sabato 26 ottobre 2019

FLAVIO OREGLIO

Flavio Oreglio & Staffora BluzerAnima popolare[Long Digital Playing 2019]
 
File Under: quatter amis, quatter malnatt
facebook.com/longdigitalplaying
di Nicola Gervasini
Il cabaret non è argomento usuale su queste pagine, ma non sorprendetevi troppo di trovare il nome di Flavio Oreglio. “Attore, umorista e scrittore” dice la sua biografia, ma lui ci tiene a ricordare che in verità i suoi inizi erano quelli da “cantautore” nato alla scuola milanese di Jannacci e Gaber. Ed è lì che torna a guardare questo album, intitolato Anima Popolare proprio perché è nelle radici della canzone “che vien dal basso”, le nostre “roots” mi verrebbe da dire, che si ciba il folk di casa nostra. Folk music garantita dalla collaborazione con gli Staffora Bluzer, che sono Stefano Faravelli (piffero, flauti, cornamuse, voci) Matteo Burrone (fisarmonica, voce) Daniele Bicego (cornamuse, sax soprano, cornetta, bouzouki, voce), una unione di intenti che riprende il discorso del suo album precedente Giù (non è stato facile cadere così in basso) del 2008 che vedeva invece il supporto dei Luf. Dopo l’introduttiva Benvenuti, si passa infatti ad una title-track che ricrea lo stile delle tipiche ballate popolari fatte di feroce critica sociale e quel pizzico di amara disillusione che anima la visione del potere dal basso, mentre Bluzer Revoliscion si tiene a metà tra cabaret alla Cochi e Renato e un curioso connubio tra liscio e blues italiano. Dopo lo scherzo di La Vita è Una Brugola, le cose si fanno serie con l’intensa e stranota cover Ma Mi, testo in dialetto scritto dal regista teatrale Giorgio Strehler con fisarmoniche e cornamuse in grande evidenza (fu uno dei primissimi successi di Ornella Vanoni). Blues dei Deliri Quotidiani si sviluppa su un aspro Chicago-blues, mentre il cabaret torna preminente in La Mezza Minerale, con ironia sulla tendenza ad ingigantire le proprie imprese da parte dell’uomo comune. Consigliato a chi si sente orfano inconsolabile di un mondo milanese un po’ antico.

venerdì 25 ottobre 2019

IGGY POP

Iggy Pop
Free
[
Caroline Int./ Loma Vista 2019]
iggypop.com
File Under: I wanna be your sage

di Nicola Gervasini (27/09/2019)
Iggy Pop sarebbe colui che con gli Stooges ha inventato l’attitudine (se non proprio il suono) del punk, prima ancora che qualcuno lo chiamasse così. Ed è quello che sta sempre sul palco a petto nudo, e si contorce moltissimo, lo chiamavano Iguana per quello già da giovanissimo pare. E, secondo molti, se David Bowie non l’avesse salvato, oggi sarebbe morto di overdose, in totale stato di indigenza già da anni. Fin qui non vi ho detto nulla di nuovo che non abbiate già letto alla nausea sul personaggio, ma d’altronde cosa si può dire di diverso su un artista attivo da più di cinquant’anni, che si è sempre prestato ad essere visto più come un’icona che come artista. Forse però, di tanto in tanto, potremmo anche parlar di musica quando lo nominiamo, magari ricordando che in fondo la sua discografia è una delle stilisticamente più varie e imprevedibili della generazione classic-rock, dove davvero ogni album fa storia a sé, e non riparte quasi mai dal precedente.

Con i pro e i contro della questione, visto che di passi falsi se ne contano più di uno. Ma a Pop il coraggio di osare non è mai mancato, eppure ascoltando Free realizziamo che qualche riconoscimento ancora gli si potrebbe tributare. Perché se come autore ancora fa fatica a farsi riconoscere (ricordate quanto poco fu apprezzata la svolta autoriale del sottovalutato Avenue B nel 1999?), da qualche anno Pop cerca applausi come interprete, e lo fa ancora una volta cercando lo spirito autunnale e jazzy che già fu di Après. Anche in questo caso Iggy ci ha messo poco di suo, giusto il testo di Loves Missing, che guarda caso è il brano più “alla Iggy Pop” del disco, ma per il resto ha affidato scrittura e atmosfere al jazzista Leron Thomas, autore dei brani, e vero mattatore dell’album con la sua tromba. Il risultato è curioso, e quasi a tratti ricorda uno dei dischi recenti di Leonard Cohen, lento, sussurrato, e con la sua voce (ormai palesemente di un anziano) in primo piano.

Non che manchino i momenti provocatori (il turpiloquio di Dirty Sanchez), ma paiono quasi un marchio di fabbrica doveroso, neanche più troppo necessario, perché anche senza Free è un bel disco notturno e molto vario, in cui Iggy si concede momenti di pop elettronico come Sonali, pop-song moderne come James Bond, dark-spoken-song come Glow In The Dark, o suggestivi intrecci di parole e suoni come Page. Con in più anche un certo piglio da vecchio intellettuale, soprattutto quando si concede letture di poesia di Dylan Thomas (Do Not Go Gentle into That Good Night) o recupera un testo inedito dell’amico Lou Reed (We Are the People), o nel finale, questo sì davvero alla Cohen, di The Dawn.

L’aiuta anche la chitarra di Sarah Lipstate, in arte Noveller, per un album che supera a fatica la mezz’ora offrendo un breve ma intenso momento di riflessione che, se non aggiunge nulla al suo mito, ne impreziosisce perlomeno lo spessore. E sicuramente oggi è più apprezzabile un disco così, da vecchio saggio, che una improbabile nuova edizione degli Stooges. E forse è giunta anche l’ora di mettersi una maglietta, che ad una certa età gli spifferi fanno male.

giovedì 24 ottobre 2019

JACK ADAMANT

Jack Adamant
Unkind
[AR Recordings 2019]

 File Under: What else is new

jackadamant.com

di Nicola Gervasini

Italiano trapiantato in Svezia ormai da tempo, Gerardo Monteverde in arte Jack Adamant è stato (e lo è comunque tuttora) il cantante e bassista dei Valerihana, trio attivo ormai da più di dieci anni nell’ambito alternativa rock nostrano. Unkind è il suo secondo album solista dopo Lunch at 12 since ’82, e prosegue la sua linea stilistica decisamente impostata sulla lezione di J Mascis e dei suoi Dinosaur Jr. Voce un po’ strozzata, melodie malinconiche sorrette da esplosioni elettriche e una sezione ritmica martellante sono gli ingredienti del disco, dove Adamant ha raccolto otto canzoni unite da un senso di viaggio personale nel raccontare umori e sensazioni di una vita da musicista ramingo. L’iniziale A Gap in the Sun occhieggia un po’ a certo power-pop elettrico degli anni 90, così come Just Telling Ya sta dalle parti degli Smashing Pumpkins degli esordi, ma And I è puro Mascis-pensiero. Ed è così fino alla fine, quando la notevole All the Way Through chiude l’album dopo che Secretly Looking for a Way to Escape aveva provato ad alzare toni e volumi quasi fino allo stile-Nirvana, e la breve Into e Before You Hold Me avevano continuato a tenere caldo l’ambiente. Non è la prima volta che ci troviamo a parlare di artisti italiani che pescano a piene mani dagli anni 90, e da quel sound elettrico che ai tempi si fece mainstream (per tornare fuori moda nei 2000 quando il sound acustico tornò padrone), e Adamant dice la sua con un disco che, se fosse uscito nel 1990, oggi sarebbe pure oggetto di culto, ma che nel 2019 serve a ricordarci quanto questo rock alla fine resti ancora necessario.

martedì 22 ottobre 2019

ANDREA ZANZA ZINGONI

Andrea Zanza Zingoni
Dormire Sonni Tranquilli
[Audioglobe 2019]

 File Under: Lullabies

facebook.com/AZanzaZ/

di Nicola Gervasini

Quello che abbiamo in mano è un disco di esordio, ma Andrea “Zanza” Zingoni è in realtà un veterano della scena wave toscana fin dai primi anni 90, ultimamente con i NoN (noti anche come i “Non Violentate Jennifer”). Dormire Sonni Tranquilli è un album davvero particolare, che mischia la lezione indie-folk degli anni 2000 (Dirigibili e Rivoluzioni, singolo per cui Zingoni ha girato anche un video promozionale, sembra un brano degli Iron & Wine periodo Sheperd’s Dog), con suggestioni sonore più vicine alla new wave anni 80, evidenti soprattutto negli strumentali che aprono e chiudono album (C’era una volta e La marcia dei sonnambuli) e in certe soluzioni elettroniche (Reti e pareti). A caratterizzare il suono è spesso anche il flauto di Simone Morgantini, come nella bella Naufragheremo. Il pezzo centrale del disco è Terza persona, storia che parte sussurrata per chiudersi in una lunga coda strumentale che si mantiene sempre sui toni sognanti ed eterei dell’album. Fa eccezione in questo senso solo la title-track, in cui tastiere e percussioni creano un effetto che ricorda quasi quello dei Talking Heads di Remain In Light, a reggere un ipnotico giro di chitarra e un testo fatto a filastrocca per bambini per la buonanotte davvero particolare (Non aver paura della gatta ignuda, è sparita da un pezzo, non è più sotto il letto). Disco notturno fin dal titolo e dai temi trattati nelle canzoni, Dormire Sonni Tranquilli è suonato e cantato dal padrone di casa con l’ausilio di pochi altri musicisti come Alice Chiari (violoncello, glockenspiel), Enzo Panichi (batteria) e Damiano Innocenti (basso). Consigliato.

lunedì 14 ottobre 2019

JOAN SHELLEY

Joan Shelley
Like The River Loves The Sea
[
No Quarter / Goodfellas 2019]
joanshelley.net
 File Under: Iceland folk

di Nicola Gervasini 
(23/09/2019)
Tra i viaggi dei miei sogni c’è sicuramente l’Islanda, terra di natura crudele, ma alquanto generosa di spettacoli. E anche landa di silenzio e riflessione, portata in musica dai suoi pochi ma ben famosi rappresentanti negli anni (Bjork e Sigur Ròs i più celebri), quasi che le veemenze del rock non si adattino ai ritmi blandi che il clima locale impone. Esiste però un certo cantautorato americano che invece in quel torpore potrebbe trovare terreno fertile, e lo dimostra oggi Joan Shelley con questo Like The River Loves The Sea. Lei viene dal Kentutcky, e dopo essersi fatta le ossa come spalla di Daniel Martin Moore, con cui ha pubblicato anche un disco a due mani (Farthest Field del 2012), ha avuto l’onore di farsi produrre da Jeff Tweedy per il suo album omonimo uscito nel 2017.

In occasione invecedi questo nuovo capitolo la Shelley ha preso la drastica decisione di portare tutto in Islanda e affidarsi al produttore locale Albert Finnbogason, che si è preoccupato di farle trovare uno studio già scaldato da session-women come le violiniste Þórdís Gerður Jónsdóttir e Sigrún Kristbjörg Jónsdóttir. A seguirla nel viaggio sono stati comunque i bravissimi chitarristi James Elkington (sentito anche nei dischi di Steve Gunn e del Richard Thompson “americano” di Still) e Nathan Salsburg, mattatori con la loro acustica di un album fatto di un folk sognante che mette l’accento su ogni singolo strumento, isolandolo nel silenzio generale. La Shelley da parte sua ci mette la sua voce pigra e melodiosa e una manciata di buone canzoni, con particolare encomio per la bellissima Cycle. A impreziosire il piatto, ma anche a definirne la natura, ci pensa anche Bonnie “Prince” Billy che si prodiga ai cori in Coming Down For You, e se Teal si fa avvolgere da sapori di folk irlandese, The Fading è puro cantautorato di Nashville alla Emmylou Harris (sempre con mister Oldham in session).

Il disco non concede variazioni sul tema come toni, se non appunto sulla grammatica di base, che può essere quella di uno spiritual come Awake o di una dolce folk-song come The Sway, sempre caratterizzati dalla voce della Shelley (a volte molto simile a quella di Aimee Mann) e dagli interventi garbati ma decisivi della sezione d’archi (molto bello l’arrangiamento di Stay All Night). Dodici brani eterei che necessitano una particolare ambientazione per essere apprezzati, nonostante poi i temi dei testi non riguardino l’Islanda, ma quelli più classici ma sempre attualmente universali della fine di una relazione importante. Situazione ideale per una fuga in mezzo ai ghiacci a cantare la struggente High On The Mountain, che non sarà certo l’ultimo grido disperato di un cuore spezzato, ma fa comunque parte di un coro eterno di amori interrotti, che sono poi la ragione principale dello scrivere e ascoltare questo tipo di canzoni.

mercoledì 9 ottobre 2019

MEGA BOG

Mega Bog
Dolphine
[
Paradise of Bachelors/ Goodfellas 2019]
megabog.com
 File Under: art-pop

di Nicola Gervasini 
(13/09/2019)
Ci occupiamo per la prima volta su queste pagine di Erin Elisabeth Birgy, in arte Mega Bog, autrice americana attiva da una decina d’anni. L’occasione arriva con l’uscita di Dolphine, suo quinto album, e primo per la sempre più coraggiosa etichetta Paradise of Bachelors, rifugio sicuro per eroi del songwriting vecchi (Bonnie Prince Billy, Michael Chapman) e nuovi (anche Steve Gunn ha pubblicato un paio di dischi per loro). Ultima paladina di una nuova forma di pop femminile che fa di eleganza e formalismo sonoro una bandiera, il disco la vede allinearsi a fianco di artiste come Weyes Blood o la Joan As Police Woman più recente nel recuperare orchestrazioni e ritmi da pop-song elegante degli anni 60.

Si pensa subito a Burt Bacharach (sentite la parte ritmica di Diary of A Rose o la samba iniziale di For The Old World e cercherete Dionne Warwick nei credits) o al Lee Hazlewood al servizio di Nancy Sinatra, ispiratori evidenti di una serie di caratteristiche che vanno dalla voce suadente e malinconica, con quel tocco annoiato di impostazione quasi nordeuropea (I Hear You Listening si colloca tra Sophie Zelmani e Emiliana Torrini), fino a tocchi più moderni, come le basi elettroniche della title-track che hanno portato molti a paragonarla addirittura a Laurie Anderson. Nascono così bozzetti di art-pop che mischiano un po’ di tutto, se è vero che le sonorità di Spit In The Eye Of The Fire King ricordano le collaborazioni tra Joni Mitchell e gli eroi fusion Pat Metheny e Lyle Mays, mentre Left Door va a cercare la lezione di songwriting di Laura Nyro.

Il pericolo di realizzare un pastiche di mille idee già avute da altri è sempre forte, e certo Suzanne Vega ai tempi della sua frequentazione con Mitchell Froom ci aveva già raccontato della possibilità di unire folk e bossa nova, qui espressa in Truth In The Wild, ma va detto che Mega Bog ha saputo mischiare gli ingredienti con innegabile originalità, rimanendo sospesa tra il vintage e il moderno con ottimo equilibrio. Nel finale poi si ricorda anche di essere una buona autrice nella eterea Shadows Break, si culla sul violoncello di Untitled (With “C”), cerca un po’ di performance vocali d’avanguardia nei vocalizzi di Fwee Again, per chiudere da semplice folksinger voce-chitarra in Waiting In The Story. Tutto in linea con la nuova tendenza un po’ leziosa ed estetizzante della canzone femminile, ma con molte idee brillanti che in Dolphine trovano un buon sviluppo grazie al supporto di membri dei Big Thief (il batterista James Krivchenia) e di Meg Duffy, tuttofare visto spesso al servizio di Kevin Morby e noto anche con il nickname di Hand Habits.

Il risultato lascia anche intendere che potremo attenderci un passo ancora in avanti in termini di espressione di una personalità unica e riconoscibile, ma intanto scopritela con questo disco, che è giusto non passi troppo inosservato.

domenica 6 ottobre 2019

DREW HOLCOMB & THE NEIGHBORS

Drew Holcomb & The Neighbors
Dragons
[Magnolia Music/ Goodfellas 
2019]
drewholcomb.com
 File Under: Romantic blue collar

di Nicola Gervasini (02/09/2019)
Mi piacerebbe fare una sorta di rassegna stampa per capire quante altre testate musicali italiane si sono occupate in questi anni dei Drew Holcomb & The Neighbors. Anche solo una veloce ricerca nel web mi sta dando pochissime recensioni online dedicate al personaggio. Dico questo non per vantare una chissà quale esclusiva di Rootshighway nel trattare un artista inesorabilmente arrivato tardi nella ”storia del rock”, così come ce la siamo raccontata per anni, ma proprio per fare un punto sul fatto che quella scena che troviamo sotto la voce “Blue Collar Music” (anche questa definizione è ormai vetusta e sorpassata) ha perso anche quel poco di attrattiva che si era guadagnata ai tempi in cui al club Bruce Springsteen si iscrivevano anche musicofili occasionali.

Eppure, Holcomb non si scosta di un centimetro dalla filosofia di una vita vista come lotta quotidiana combattuta a colpi di rock fatto di sudore e allegria, e francamente risulta oggi, giunto all’ottavo album (più tre live e due album natalizi da aggiungere al conto), come il più credibile "avanzo di fabbrica" rock americana. Il che già lo rende un eroe a suo modo, perché se è vero che persino certi vecchi grandi della scena oggi scivolano spesso nel puro “Amarcord” (che si trasforma in un triste e solitario tramonto), lui tiene alte le luce della festa. Dragons però non riparte laddove erano finiti i precedenti capitoli come Good LightMedicine o Souvenir, perché stavolta Holcomb prova a dare una svolta più moderna, evidente non tanto nell’anthem iniziale di Family, quanto nel quasi indie di End Of The World scritto con Sean McConell, o nella marcetta folk But I’ll Never Forget the Way You Make Me Feel cantata con la moglie Ellie.

Dragons invece ricerca un cantautorato roots più tradizionale, ma prosegue nella linea più intimista e poco festaiola del disco. Ed è così per i 34 minuti del disco, tutti incentrati ad offrirci un lato più autoriale di Holcomb, che se la cava egregiamente - va detto - in questa veste quasi folk-pop (sentire la leggerezza armonica di See The World), ma che resta in ogni caso un abito in cui si differenzia meno dalla massa di giovani cantautori odierni. Prodotto da Cason Cooley, fautore di un sound che mette le percussioni in primo piano come si usa fare in molto dell’indie-folk odierno, Dragons è una piccola raccolta di soffici ballate di pregevole fattura ma alle quali manca forse quel pizzico di personalità in più per poter essere davvero buone per tutti.

Poco male, ogni leader della festa ha bisogno di tirare il fiato o mostrare il lato romantico in un duetto con Lori McKenna come You Want What You Can't Have (i due bissano nella più briosa Make It Look So Easy) o in un altro con Natalie Hemby (Maybe), in un tripudio di romanticume (la finale Bittersweet potrebbe essere un brano dei Coldplay per dire) da rocker di strada anche questo decisamente agèe, ma che qualche parte del cuore riesce comunque a toccare.

mercoledì 2 ottobre 2019

Di ARBOREA delle WINONAS e del ritorno delle Cassette.



Ricordo quando nel 2005 cambiai lo stereo e decisi di non ricomprare la piastra per le audiocassette. Ricordo anche quando nel 2007 cambiai l’ultima macchina con l’autoradio classica, per passare al cd anche per i viaggi (e nel frattempo ormai sono già da tempo passato alle chiavette mp3). Ricordo sacchi di cassette registrate buttate nella spazzatura (con buona pace dello spargimento di plastica nel mondo), ricordo la fine di un’era e di un supporto a cui devo la vita perché negli anni 80 e 90 senza un walkman sarei stato costretto pure ad ascoltare la gente per strada, e magari sarebbe stato utile per evitare di rimanerci così male quando anni dopo Facebook mi ha costretto a sapere cosa pensa veramente “la gente” . Poi però, ultimamente, in un’era in cui il vinile si sta prendendo qualche soddisfazione postuma sul cd (superandolo nelle vendite, cosa che - credetemi - già solo nel 1990 era fantascienza poter prevedere), pare che torni di moda pure la cassetta. E così quasi mi spiace farmi trovare impreparato per questa uscita delle ravennesi Winonas per la Vaccino Dischi, perché oltre che al classico streaming e vendita in digitale, Arborea esce esclusivamente in cassetta. Niente vinile dunque, e niente CD. L’idea è quella di cercare nuovi modi di creare collezionismo (tanto il cd non lo compra più nessuno no?), e non è un caso isolato. Solo quest’anno io mi sono trovato in casa un bellissimo 45 giri trasparente della cantante romana Marianna D’Ama che ha deciso di pubblicare solo 45 giri, o una bellissima e chic confezione dell’italiana Gold Mass, che ha messo in vendita il suo Transitions senza supporto fisico (se non una chiavetta volendo), ma con ugualmente libretto e fotografie su cartoncino acquistabili dal suo sito.  La scelta  delle Winonas invece costringe molti a rispolverare lettori dimenticati o cercare nel mercato del vintage qualche walkman ancora funzionante (ma la Sony ad esempio ha fiutato la situazione e lo ha prontamente rimesso sul mercato), e ne vale la pena se amate ad esempio la musica della Nada più recente, riferimento che vi sciorino con facilità visto che è evidente che il canto un po’ strascicato di Valentina Cicognani debba molto  alla grande Signora Malanima, e ancor più perchè il disco include una cover di Senza un perché (era su Tutto l'amore che mi manca, ma tanti di voi se la ricorderanno soprattutto per la colonna sonora del Young Pope di Sorrentino). Le cinque canzoni scritte dal trio (composto inoltre da Caterina Cardinali alla chitarra e Chiara Maroncelli al basso) invece sono spigolose, aspre, essenziali, pregne di un esistenzialismo disilluso molto vicino allo stile di molte battagliere cantautrici della generazione anni 90 (mi vengono in mente Branda Kahn o Kristin Hersh ancora più che Ani DiFranco o le Indigo Girls). Un Ep molto interessante, modernamente vintage nel formato (con la bella copertina disegnata da Giulia Betti) e nel contenuto e che fa da atteso seguito al loro unico album del 2015 (Sirene) che le ha portate ad essere molto apprezzate anche in Europa. 

ROD PICOTT

Rod PicottTell the Truth & The Devil
[Welding Rod Records 2019]
rodpicott.com

 File Under: Alone
di Nicola Gervasini (27/08/2019)
Ogni volta che ascolto un disco di Rod Picott mi dico sempre “meno male che esistono ancora artisti come lui”. Discorso che potrebbe valere per tanti altri irriducibili artigiani della canzone americana che dagli anni 90 ad oggi non hanno mai mollato una carriera avara di riconoscimenti (non so perché, così su due piedi, mi viene in mente Slaid Cleaves, qui coinvolto come coautore di Mama’s Boy), ma talmente interessati alla vita da cantastorie da non voler mai abbandonare il campo. Di Rod Picott ci siamo occupati spesso, è un autore bravo, a cui forse, anche per questioni produttive, è mancato in carriera il disco mitico da ricordare tra gli appassionati anche a distanza di anni, e anche questa volta è tutto lì che sta il “problema”.

Tell The Truth & Shame The Devil arriva dopo il tour de force del doppio album Out Past the Wires, album anche parecchio elettrico, e ribalta tutto offrendo il classico voce-chitarra-armonica dell’american-hobo, tradizione che giammai smetteremo di seguire e onorare nonostante sia davvero fuori moda. Lui stesso sul suo sito presenta il disco con un certo orgoglio come “il più intimistico della sua carriera”, nato in seguito ad un periodo di grave malattia nel 2018 che lo ha tenuto a lungo chiuso in casa. Ghosts apre infatti il disco parlando proprio della paura della morte che porta a fare rendiconti di vita pregni di malinconia. Più cupa Bailing, che ricorda i viaggi in macchina col padre sulla Route 65 (il padre ritorna anche in The Beautiful Life, in cui descrive la sua vita tutta lavoro-birre al pub alla sera), mentre Mark è la storia di un amico di infanzia amante dei Beatles morto suicida a 17 anni. Seguono la galleria di figure umane perdute nello squallore di The Spartan Hotel, l’acida autoironia di 38 Special and a Hermes Purse (“Sono un disastro ferroviario che trasforma il Beaujolais in piscio” dice, una immagine che gli deve essere piaciuta, visto che nella successiva 80 John Wallace si definisce come “Una palla di fuoco piena di piscio e aceto”).

Il difetto del disco purtroppo sta nelle limitate capacità espressive di Picott, che non essendo vocalist di particolare personalità o chitarrista in grado di riempire da solo gli spazi, si limita ad un compito da registrazione casalinga che rende l’album un po’ piatto come soluzioni, e troppo simile ai tanti album autoprodotti di questo tipo di cantautorato. Peccato perché il materiale meriterebbe una veste più interessante, a riprova che l’arte dello storytelling americano non è morta, ma ha forse perso la capacità (o forse solo la possibilità) di comunicare al meglio con il presente.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...