domenica 30 maggio 2010

APPLES IN STEREO - Travellers In Space And Time


Se le vie della contaminazione e dell'eclettismo musicale a tutti i costi sono davvero infinite, gli Apples In Stereo sono sicuramente una delle band dell'ultimo ventennio che più ha tentato di viaggiare nello spazio e nel tempo per cercare quel limite impossibile. D'altronde questa formazione americana è nata nel 1992, uno degli ultimi anni sacri della creazione rock, tempi in cui nell'underground del mercato discografico il rock indipendente e il mondo dell'elettronica (se non proprio dei disc-jokey visto che erano gli anni in cui si sviluppava anche il big beat dei Prodigy e dei Chemical Borthers…) cominciavano a flirtare con alcuni risultati di indubbio interesse. Da allora la band è rimasta sempre sotto l'ala del leader Robert Schneider, vero padre-padrone di un gruppo che ha visto molte defezioni e che per questo settimo capitolo della saga (Travellers In Space And Time appunto…) acquista come membri fissi ben tre new entries (John Dufilho, Bill Doss e John Ferguso).

Tornati a far parlare di sé dopo un lungo silenzio nel 2007 con il come-back album
New Magnetic Wonder, album di buon successo che ha spinto la Yep Roc a pubblicare lo scorso anno la loro prima raccolta di successi (#1 Hits Explosion), Travellers In Space And Time continua sulla strada di un rock indipendente fatto di brani brevi e incisivi di matrice power-pop, infarciti di elementi tipici della dance e dell'elettronica (non metteremmo più la parola "moderna", visto che certe soluzioni cominciano ad avere vent'anni buoni e nuove certo non sono). Il disco presenta 16 titoli, un bel tour de force tutto ritmo (Dance Floor) e viaggi nello spazio da b-movie (C.P.U. sembra uno di quegli esperimenti tutto circuiti e robotica che si ascoltavano spesso nei primi anni 80), ma anche di piacevoli pop-song (No One In The World) che evidenziano, in tutta la loro finta leggerezza, la passione mai nascosta della band per il mondo musicale dei Beach Boys, o addirittura riff rock rubati agli Who di Can't Explain (Dignified Dignitary).

Impossibile in questa sede citare tutti i brani, alcuni episodi come
No Vacation, Nobody But You o Dream About the Future sono evidentemente il frutto di mille idee e ripensamenti in fase di produzione, e forse meriterebbero più attenzione e il giudizio del tempo per capirne l'effettiva portata, ma l'impressione generale è che questo sia un disco di una band ormai entrata nel novero degli "storici" che semplicemente continua a professare quel verbo nato tra i dischi degli Style Council, evidentemente consumati in gioventù, e più recentemente degli Air. Se possa essere di vostro interesse e godimento dipende solo da dove eravate e cosa stavate ascoltando 15 anni fa.
(Nicola Gervasini)

Rootshighway 17/5/2010

mercoledì 26 maggio 2010

DAVID OLNEY - Dutchman's Curve


C'è un certo timore reverenziale quando ci si cimenta a dare un giudizio su un'uscita discografica di David Olney, perché chissà come mai non si riesce a scrollarsi di dosso l'idea che questo ultrasessantenne di Rhode Island abbia raccolto in carriera davvero poco rispetto a quanto ha seminato. Non stiamo parlando di un nome di punta del songwriting americano, e probabilmente se un Townes Van Zandt in vita ha sempre venduto poco quanto lui, ma ricevuto ben altri onori da colleghi e critica musicale, c'è un perché, però è indubbio che l'uomo susciti una naturale simpatia. Dutchman's Curve (che non proviamo neanche a dirvi che numero di disco sia per non doverci addentrare nelle tante edizioni della sua difficoltosa discografia, ma siamo abbondantemente oltre i venti titoli in carriera) è probabilmente il miglior esempio del suo spessore artistico, che potremmo definire "lussuosamente di secondo piano".

Olney infatti difficilmente scrive canzoni inutili e raramente dimentica di metterci il giusto pathos, sia quando risponde alla Vincent di Don McLean con una egualmente ispirata (ma ovviamente impossibilitata a divenir cotanto classico) Mister Vermeer, dedicata all'altro gigante della pittura olandese, sia quando gioca con lo swing di I'Ve Got A Lot On My Mind, ma anche questo pugno di 13 brani conferma quanto sia bravo soprattutto quando si cimenta in delicate ballate come The Moment I Tell You Goodbye, ma non il più bravo in un genere dove John Prine o Guy Clark (per citare i primi due che vengono in mente cercando nel file "similar artists") sanno dire sempre qualcosa in più. In ogni caso Olney qui ha giocato intelligentemente sulla varietà di stili, toccando addirittura corde aspre alla Steve Earle (Way Down Deep), esperimenti sospesi tra hillbilly e doo-wop (If I Were You e I Only Have Eyes For You) e strani esperimenti di blues (You Never Know). Ad aprire il disco è Train Wreck, brano dedicato al più grande incidente ferroviario degli Stati Uniti datato 1918, anno in cui 282 persone morirono nello scontro di due convogli nella famigerata Dutchman's curve, una stortura della corsa alla civilizzazione americana che Olney ritiene quanto mai attuale.

Il produttore Jack Irwin ha lavorato molto bene sugli arrangiamenti ancor più che sui suoni, riuscendo a dare movimento a tutti i brani inserendo fiati, violini, cori, e contando comunque molto sulla chitarra di Sergio Webb nei momenti in cui riteneva necessaria più elettricità. Resta la sensazione che troppo spesso però i suoi interessanti testi siano al servizio di un certo manierismo che gli impedisce di uscire dal rigido steccato del mondo del songwriting americano, ma probabilmente è che lui stesso non ha nessuna intenzione di farlo. Per questo Dutchman's Curve è fortemente consigliato solo se fate già parte di quel mondo e magari avete ancora l'ottimo The Wheel del 2003 nel lettore cd, altrimenti potete prenderlo come un'ottima lezione di storia americana. E quella non farebbe mai male a nessuno.
(Nicola Gervasini)

Rootshighway, 28/04/2010

lunedì 24 maggio 2010

OCEAN COLOUR SCENE - Saturday


Saldamente ancorati ad una concezione "vecchia" del pop fatta di Beatles e Kinks a go-go, gli Ocean Colour Scene sono attivi fin dal 1992 con regolare produzione, un passato da gruppo di prima linea e un presente da rispettati veterani. Saturday è il loro nono album, ed è davvero quanto di più conservatore e classicista si possa immaginare in terra d'Albione, probabilmente in ritardo di 15 anni rispetto ai tempi in cui la title-track avrebbe potuto rivaleggiare con una Alright dei Supergrass per l'hit più facile e immediata dell'anno, o quando il singolo Magic Carpet Daysavrebbe forse fatto venir voglia molto a prima a Ray Davies di imbracciare la chitarra e far vedere a questi "giovinastri" chi è il più grande a scrivere questo tipo di canzoni. La band di Simon Fowler qui viaggia sul sicuro con un ottimo pop-rock che passa da echi "McCartneyani" fin troppo evidenti (What's Mine Is Yours sembra una outtake di Let It Be) alla più che convincente serie iniziale che macina chitarre taglienti (100 Floors Of Perception), perle perdute di merseybeat (Mrs Maylie) e orchestrazioni da radio anni 60 (Just A Little Bit Of Love). La parola d'ordine in ogni caso è "fun", con nessuna voglia di tediare (anche se un paio di episodi ci riescono bene) e con suoni puliti, sparati alle giuste frequenze, radiofonici sì, ma fortunatamente mai plastificati come quelli degli Oasis più recenti. Roba per vecchi brit-popper in ogni caso, che non so quanto credito possa avere tra le nuove generazioni che stanno già avendo a noia i Franz Ferdinand. Cambia il mercato discografico, ma non cambiano le dinamiche storiche tra i gruppi, e Saturday racconta già di una band nata incendiaria ed ora divenuta pompiere.
(Nicola Gervasini)

domenica 23 maggio 2010

JEFFREY FOUCAULT & MARK ERELLI - Seven Curses


Il vantaggio di una webzine come la nostra è che abbiamo un archivio prontamente consultabile, una piccola garanzia di continuità quando c'è da tracciare il percorso di un artista che seguiamo assiduamente. E Jeffrey Foucault è sicuramente un nome che ci fa alzare le antenne da alcuni anni, più precisamente dal 2004 quando il suo terzo album Stripping Cane attirò la nostra attenzione anche se non ancora il nostro plauso pieno. Ma nel 2006 l'album Ghost Repeater figurava addirittura nella nostra top 10 di fine anno, con tanti complimenti e la constatazione di Gianfranco Callieri che "Foucault ha effettivamente osato di più, portando a compimento un'opera che sorpassa per intensità, carisma ed eccellente livello qualitativo qualsiasi titolo ascrivibile a quella categoria che per amor di semplificazione chiameremo contemporary folk". La citazione ci serve per chiederci cosa diavolo stia succedendo oggi al nostro Jeffrey, che sembra lontano dal voler dare un seguito a quel bellissimo disco (che oggi nuovamente vi consigliamo) e che anzi è entrato nella fastidiosa spirale dei prodotti "tampone" come i cover-album.

E passi farne uno come quello dello scorso anno, interamente dedicato al suo maestro di stile John Prine (Shoot The Moon Right Between The Eyes), dischetto talmente poco significativo nei risultati da indurci addirittura a non recensirlo neppure, ma quando poi il nostro insiste con questo
Seven Curses, collezione di murder-songs di svariata provenienza licenziato in coppia con l'amico Mark Erelli, allora proprio non possiamo più tacere. Oltretutto le registrazioni di questo disco interamente acustico non sono nuovissime, ma risalgono a qualche anno fa, ed è lecito sospettare che se sono state fatte uscire dal cassetto probabilmente non c'era nulla di meglio da pubblicare (volentieri attendiamo smentita al più presto per questa affermazione). E a non convincere è anche la scaletta, piena di brani celebri che vantano già riletture di ben altro calibro come Johnny 99 di Springsteen o Powderfinger di Young, per non parlare del traditional Pretty Polly, di quella stessa Louise di Paul Siebel che Willy DeVille ha fatto in tempo a lasciarci prima di abbandonare questo mondo, o della classica Sonora's Death Row che abbiamo sentito un paio d'anni fa anche da Dave Alvin.

Forse queste scelte sono un modo per rendere più appetibile o vendibile una raccolta di canzoni anche interessanti, fin dal bel ripescaggio di
Cole Durhew, storia di un padre di famiglia perfetto e timorato di Dio che finisce accusato di un'efferata catena di delitti, scritta da una grande penna di Nashville come quella di Tom House, oppure la mitica The First Mrs Jones del compianto Porter Wagoner, cronaca di un trucido uxoricidio. Da citare anche le belle versioni di Ellis Unit 1 di Steve Earle, Tom Merritt di Richard Buckner e la classica Philadelphia Lawyer di Woody Guthrie, tutte rese a due voci e due chitarre come da perfetto manuale folk. Bel compitino quindi, ora però vogliamo un'opera vera..
(Nicola Gervasini)

Rootshighway 05/05/2010


martedì 18 maggio 2010

VECCHIE RECENSIONI: IL DIALOGO TRA JJ CALE & ERIC CLAPTON per The Road to Escondido


Un giorno, nel 2006......
- Pronto?
- Ciao JJ, sono Eric, ti ricordi di me?
- Certo, ogni mese quando mi arrivano le royalties di Cocaine,…
- Come te la passi JJ?
- Bene , stavo riposando, sai ho fatto un disco e un paio di concerti nel 2004 e sono ancora stanco….
- Ecco, appunto, siccome invece io devo fare un disco all'anno e l'anno scorso Back Home non se l'è filato nessuno, avrei bisogno di un tuo brano per il prossimo singolo, lo sai che per me sei sempre l'ultima spiaggia….
- Ma guarda, ho qui un po' di canzoni nel cassetto del como', stavo appunto cercando di ricordarmi se non le avessi già messe in qualche album, sai un po' si assomigliano tutte e alla mia età…..
- Splendido! Allora le prendo tutte e ci faccio un album, sai quest'anno devo fare quello buono per il pubblico blues
- …Ma in verità contavo di usarle per il mio album del 2015….
- Ma no! Guarda, le facciamo assieme come feci ai tempi con BB King! Abbiamo venduto a pacchi!
- BB, JJ, l'anno prossimo l'album buono per le feste di Armani lo fai con LL Cool J e gli ZZ Top?
- Aha Aha , spiritoso! No senti è una grande idea, cantiamo i brani assieme, tanto la voce è praticamente uguale, nessuno le distinguerà. Dimmi un po' cos'hai lì
- Ma c'è Anyway The Wind Blows
- Ma JJ, questa non era su Okie?
- Ah ecco vedi che mi diceva qualcosa…poi c'è Don't Cry Sister
- Questa non era su 5?
- Ok vabbè queste le canti tu, però ho anche della roba buona e nuova, tipo Who Am I Telling You, una ballatona di sicuro effetto, o Ride The River, roba che Knopfler deve ancora ringraziarmi che esisto. E nessuno potrà resistere a Heads In Georgia, il southern blues come solo io lo so sussurrare, e se in Dead End Road ci piazziamo un bel violino country il gioco è fatto
- Splendido! Quelli di Rootshighway proprio non potranno parlarne male: sarebbe come sputare nel piatto in cui mangiano da sempre. Io magari porto Hard to Thrill che è un po' jazzata ma nei tuoi dischi un pezzo così non manca mai….
- I dischi , caro Eric, sono come le torte della nonna: mai cambiare gli ingredienti! Negli anni novanta ho provato ad usare un paio di batterie elettroniche e apriti cielo!
- E poi ho anche Three Little Girls
- Ecco, bastano due brani, che come chitarrista sei Dio, ma come autore…
- Ok, a proposito, i suoni li facciamo fare al il mio fido producer Simon Climie?
- Ma Eric, ha prodotto anche quell'immonda schifezza di Pilgrim!
- Si vabbè dai, ma un disco di soffice blues di qualità oggi lo sa fare anche Chris Rea! E gli ospiti?
- Quali ospiti?
- JJ, di marketing proprio non ne hai mai capito nulla: non si fa un disco senza ospiti!…Vabbè ci infiliamo Derek Trucks, Albert Lee, Taj Mahal e Billy Preston.
- Ok , allora a domani per le registrazioni
- Ok, comincia tu che io devo chiamare LL Cool J….
(Nicola Gervasini)

domenica 16 maggio 2010

JUSTIN CURRIE - The Great War


Nonostante fossero stati baciati da ben altra fortuna commerciale (nel 1995 ebbero anche un singolo in top 10 americana), gli scozzesi Del Amitri non sono mai riusciti a diventare un vero e proprio oggetto di culto morboso come altre “Del-band” degli anni 80 (Del Lords, e ancor più i Del Fuegos). La somiglianza del nome era in verità casuale, ma i tre combo erano accumunati dal loro particolare modo di leggere il rock da strada visto da tre angolature geografiche diverse (i Fuegos erano di Boston, i Lords newyorkesi). L’innegabile appeal pop del songwriting del leader Justin Currie assicurò ai Del Amitri una dignitosa esistenza da co-protagonisti negli anni 90, ma il sovraffollamento degli anni 2000 è stato fatale anche a loro e il gruppo ha pubblicato nel 2002 l’ultimo album, sciogliendosi ufficialmente nel 2007. Essendo anche un’accolita di onesti comprimari senza troppa personalità, logico che sia Currie l’unico con le spalle abbastanza larghe per continuare da solo, e The Great War è il suo secondo album dopo l’esordio What Is Love For del 2007 (sempre pubblicato dalla Rykodisc). Justin è dotato di una voce calda e pulita, con una forte propensione per le melodie dolci sostenute da arpeggi da jinle-jangle rock di byrdsiana memoria (ascoltate At Home Inside Of Me giusto per capire), ma spesso e volentieri anche ballatone romantiche tutte piano e archi (You’ll Always Walk Alone, Baby You Survived o The Way That It Falls) che sarebbero ottime per commentare il finale di un film sentimentale. Currie d’altronde non è mai stato uomo da atteggiamenti da artista maledetto o alternativo, e queste 11 canzoni sono infatti quadrate e rigorose nel loro essere figlie di un rock minore degli anni 90. In un certo senso in questo disco, ben prodotto da Mark Freegard, il suo stile ricorda sempre più quello del miglior Freedy Johnston, uno che con il pop-rock di Can’t Let Go Of Her Now o del singolo A Man With Nothing To Do ci sarebbe andato a nozze, ma Currie prova anche a giocare la carta del folk-rock più impegnato nei lunghissimi otto minuti di The Fight To Be Human, brano da Greenwich Village primi anni 60 impreziosito da un racconto teso e slide-guitars minacciose, o nel melodrammatico incedere di Everyone I Love, mentre con il riff d’altri tempi di Ready To Be si ritrova il sound dei Del Amitri che furono. The Great War è un disco piacevole e soprattutto di immediata fruibilità, uno di quelli che anche al primo ascolto regala subito le emozioni che sa dare. Che poi possa anche diventare memorabile abbiamo qualche dubbio, ma per questo attendiamo che sia il tempo a sputar sentenza.

Nicola Gervasini

giovedì 13 maggio 2010

KENNY WHITE - Comfort In The Static


Da qualche anno si sente spesso dire un gran bene di Kenny White (e molto spesso sono gli stessi colleghi a farlo), eppure questo musicista-produttore, scoperto a suo tempo per l'ottimo lavoro svolto per il Peter Wolf di Sleepless, non è riuscito a oggi a pubblicare un disco davvero importante. Lui è uno degli uomini di punta della scuderia della Wildflower di sua signora folk Judy Collins, che davvero conta molto su questo Comfort In The Static. La cronaca dice che si tratta del suo quinto album e anche la sua opera più ambiziosa, lungamente costruita nell'arco di tre anni di scrittura (condensati in un mese di registrazioni). Giocandoci probabilmente la vostra voglia di arrivare al termine della recensione, anticipiamo che anche questa non è la volta buona perché il suo nome esca dal settore "addetti ai lavori", ma perlomeno in questo caso vi consigliamo comunque di dare un ascolto a queste dieci canzoni, giusto per ricordarsi come si dovrebbe lavorare in uno studio di registrazione. White infatti dimostra qui tutta la sua grande perizia, sviscerando il suo gusto per gli elaborati estetismi e i gli arrangiamenti iper-studiati, il tutto al servizio di un folk velato di forti tinte jazzy e contrassegnato sempre dal suo pianoforte e dalla una voce profonda e tranquilla.

A tratti addirittura tanta pulizia e perfezione ricorda alcuni eroi dello smooth-pop degli anni 80, se è vero che
Gotta Sing High ruba il riff e anche qualche cosa in più a Blaze Of Glory di Joe Jackson e Carry You Home, forte comunque di un solo di piano decisamente accattivante, ha tutta l'aria di essere un omaggio agli Style Council. Nato produttore prima ancora che musicista, White si esalta non poco con l'elaborato intreccio di archi di Last Night e con i fiati che impreziosiscono Please, probabilmente il brano più rock-oriented. Per il resto il riferimento è il primo Tom Waits, quello che mixava il bebop con la canzone americana di matrice West Coast e rese così memorabile il cuore del sabato sera di tanti anni fa, lo stesso magico cocktail che qui in qualche modo rivive nel bel tour de force di She's Coming On Saturday Night.

La sua bravura è di far apparire semplice quello che semplice non è affatto, e se provate a pensare a quanti sovra-arrangiamenti, strumenti e accorgimenti produttivi ci sono in una delicata folk-song come
Who's Gonna Be The One, vi renderete conto del perché i suoi servigi siano alquanto richiesti. Quello che manca a Comfort In The Static è però il genio, perché qui tutto è perfetto, i suoni, i musicisti (la chitarra di Duke Levine è decisamente il valore aggiunto in brani come Useless Boy), ma alla fine sono troppo pochi gli spunti sorprendenti, e molti i déjà vu senza troppo futuro (Out Of My Element). Troppo comfort in questa staticità forse, quando invece gli farebbe sicuramente bene un po' di scomodo movimento in più, ma per il momento ci possiamo anche rilassare un poco anche noi.
(Nicola Gervasini)

23/04/2010
Rootshighway


lunedì 10 maggio 2010

FIONN REGAN - The Shadow Of An Empire


Rootshighway
Aprile 2010.

Nel settembre del 2007 Lucinda Willams chiamò sul palco il giovane ed esordiente Fionn Regan presentandolo come "il Bob Dylan della sua generazione", ma pare che dal pubblico qualcuno evidentemente meno avvezzo alle grandi sparate le abbia urlato "Basta bere troppo!". Che la Williams possa aver alzato troppo il gomito quella sera è cosa quanto mai probabile, ma in quel caso l'esagerazione era anche dettata dal fatto che questo giovane songwriter irlandese era ai tempi uno dei nuovi puledri su cui più puntava la sua etichetta Lost Highway, intenzionata a ringiovanire la sua prestigiosa scuderia Irish (Van Morrison, Elvis Costello). Evidentemente le vendite del disco d'esordio (The End Of The History) non devono essere andate alla pari con le molte critiche positive ricevute, se è vero che l'anno scorso l'etichetta si è rifiutata di pubblicare un secondo album già prodotto nientemeno che da Ethan Johns, costringendo oltretutto il povero Fionn a dover ripartire da capo con le registrazioni. Per questo The Shadow Of An Empire esce a ben tre anni di distanza dall'esordio, perché è un disco registrato in fretta e furia in una vecchia fabbrica di biscotti abbandonata con musicisti locali (in Lord Help My Poor Soul appare Drew McConnell, bassista dei Babyshambles) e licenziato per un'etichetta indie rimediata in extremis dalla casa madre Universal.

Sono storie fortunatamente rare ormai, nell'epoca in cui l'autoproduzione non è più un ripiego ma sempre più spesso la prima scelta, eppure a questo punto è impossibile non ascoltare questi brani con la mente a cosa avrebbe potuto farne l'entourage esperto e pressoché infallibile del produttore di Ryan Adams (pensiamo al lavoro svolto per Jack Savoretti e Howard Eliiott Payne). Regan in ogni caso ha fatto buon viso a cattivo gioco, e forte dell'esperienza americana presenta un prodotto più arrangiato e complesso, con più chitarre elettriche e soprattutto un ritmo sostenuto che lo rende mai noioso. Una "svolta elettrica" che sottolinea però quanto tenda ad assomigliare fin troppo al sopracitato Dylan, sia per modo di cantare che per melodia e struttura delle canzoni (si parte con una
Protection Racket che potrebbe essere tranquillamente una cover di Subterranean Homesick Blues…).

Per quanto
Lines Written In Winter o Genocide Matinee dimostrino una penna in grado di uscire spesso dai clichè del genere, non sembra proprio essere lui l'uomo che riporterà il folk di marca irlandese fuori dal ghetto in cui si è rintanato da anni (pensate a come sono spariti dal grande giro Pogues, Hothouse Flowers, Bap Kennedy e tanti altri), e l'immagine del suo futuro che traspare da questo disco è più simile ad un'eroica resistenza da outsider alla Andy White (con cui ha molti punti in comune, basta ascoltareCatacombs o Coat Hook), piuttosto che ad una fulgida carriera fatta di duetti con Willie Nelson (passo obbligato per chi transita alla Lost Highway). Rimandato a tempi migliori, con il forte augurio di poterli trovare.
(Nicola Gervasini)

mercoledì 5 maggio 2010

HOODOO GURUS - Purity of Essence



6/4/2010
Rootshighway



Regola numero uno del buon fuochista: inutile sprecare legna se l'aria è poca, ci sono fuochi che si spengono per naturale calo d'ossigeno e non c'è nulla da fare. Regola numero due: non provare nemmeno a soffiare sul fuoco quando è troppo tardi, si alza solo una fastidiosa nuvola di fumo. Regola numero tre: attenzione però a spegnere bene le braci, basta un solo soffio di vento, una sola scintilla, e, quando meno ve lo aspettate, la fiamma riparte. Dave Faulkner, storico leader degli Hoodoo Gurus, come fuochista non vale evidentemente una cicca. Nel 1996 spinse i suoi Gurus a produrre un disco inutile e sfiatato come Blue Cave, quando era ormai evidente che il loro tempo era finito. Nel 2004 non si è arreso, e ha riunito la band per produrre Mach Schau, che suonava più o meno come se gli AC/DC avessero tentato di scopiazzare i Franz Ferdinand, cioè malissimo. Fortuna nostra però che abbia infranto pure la terza regola, perché è capitato che un giorno si sia svegliato con in mente il riff di Crackin Up, l'abbia subito registrata su un registratore, abbia chiamato il gruppo per dire "dobbiamo registrare…oggi", e così 8 di queste 16 canzoni sono nate in una sola session di registrazione.

La scintilla era accesa, la fiamma è risorta potente come e forse anche più di prima. Lo stesso Faulkner lo definisce uno dei giorni più belli della sua vita, quello in cui una formazione che era morta ha trovato, chissà come e chissà perché, il suono perso nel corso degli anni. La spiegazione è tutta nel titolo, Purity Of Essence, la purezza di essere semplicemente una rock and roll band, una essenza che non viene mai meno, neppure quando l'ispirazione cala e la carica non è più quella dei vent'anni. Faulkner canta con una grinta mai sentita in questi nuovi brani, tutti riusciti, tutti con l'inconfondibile marchio Hoodoo Gurus nel DNA, se è vero che proprio Crackin Up rinverdisce la categoria delle perfette power-pop songs del gruppo (alla I Want You Back o Out That Door), A Few Home Truths ritrova il giro festaiolo che fu di Good Times, Burnt Orange e What's In It For Me riesumano "le invasioni di Marte" a suon di chitarre, e Over Nothing è una delle loro tipiche dark-ballad con echi da spaghetti western, una delle più belle azzarderemmo.

E se al primo colpo i "ragazzi" hanno ritrovato il sound di un tempo (persino le batterie rimbombano come quelle degli anni 80), al secondo hanno pure trovato la forza di inventare e giocare con il soul di I Hope You're Happy, il blues di Ashamed Of Me, il funky-dance tutto ritmo e fiati di Only In America. Per il resto brani grezzi ma vincenti come Let Me In ci insegnano che il rock da garage non si fa con le grandi idee ma con l'energia, che è forse materia ancora più difficile da trovare oggigiorno. Gloria quindi ai redivivi Hoodoo Gurus (oltrettutto riesumati nientemeno che da una major come la Sony), che assieme ai recenti e ugualmente miracolosamente risorti Jason & The Scorchers, sono tornati dai lontani eighties per dirci che questo rock and roll non è morto. E dopo questo decennio di rock depresso e sussurrato, forse ce n'era bisogno.
(Nicola Gervasini)


www.hoodoogurus.net
www.myspace.com/hoodoogurus

domenica 2 maggio 2010

DAN KRIKORIAN - Colors And Chords


19/04/2010
Rootshighway


Un po' in ritardo sulla pubblicazione, datata 2009, recuperiamo volentieri questo Colors And Chords di Dan Krikorian, giovane talento espiantato dalla Orange County e trapiantato in California per vivere la vivissima scena di "sinners and losers" della zona. Già autore di un timido esordio autoprodotto nel 2008 (Oxford Street), il baldo Krikorian ambisce fin dalle note biografiche del suo sito a seguire le gesta autoriali di Josh Ritter e Joe Purdy, paragoni che potrebbero anche essere azzeccati se ci aggiungiamo una certa componente che più che da West Coast suona molto newyorkese, tanto che brani come Bobby Jones o la dolceSidewalks/Mary Jones ricordano molto alcune tinte pastello di Israel Nash Gripka (se non lo conoscete, oltre a consigliarvi caldamente di fare una visita al suo New York Town del 2009, sappiate che tra il suo stile e la musica di Ryan Adams il passo è molto breve).

Per questo suo secondo album Krikorian non ha trovato l'appoggio di grandi etichette in grado di fargli fare il salto di qualità, ma perlomeno quello di un gruppo di musicisti più che valido e rodato tra cui vanno sicuramente citati il coproduttore Shawn Nurse, che nella vita fa il batterista degli I See Hawks In L.A. (più volte recensiti su queste pagine, fino alla recente antologia), il bassista Taras Prodaniuk (già al fianco di Lucinda Williams e Dwight Yoakam) e il chitarrista Bob Boulding degli Young Dubliners. Fa una certa tenerezza poi notare come venga messo in risalto che il disco sia stato mixato da Matt Forger, uno dei tecnici di Thriller di Michael Jackson, segno di come ormai ogni motivo è buono per cercare di nobilitare il più possibile queste opere indipendenti.

Che poi effettivamente queste 10 canzoni godano di un bellissimo suono delle chitarre acustiche e che il pianoforte e la voce calda siano ben innestati nel contesto è cosa che ormai non dovrebbe più meravigliare, così come non è più una novità che tutta questa miriade di nuovi folk-singer abbia una invidiabile padronanza dei propri mezzi nel scrivere e registrare brani notevoli come
Tangerine Eyes oLock On The Door. Qualcosa manca ancora però, per cui il nostro voto serva a lui come incoraggiamento ad insistere e a voi ad avere la curiosità a cercarlo, Colors And Chords è il classico disco che ascoltato al momento giusto potrebbe anche farvi innamorare.
(Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...