Rod PicottTell the Truth & The Devil [Welding Rod Records 2019] rodpicott.com File Under: Alone di Nicola Gervasini (27/08/2019) |
Ogni volta che ascolto un disco di Rod Picott mi dico sempre “meno male che esistono ancora artisti come lui”. Discorso che potrebbe valere per tanti altri irriducibili artigiani della canzone americana che dagli anni 90 ad oggi non hanno mai mollato una carriera avara di riconoscimenti (non so perché, così su due piedi, mi viene in mente Slaid Cleaves, qui coinvolto come coautore di Mama’s Boy), ma talmente interessati alla vita da cantastorie da non voler mai abbandonare il campo. Di Rod Picott ci siamo occupati spesso, è un autore bravo, a cui forse, anche per questioni produttive, è mancato in carriera il disco mitico da ricordare tra gli appassionati anche a distanza di anni, e anche questa volta è tutto lì che sta il “problema”.
Tell The Truth & Shame The Devil arriva dopo il tour de force del doppio album Out Past the Wires, album anche parecchio elettrico, e ribalta tutto offrendo il classico voce-chitarra-armonica dell’american-hobo, tradizione che giammai smetteremo di seguire e onorare nonostante sia davvero fuori moda. Lui stesso sul suo sito presenta il disco con un certo orgoglio come “il più intimistico della sua carriera”, nato in seguito ad un periodo di grave malattia nel 2018 che lo ha tenuto a lungo chiuso in casa. Ghosts apre infatti il disco parlando proprio della paura della morte che porta a fare rendiconti di vita pregni di malinconia. Più cupa Bailing, che ricorda i viaggi in macchina col padre sulla Route 65 (il padre ritorna anche in The Beautiful Life, in cui descrive la sua vita tutta lavoro-birre al pub alla sera), mentre Mark è la storia di un amico di infanzia amante dei Beatles morto suicida a 17 anni. Seguono la galleria di figure umane perdute nello squallore di The Spartan Hotel, l’acida autoironia di 38 Special and a Hermes Purse (“Sono un disastro ferroviario che trasforma il Beaujolais in piscio” dice, una immagine che gli deve essere piaciuta, visto che nella successiva 80 John Wallace si definisce come “Una palla di fuoco piena di piscio e aceto”).
Il difetto del disco purtroppo sta nelle limitate capacità espressive di Picott, che non essendo vocalist di particolare personalità o chitarrista in grado di riempire da solo gli spazi, si limita ad un compito da registrazione casalinga che rende l’album un po’ piatto come soluzioni, e troppo simile ai tanti album autoprodotti di questo tipo di cantautorato. Peccato perché il materiale meriterebbe una veste più interessante, a riprova che l’arte dello storytelling americano non è morta, ma ha forse perso la capacità (o forse solo la possibilità) di comunicare al meglio con il presente.
Tell The Truth & Shame The Devil arriva dopo il tour de force del doppio album Out Past the Wires, album anche parecchio elettrico, e ribalta tutto offrendo il classico voce-chitarra-armonica dell’american-hobo, tradizione che giammai smetteremo di seguire e onorare nonostante sia davvero fuori moda. Lui stesso sul suo sito presenta il disco con un certo orgoglio come “il più intimistico della sua carriera”, nato in seguito ad un periodo di grave malattia nel 2018 che lo ha tenuto a lungo chiuso in casa. Ghosts apre infatti il disco parlando proprio della paura della morte che porta a fare rendiconti di vita pregni di malinconia. Più cupa Bailing, che ricorda i viaggi in macchina col padre sulla Route 65 (il padre ritorna anche in The Beautiful Life, in cui descrive la sua vita tutta lavoro-birre al pub alla sera), mentre Mark è la storia di un amico di infanzia amante dei Beatles morto suicida a 17 anni. Seguono la galleria di figure umane perdute nello squallore di The Spartan Hotel, l’acida autoironia di 38 Special and a Hermes Purse (“Sono un disastro ferroviario che trasforma il Beaujolais in piscio” dice, una immagine che gli deve essere piaciuta, visto che nella successiva 80 John Wallace si definisce come “Una palla di fuoco piena di piscio e aceto”).
Il difetto del disco purtroppo sta nelle limitate capacità espressive di Picott, che non essendo vocalist di particolare personalità o chitarrista in grado di riempire da solo gli spazi, si limita ad un compito da registrazione casalinga che rende l’album un po’ piatto come soluzioni, e troppo simile ai tanti album autoprodotti di questo tipo di cantautorato. Peccato perché il materiale meriterebbe una veste più interessante, a riprova che l’arte dello storytelling americano non è morta, ma ha forse perso la capacità (o forse solo la possibilità) di comunicare al meglio con il presente.
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