai qualcosa di più di un semplice vezzo di sfruttarne le esperienze a 360 gradi in termini di rock americano, quanto una piena unitarietà di intenti che qui arriva a sfornare alcune delle sue migliori ballate come la title-track tirata a folk o la finale River Of Tears, che sfoggia un baldanzoso piano alla Bruce Hornsby. L'addio al suo adorabile rock and roll esagerato, cafone e pomposamente glam-rock sembra dunque irreversibile, e se Shrunken Heads sembrava un tipico disco di Ian Hunter bagnato nelle acque del Mississippi, Man Overboard è un tipico disco di riflessivo e intimista heartland-rock realizzato da Ian Hunter, e la differenza davvero non è irrilevante.

E' importante notare anche che ben tre brani (Man Overboard, l'intensa The Great Escape che apre nel migliore dei modi le danze e Babylon Blues) provengono dalle sessions del disco precedente, ma vennero escluse per il loro tono troppo personale. Hunter stesso spiega che l'avvento di Barack Obama ha fatto venire meno la voglia di combattere perché, almeno nelle premesse, "sembra un ragazzo a posto", ma non è venuta certo meno la voglia di raccontare se stesso (These Feelings e Win It All), magari anche attraverso romanze popolari che non gli sentivamo raccontare da tempo (Girl From the Office). Il ritmo dell'album è volutamente lento, e i momenti di divertimento come Up And Running o la melodica Arms And Legs badano più ai suoni che all'energia. "Nuovo Hunter", "Hunter-Roots" o "Ultimo Hunter" che sia, Man Overboard è un bellissimo disco di un uomo che sembra essere finalmente approdato nella sua "Isola Che Non C'è" dopo anni di viaggi e battaglie.
(Nicola Gervasini)

lunedì 21 settembre 2009

JOHN FOGERTY - The Blue Ridge Rangers Ride Again



09/09/2009
Rootshighway


La sfacciataggine con cui John Fogerty continua a ribadire che il suo presente non è altro che un "dejà vù" o un "revival" del passato ha raggiunto il suo apice con la scelta di far cavalcare ancora i suoi Blue Ridge Rangers. La storia è nota a tutti i suoi fans: nel 1973 la sua prima dichiarazione di indipendenza dai Creedence Clearwater Revival fu quella di registrare un disco di cover di classici country e spirituals (operazione oggi abusata, ma che allora poteva anche sembrare rivoluzionaria), un album inizialmente accreditato a dei fantomatici Blue Ridge Rangers, che altri non erano che il solo Fogerty in versione polistrumentista. The Blue Ridge Rangers Rides Again recupera quell'idea e la grafica di copertina, e se da una parte spiace dover constatare che anni di sfiancanti lotte legali per essere libero e padrone delle sue produzioni si stiano infine risolvendo in una serie di dischi utili solo ad intrattenere i nostalgici, va detto che perlomeno il poter sfruttare la bontà del materiale altrui rende il tutto gratificante all'ascolto.

Chi ha potuto verificare di persona quanto sul palco il buon Fogerty non tema rivali nonostante l'età (ma guarda caso per poterlo dimostrare deve evitare accuratamente di eseguire i brani più recenti…) potrebbe rimanere deluso stavolta: qui non c'è nessun muro di chitarre rock, ma undici pigre ballate country, più una nuova versione della sua Change In The Weather, messa giusto per non far perdere il ricordo del suo suono più tipico (l'originale era uno dei pochi momenti memorabili di Eye Of The Zombie del 1986). Facendosi aiutare stavolta da uno stuolo di scafati session-men (Buddy Miller e Kenny Aronoff tra gli altri), Fogerty azzanna con convinzione alcuni evergreen della country-music come la scanzonata Never Ending Song Of Love scritta da Delaney Bramlett, un successo del duo Conway Twitty-Loretta Lynn prima ancora che del duo Delaney & Bonnie, le saltellanti I'll Be There e Fallin Fallin Fallin (rese note da Ray Price), oppure Heaven's Just A Sin Away, o Moody River, vecchie hit rispettivamente dei Kendalls (ne esiste una buona versione di Kelly Willis) e di Pat Boone. Ci sono anche riletture più impegnate come l'immortale Paradise di John Prine che apre il disco, una sempre toccante Back Home Again di John Denver o la I Don't Care che fu di Buck Owens.

Degna di menzione è la splendida Garden Party, vecchio successo di Ricky Nelson, riproposta in versione fedele con l'aiuto degli Eagles Don Henley e Timothy B. Schmit, mentre la When Will I Be Loved degli Everly Brothers, condotta con un Bruce Springsteen un po' sulle sue, lascia l'amaro in bocca, visto che dall'atteso incontro di due tra i più travolgenti performer della storia rock era forse lecito aspettarsi qualche scintilla in più. Un pugno di brani tendenzialmente sempre molto allegri, suonati perfettamente e con stile impeccabile: c'era da aspettarselo esattamente così questo disco, a voi la scelta se questo sia un bene o un male.
(Nicola Gervasini)

sabato 19 settembre 2009

DARE DUKES - Prettiest Transmitter Of All


Settembre 2009
Rootshighway



Con un certo ritardo sulla data di pubblicazione segnaliamo l'interessante uscita di questo Prettiest Transmitter Of All di Dare Dukes, ultimo arrivato di un mondo di sofferti folk-singer alla Sparklehorse o Will Oldham, giusto per tirare in ballo gli stessi nomi citati da lui. L'album (o semplice EP, vista la breve durata di 31 minuti) vede questo giovane di Savannah giocare a fare il nuovo Micah P. Hinson (la voce lo ricorda) infarcendo scarne folk-song notturne di archi, fiati sbilenchi e piccole invenzioni da studio di registrazione, ricorrendo intelligentemente ad alcuni buoni session-men della zona. Tra i sette brani presentati piacciono subito l'iniziale Ballad Of Darius McCollum, vera storia di un uomo ossessionato dai treni e dalla velocità, così come il violoncello che fa volare alto Lucas Goes To The Demolition Derby, dove la metafora sulle macchine, dalla velocità vista come unica possibilità di vivere intensamente, passa direttamente alla distruzione ("Dio ama i suoi figli per la loro totale mancanza di paura" è il commento ad una storia di uno stunt-men-show finito in tragedia). Il resto invece rimane ancora un po' sospeso tra la voglia di normalità rock (From A Plane fa riaffiorare un suo passato da fan dei Soul Asylum), la ricerca del colpo d'autore (Bakersfield) e l'indecisione se diventare da grande il nuovo M Ward (Kick + Holler) o il figlio artistico di Vic Chesnutt (Sam's Cathedral). Piccoli assaggi ancora acerbi di quel che sarà forse, ma che mettono comunque in evidenza una penna già notevole. Dategli un ascolto e segnatevi il nome per il prossimo decennio.(Nicola Gervasini)

mercoledì 16 settembre 2009

TAKEN BY TREES - East Of Eden


Settembre 2009
Buscadero


Ci ha preso gusto Victoria Bergsman con la sua nuova creatura discografica, creata grazie ad un’etichetta sempre attenta alle novità come la Rough Trade. Dietro la sigla Taken By Trees si cela infatti proprio questa eterea vocalist svedese, che qualche attento conoscitore della nuova scena scandinava ricorderà per la lunga militanza (circa dieci anni) con gli interessanti Concretes. East Of Eden è il secondo disco licenziato dalla Bergsman sotto queste mentite spoglie all’indomani dell’abbandono del gruppo avvenuto tre anni fa, e arriva a confermare (e in qualche caso ad espandere) la visuale musicale già prospettata nel primo capitolo (Open Field del 2007). Basta anche la copertina di questo disco per capire l’atmosfera che regna: suoni rigorosamente acustici, grande uso di percussioni (l’incalzante Watch The Waves ne presenta almeno dieci diverse), flauti, e la scomparsa degli archi usati spesso in passato. Un suono molto minimale, degno del nuovo risveglio brit-folk mondiale, qualcosa che sta in mezzo agli sperimentalismi degli americani Espers e le incantevoli melodie dei connazionali Amandine. East Of Eden è un album breve (32 minuti, ma di più sarebbe stato difficile non deragliare nella noia, visto il basso ritmo delle canzoni), che alterna belle e armoniose canzoni (la dolce Anna o My Boys) a soluzioni più azzardate che necessitano di più ascolti per entrare in circolo (il finale di Bekannelse o Tides Gang ad esempio). Victoria punta molto sulla propria voce, in grado di riempire le frequenze senza troppe aggiunte di strumenti, come dimostra fin dall’iniziale To Lose Someone (che melodicamente ricorda un po’ Like An Hurricane di Neil Young) o nel gioco di parole di Greyest Love Of All, che non è una sorta di parodia in chiave indie-depressa della Greatest Love Of All di Whitney Houston (anche se non è esclusa la voluta ironia), ma è una bella e triste canzone d’amore in puro stile nordico. Non tutto regge al tempo (Day By Day annoia, Wapas Karna, con i suoi vocalizzi, arriva anche ad essere fastidiosa), ma fortunatamente East Of Eden ne chiede poco, giusto quello necessario per sognare un poco prima di svegliarsi nel mondo reale, dove dischi come questo possono vivere solo grazie alla passione e all’amore di qualche fedele adepto. E non è detto che ascoltandolo non vogliate diventare uno di loro anche voi.
Nicola Gervasini

domenica 13 settembre 2009

CHRIS GARNEAU - El Radio


Settembre 2009
Buscadero


Fece tanto rumore nelle piccole stanze del mondo indipendente Chris Garneau due anni fa con il suo disco d’esordio Music For Tourists. Questo giovane di Boston trapiantato nel New Jersey (ma cresciuto a Parigi nel frattempo) ha subito colpito per il suo particolare stile melodico, contrassegnato il più delle volte dal suo pianoforte e da una voce che viene spesso accostata a quella di Rufus Wainwright per quella condivisione del modo di trattare la materia canzone e – dicono loro stessi - abitudini sessuali (scadiamo anche noi nel puro gossip per una volta…). El Radio è l’atteso seguito di un disco che aveva diviso parecchio la critica, e Garneau sembra aver voluto sfidare quei detrattori che ne sottolinearono l’eccessiva leziosità e un barocchismo al limite del sopportabile. Se un’evoluzione rispetto all’esordio c’è stata, è stata indirizzata ancor più verso i classicismi del suo canto iper-impostato e sonorità ancor più estetizzanti. El Radio si struttura come una sorta di concept, 12 brani equamente divisi in quattro capitoli che altro non sono che le quattro stagioni (April Showers, Il Fait Chaud, In Autumn e Winter Songs sono i sottotitoli). Garneu è sicuramente artista capace di giocare con le note e le sue ottime possibilità vocali, e mette subito alla prova l’ascoltatore iniziando con i toni drammatici di The Leaving Song prima di approdare al vaudeville di Dirty Night Clownes, canzone che si nutre di miti nordici al limite del plot da film dell’orrore. E via così di questo passo, in un viaggio indubbiamente affascinante tra gli incubi e i sogni di un piccolo elfo del pop, una voce celestiale che riesce ad ammaliare non poco quando coglie la giusta linea melodica (Hands On The Radio ad esempio) o quando assume il tono fanciullesco che rende No More Pirates una pop-song veramente deliziosa, con un tema sottolineato dai fiati che è difficile togliersi dalla testa. Purtroppo più le stagioni s’ingrigiscono, più il freddo cala anche su molte canzoni, e così la parte autunnale si perde nella ripetitività di Homemade Girls o nelle promesse non mantenute dalla lunga Over And Over. Finale più di spessore con Things She Said e una versione più rallentata di No More Pirates che convince quasi quanto la prima, ma ormai dopo quarantasette minuti Chris sembra aver esaurito la sua occasione di convincere appieno. El Radio probabilmente sarà una conferma per chi già aveva amato il primo album, per gli altri potrebbe diventare una fermata saltuaria in un intrigante mondo onirico nel quale è difficile perdersi del tutto, e dal quale prima o poi si ripartirà in cerca di emozioni più penetranti.
Nicola Gervasini

venerdì 11 settembre 2009

KENDEL CARSON - Alright Dynamite


28/08/2009


Rootshighway


Tra i tanti esordi ad effetto del mondo della canzone country al femminile, quello di Kendel Carson di due anni fa (il sempre consigliabile Rearview Mirror Tears) è stato sicuramente uno dei più appetitosi. Lei è una bella e brava violinista che ha pure la fortuna di avere una voce deliziosa, seppur senza particolarità immediatamente riconoscibili, e che realizzò allora un bel disco pieno di canzoni che stuzzicavano non poco l'immaginario mitico/erotico da strada (basta ricordare il fortunato singolo I Like Trucks, sorta di manifesto da ragazzaccia pronta a consumare vita e amori sui bisonti della strada). Alright Dynamite arriva a distanza di due anni per monetizzare tanti complimenti, confermando lo stesso team produttivo del precedente disco, guidato dal songwriter e produttore Chip Taylor, ma già fin dal primo ascolto i dubbi e le perplessità di ieri diventano le certezze di oggi. Non che sia un brutto album, ma la formula creativa, che vuole Taylor autore di tutti i brani (solo in quattro casi la Carson interviene sui testi) e incontrastato "deus ex machina" musicale, continua a dare l'impressione che lei non sia altro che un bel giocattolino senza troppa anima nelle mani di uno scafato artigiano della canzone americana. La dimostrazione arriva anche dalla scellerata decisione di farle eseguire Mercedes Benz di Janis Joplin, che fu guarda caso l'interprete di Try (Just a Little Bit Harder), uno dei brani più famosi scritti da Taylor. La cover in questione sembra così un patetico tentativo di ricreare i bei giorni andati sfruttando la freschezza di una ventenne, con i rovinosi risultati che si possono immaginare, visto che la versione si fa apprezzare per la lettura in chiave country, ma si fa ben dimenticare per la scipita interpretazione della Carson. Inoltre, dopo una prima parte convincente in cui Taylor tira fuori dal suo cilindro alcune divertenti canzoni come Belt Buckle con i suoi fiati o emozionanti prove di songwriting come Lady K e Seven Shadows On My Golden Roses, il disco si siede anche nella sostanza, risolvendosi in troppi routinari episodi da birbanti nashvilliani più che da veri outlaws (Jesse James, Ooh That Dress, Ten Lost Men,…). Niente di male in fondo, Alright Dynamite serve probabilmente solo a confermare che in città abbiamo una nuova ragazza in grado di accendere il pubblico con i suoi bei concerti e i bollori maschili con lo sguardo conturbante furbescamente sfoggiato in copertina, ma che pare più interessata ad accontentarsi di spassarsela con "divertissement" da bar come la saltellante New Shoes o la rockeggiante Submarine, piuttosto che a diventare un nuovo punto di riferimento e crescere magari anche come autrice. La svolta futura potrebbe essere quella di dimostrare di che pasta è fatta abbandonando l'ala protettrice di Chip Taylor, che sarà pure l'uomo che ha scritto Wild Thing dei Troggs, ma appare in questo caso una presenza troppo sovrastante e non particolarmente ispirata. (Nicola Gervasini)

martedì 8 settembre 2009

AMONG THE OAK & ASH - Among The Oak & Ash


24/07/2009
Rootshighway

Il concetto che sta alla base di questo primo disco di un duo che si fa chiamare Among The Oak & Ash è interessante. Il chitarrista e cantante Josh Joplin (5 album al suo attivo come solista) afferma che rispetto a molte simili operazioni che rivisitano la tradizione folk e bluegrass dei monti Appalachi (ne siamo stati letteralmente sommersi in questi anni…), questa loro opera prima non ha cercato a tutti i costi di ricreare il vecchio suono di un tempo. Alla base della scelta non c'è tanto una programmatica intenzione di avanguardia, quanto la perspicace constatazione che gli eroi del folk e delle work-songs degli inizi del secolo scorso erano tutt'altro che dei tradizionalisti o gente che guardava al passato. Per cui per meglio commemorarli anche nello spirito, questo disco parte sì dalla tradizione, offrendo 10 rivisitazioni di traditionals americani, ma cerca anche di svilupparli in un modo fresco e moderno.

Basta ascoltare le energiche riproposizioni di Peggy-O e Angel Gabriel, dove furoreggia il misto di chitarre acustiche ed elettriche realizzato con la compagna di avventura Garrison Starr (lei di album ne ha fatti sette, su queste pagine avevamo consigliato il suo The Sound of You & Me del 2006). Joplin e la Starr (curiosa anche la non voluta liaison a sesso invertito di due cognomi storici del rock) intrecciano note e voci in una serie di brani arcinoti per i cultori del genere (Shady Grove e The Water Is Wide sono talmente dei testi sacri ultra-rivisitati che anche queste versioni non riescono a sviluppare nuove rivoluzionarie letture) ad altri meno popolari (la bellissima All The Pretty Little Horses è uno dei regali più belli del disco, mentre un'elettrica distorta dona tono alla convincente rilettura della outlaw-story di Hiram Hubbard). Molto simile a quello che potrebbe essere un disco di cover realizzato dai Blanche, l'album scivola senza troppi intoppi, se non un paio di brevi frammenti di poca importanza (il minuto a cappella di Pretty Saro offerto da Joplin e i cinquanta secondi di Come All You Young And Pretty Ladies proposti senza lasciare segni dalla Starr) fino alla classicissima folk-song (e di fatti poco stravolta) Look Down That Lonesome Road.

Nel finale c'è spazio per due canzoni autografe: Josh scrive una sentita Joseph Hillstrom 1879-1915, omaggio al re delle working-songs di protesta Joe Hill, mentre assieme costruiscono il bel finale in puro stile cantautoriale di High Low & Wide. C'è tempo per una bonus-track rivelatoria quanto provocatoria, una rilettura in chiave di robusto roots-rock di Bigmouth Strikes Again degli Smiths, testo forte ("La mia boccaccia ha colpito ancora, quindi non ho diritto ad un posto nella razza umana" cantava il Morrissey che fu) che ribadisce alla perfezione una vecchia idea espressa anni fa da Joe Strummer: "scrivo canzoni di protesta, dunque sono un cantante folk con la chitarra elettrica".
(Nicola Gervasini)

domenica 6 settembre 2009

MARIACHI EL BRONX - El Bronx


Settembre 2009

Buscadero


Dei tanti crocevia della musica americana, Los Angeles resta lo scenario più variopinto e indefinibile. Una metropoli in cui negli anni ’80 convivevano senza troppo darsi fastidio i nuovi eroi del punk americano e quelli del revival dei sixties più lisergici del Paisley Underground, ma anche una terra vicina al border messicano. I Bronx, a dispetto del nome di matrice newyorkese, sono “just another band from LA” per dirla come la direbbero i Los Lobos, ma il paragone con la band di David Hidalgo era fino a pochi mesi fa assolutamente improbabile, visto che la band capeggiata da Matt Caughthran è dedita fin dal 2003 al più puro hardcore-punk di matrice californiana. Ma bastava aspettare solo qualche anno perché Los Angeles influenzasse anche questi ragazzi con i suoi mille suoni, e così eccoli uscire a sorpresa con un make-up da vera mariachi-band e offrire un disco che così tradizionale e conservatore gli stessi Los Lobos non lo propongono per lo meno dai tempi di La Pistola Y El Corazon. I Mariachi El Bronx sono dunque quella stessa band dedita al rock selvaggio che ha deciso di imbracciare fisarmoniche e mandolini per offrire un disco che offre tutto il brio e il romanticismo tipico di un genere che qui in Italia qualcuno scambia ancora per liscio romagnolo. El Bronx, oltre ad essere un disco piacevole, ben suonato e per nulla campato in aria, è anche un disco intelligente, perché i Bronx non si sono limitati a scimmiottare uno stile che sa molto di folkloristico, traendone solo una caricatura delle rigide regole melodiche che il tipo di suono richiede, ma si sono anche prodigati nella scrittura di canzoni che si dimostrano più che valide. E così Despretador o Sleepwalking appaiono subito come brani alquanto ispirati, mentre è in episodi come Silver Or Lead, con i suoi fiati che fanno tanto Demasiado Corazon alla DeVille, che la festa si fa calda, seppure musicalmente sempre prevedibile. El Bronx è dunque album figlio di un suono, uno di quei dischi di genere che bisogna già amare a priori, ma se siete intenzionati già culturalmente ad un bel viaggio verso il Messico, brani come la outlaw-song My Brother The Gun con il suo fare epico da film su Zorro o l’enfasi religiosa da domenica mattina assolata di Holy sono la giusta colonna sonora. La follia del progetto è certificata dal fatto che la band ha provato a presentarsi dal vivo in questa veste in un tour australiano, lontano forse dalle orecchie dei severi puristi di casa, ma soprattutto dal fatto che poi a produrre il tutto sia stato chiamato un vero freak come John Avila, uno che nella carriera ha fatto da bassista negli Oingo Bongo (erano l’assurda band del famoso soundtracks-writer Danny Elfman) e nella band di Steve Vai, ma ha dato anche la voce a Pippo nelle canzoni dei cartoni della Disney. El Bronx è nato per scherzo, ma crescendo è diventato un disco serio e una festa da non perdere.
Nicola Gervasini

giovedì 3 settembre 2009

MICHAEL CARPENTER - Redempion #39


05/08/2009
Rootshighway


In un suo vecchio disco (Gadzooks!!!) l'irriverente Mojo Nixon si vantava nelle note di copertina di aver suonato tutti gli strumenti di uno dei brani dell'album proprio come era solito fare Prince. Peccato che poi si scopriva che la canzone in questione (Go Back Home) fosse uno sgangherato simil-traditional suonato con un paio di acustiche quasi scordate, accompagnate da rumori percussivi di dubbia provenienza. Quella goliardica presa in giro del mito del one-man-band-artist sarebbe quanto mai attuale anche oggi, anni in cui il chiudersi in una sala di registrazione (che spesso coincide con la sala della propria casa) e registrare tutti gli strumenti è diventata un'abitudine che secondo molti dovrebbe anche regalare valore aggiunto. Nella trappola ci casca anche l'australiano Michel Carpenter, nostra vecchia conoscenza fin dai tempi in cui con album come Kingsrdworks e Rolling Ball aveva regalato bei momenti di veloce e melodico power-pop moderno.

Sarebbe forse potuto essere il Matthew Sweet degli anni 2000, se non fosse che Redemption #39 esce dopo un lungo silenzio (cinque anni) con molte buone canzoni, ma una produzione autarchica senza troppi colpi di genio, che lascia poche possibilità di riportare in auge il personaggio. Registrato nei propri studi di Sydney in ben tre anni di prove e sovra incisioni, Redemption #39 riprende il discorso senza troppi scossoni rispetto al passato, se non una scrittura più matura e autobiografica, sparando un trittico iniziali di godibilissime pop-song (una Can't Go Back che abusa di jingle-jangle sounds, una ispirata title-track e il puro blue-collar rock di Workin'For A Livin') che dimostrano che tanto minuzioso lavoro non è stato comunque vano. E quando con I'm Not Done With You Michael ha in canna la migliore cartuccia in termini di perfezione melodica (una di quelle canzoni a metà tra Costello e roots-rock che il Freedy Johnston di dieci anni fa produceva con eguale facilità), si ha la sensazione che l'album possa volare alto.

Poi però iniziano gli esperimenti e qualcosa scricchiola: The King Of The Scene ad esempio è una parodia/imitazione dei Queen, con Carpenter che si diverte a ricrearne perfettamente i cori e le schitarrate di Brian May, strabiliante prova di bravura quanto fastidioso intermezzo, come lo potrebbe essere una vera canzone dei Queen piazzata a tradimento in un disco stilisticamente agli antipodi. Dopo un altro episodio non indimenticabile (Don't Let Me Down Again), la festa ricomincia con Middle Of Nowhere e I Want Everything, piccoli vademecum del buon pub-rocker di razza, fino alle finali Falling Down (Graham Parker meets Tom Petty?), Sinking (Blur meets George Harrison?) e Til The End Of Time (REM - epoca Out Of Time - meets Ryan Adams?). I giochi al rimando vi indicano già che qui la forza la fanno le melodie e le belle chitarre, mentre l'originalità latita, come è forse giusto che sia per un disco di fun-rock fatto da un quarantenne con tanta voglia di suonare la stessa musica dei tempi del college.
(Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...