mercoledì 27 giugno 2012

LIGHTSHIPS


 
 
 LightshipsElectric Cables
[
Domino 
2012]
lightships.tumblr.com


 File Under: slow-core, indie-folk

di Nicola Gervasini (11/05/2012)
La prima cosa che salta in mente ascoltando Electric Cables dei (o "di") Lightships è che solo quindici anni fa un disco del genere non sarebbe stato possibile. Prendiamo ad esempio i Teenage Funclub, band storica dell'alternative rock britannico (scozzesi, per la precisione), piccolo fenomeno di culto degli anni 90, ma anche costante presenza nelle billboards inglesi fino ai giorni nostri, nonostante i numeri delle loro vendite non abbiano mai raggiunto vette in grado di far parlare di loro anche negli ambienti più mainstream. La loro formula a base di power-pop alla Big Star e quel tocco proto-indie tipico dei primi 90 di certo non avrebbe mai invogliato nessun manager discografico a incoraggiare progetti solisti dei membri, e così magari il bassista Gerard Love nell'era dello strapotere delle major si sarebbe sentito ridere in faccia presentando un suo progetto personale. 

Ma i tempi sono evidentemente cambiati, e in quest'epoca del "tutto possibile per tutti" eccolo uscire con un nickname da giovane indie-songwriter e un disco a suo modo sorprendente. Non tanto per la formula, che rispetta un tòpos consolidato del rock che vuole i progetti solisti sondare spesso strade cantautoriali e intimiste, lontane dalla veemenza tipica della rock-band, quanto per l'attenzione che sta riuscendo ad attirare con un disco che in fondo suona in ritardo perlomeno di dieci anni. Per l'operazione Love ha messo in piedi una band con vecchi amici (insieme a Dave McGowan, si rivede Brendan O'Hare, primo batterista dei Teenage Funclub) e nuovi compagni di viaggio (il flautista Tom Crossley e il bassista dei Belle & Sebastian Bob Kildea). E Belle & Sebastian o ancor più gli Slowdive di Neal Halstead sono proprio i riferimenti più immediati per queste dieci ballate senza spigolature, giocate sempre molto tra il dialogo voce-flauto e sempre attente a non oltrepassare mai la soglia del sussurro. 

Lascia un po' freddi ad esempio la confusa partenza di Two Lines, ma centrano il bersaglio subito dopo ballate comeMuddy Rivers e l'ottima Sweetness In Her Spark (guardacaso scelta come singolo), ma subito dopo arriva ad esempio un piccolo pasticcio di troppi suoni come Silver And Gold a rompere non poco il buon ritmo preso dal disco. E qui si apre il vero dibattito, perché alla fine Electric Cables è un disco discreto al quale però manca sempre qualcosa per diventare un'opera importante, condizione magari comune alle miriadi di "uscite dal gruppo" della storia, ma che forse in questo caso poteva anche essere evitato con qualche sforzo in più. E qui si giunge alla mancanza di quel contributo (o semplice spinta) che le cattive e spietate case discografiche spesso riuscivano a dare un tempo a questo tipo di operazione. O forse davvero Love non aveva nessun interesse a spingersi oltre, e allora si prenda questo disco per quello che è, un dolce passatempo buono per una stagione. 

mercoledì 20 giugno 2012

WALLIS BIRD



Wallis Bird Wallis Bird
[Karakter/Family Affair 
2012]
www.wallisbird.com


 File Under: girl-folk 

di Nicola Gervasini (06/06/2012)

Da qualche anno si aggira per l'Europa (e recentemente anche in Italia) un piccolo uragano folk venuto dall'Irlanda, una bionda ragazzina che sale spesso sui palchi di altri grandi nomi tra l'indifferenza generale e con l'aria timida di chi chiede quasi scusa di disturbare, e ne scende seguita dalle preghiere di non smetterla più del pubblico entusiasta. E' questa la fama che segue Wallis Bird da ormai sei anni, supportata da due album (Spoons del 2007 e New Boots del 2009) che riuscivano solo in parte a rappresentarne la veemenza live. A quanto pare però è già tempo di svolte nella sua carriera: Wallis Bird, album volutamente senza titolo perché sia scambiato in futuro per un'opera prima, cerca infatti di razionalizzare e far crescere il personaggio prima ancora dell'artista. Arrivano così pose fotografiche studiate, singoli con sound decisamente ammiccanti e radiofonici (Encore) e seguiti da video ben studiati (girato a Berlino, dove è stato anche in parte registrato l'album) e una produzione più mirata.

E soprattutto una presentazione marketing che la paragona ad Ani DiFranco e Alanis Morissette, dando così un colpo al cerchio ed uno alla botte, cercando di cogliere l'arco costituzionale delle fans al femminile a 360 gradi. Più che altro fa sorridere l'accostamento di due modelli di sensibilità rock al femminile così opposti, ma effettivamente anche l'album vive la medesima contraddizione. Per cui accanto a brani che strizzano l'occhio alle ragazzette alla ricerca del primo vaffanculo da dire al papà (Ghosts Of Memories) troviamo tentativi anche ben riusciti di proporsi come artista matura e a tutto tondo, sia quando riesce a ben capitalizzare la propria rabbia di donna all'eterna ricerca della propria vera natura (Dress My Skin And Become What I'm Supposed To, programmatico brano d'inizio) o anche quando cerca di ravvivare il tutto uscendo dal seminato con la giusta ironia (la caraibica Heartbeating City).

Lo spirito della migliore Morissette, quella che negli anni 90 ha segnato e cambiato indelebilmente il mondo del cantautorato femminile, esce allo scoperto in brani come But I'm Still Here, I'm Still Here , ma ad un orecchio attento alla fine si preferiscono i brani dove la Bird tenta semplicemente di apparire un'autrice credibile come I Am So Tired Of That Line (decisamente il brano più riuscito) o Feathered Pocket. In sostanza il problema di Wallis Bird (l'album), è che sembra mettere in mostra una rabbia e una passione che non è esattamente quella di Wallis Bird (l'artista), ma qualcosa di più studiato a tavolino, nonostante gli spunti interessanti restino parecchi (Take Me HomeIn Dictum) . Giusto dunque che si parli molto di questo finto esordio, il talento è grande (anche se ancora troppo legato ad altri modelli), ma l'impressione è che Wallis Bird qui non ce la stia raccontando ancora tutta la sua storia.

lunedì 11 giugno 2012

TOM JONES



 
 
 Tom Jones Spirit in the Room
[
Island/ Universal   2012
]
www.tomjones.com


 File Under: folk for old rockers 
di Nicola Gervasini (30/05/2012)

David Scarpe, vice presidente della Island, sognava una bella promozione nel 2009 quando mise sotto contratto Tom Jones, e probabilmente già si vedeva su una spiaggia a godersi le stock options mentre la radiolina mandava in onda la Sex Bomb del 2010, quando capì di aver preso una grande fregatura. La storia dice che non appena sentì i demo di Praise And Blame mandò una e-mail minatoria ai suoi uomini con un perentorio "fermate subito questo progetto o ridatemi i miei soldi, spero sia uno stupido scherzo". Invece Tom non scherzava affatto: Praise And Blame, una serie di azzeccate cover prodotte con gusto rootsy da Ethan Johns, è stato il suo disco più applaudito e solo sulla carta uno dei meno venduti della sua carriera, visto che l'onda lunga dei complimenti lo ha portato faticosamente ad una certificazione come disco d'oro.

E se allora quel disco fu poi dirottato su un etichetta di nicchia come la Lost Highway, è significativo che oggi la Island abbia deciso di riprendersi la distribuzione di Spirit in The Room, secondo capitolo della nuova saga di questo simpatico gallese di 72 anni. Al quale vanno i complimenti non solo per il coraggio della scelta, ma anche per l'immensa classe con cui la sta portando avanti. Perché Spirit in The Room è ancora meglio del suo predecessore, ha una vena gospel in meno, ma vira più verso un folk alla American Recordings di Cash o alla Neil Diamond sotto cura Rick Rubin, senza però eccedere in forzata essenzialità. Al contrario presenta una serie di accurati e per nulla semplici arrangiamenti (basta anche solo il piano alla Nick Cave di All Blues Hail Mary di Joe Henry come esempio) che confermano Ethan Johns come uno dei produttori sicuramente più validi sulla scena. Più interessante anche la scelta del repertorio, che volge sì verso i soliti noti, ma esaltandone il songbook più recente. Così vengono passate in rassegna la nuovissima Bad As Me di Tom Waits, una Love And Blessings dell'ultimo (abbastanza ignorato) Paul Simon, un Paul McCartney del 2009 (I Want To Come Home), e, se decidete di comprarvi la deluxe edition, eccovi servito anche un Dylan degli anni 2000 con When The Deal Goes Down.

Spazio ridotto quindi per i classici (una Tower Of Song di Cohen da brividi e una Dimming of The Day di Richard Thompson comunque convincente), solo una strizzatina d'occhio alle nuove generazioni (una Charlie Darwin dei Low Anthem decisamente azzeccata) e per il resto standard iper-noti come Soul Of A Man di Blind Willie Johnson o recuperi del primo folk femminile con Hit or Miss di Odetta e Traveling Shoes di Vera Hall Ward. Non c'è una nota fuori posto o una interpretazione che non sia meno che sentita, il limite di base resta ovviamente quello di qualsiasi cover-record, ma trattandosi di un vocalist e non di un autore, il discorso qui viene meno. Il futuro del rock - se mai ne esiste uno - di certo non passa di qui, ma intanto questo Tom Jones in stato di grazia rende il presente decisamente più sopportabile.

mercoledì 6 giugno 2012

Lisa Marie Presley



 
 
 Lisa Marie PresleyStorm & Grace
[
Universal Republic  2012
]
www.lisamariepresley.com


 File Under: T-Bone Burnett 
di Nicola Gervasini (24/05/2012)

Fino ad oggi il nome di Lisa Marie Presley evocava principalmente due ricordi: il primo ovviamente papà Elvis, a cui dobbiamo probabilmente anche il fatto di essere qui a parlare di musica rock, il secondo invece l'infausto matrimonio con Michael Jackson, love-story che al confronto la liaison Clooney-Canalis sapeva davvero di vero amore (la Presley spergiura di no, ma le malelingue notarono che pochi mesi prima del matrimonio la pargoletta era appena diventata unica proprietaria dei diritti d'immagine del padre, e se ci aggiungiamo che nel contempo Jackson comprava quelli dei Beatles, fate un po' voi i conti...). Di certo nessuno si era veramente accorto che dal 2003 la ragazza avesse varato una carriera da pop-singer con due album (To Whom It May Concern del 2003 e Now What del 2005) che non sono riusciti neanche a vendere quanto ci si potrebbe aspettare da un personaggio da prima pagina.

Fallito il tentativo di presentarsi come bad-girl (il secondo album aveva il bollino Parental Advisory per turpiloquio, duetti irriverenti con Pink e una improbabile cover da Riot Grrrl di Dirty Laundry di Don Henley), la Presley ha pensato bene di sdoganarsi nel mondo della musica roots che conta. Le mosse in questo caso sono le solite: scrivi quindici testi, li fai elaborare da qualche nome che richiami l'intellighenzia critico-musicale e magari ti assicuri che anche Pitchfork tratterà del disco (in questo caso parliamo di Richard Hawley, autore dell' 80% dell'album, ma ci mette la penna persino la stellina indie Ed Harcourt), mandi i quindici brani a T-Bone Burnett (che ormai produce questi dischi con la stessa nonchalance con cui paga il conto del dentista) e il gioco è fatto. Impossibile perdere con una squadra simile, neanche se ti impegni, per cui Storm & Grace è quello che ti aspetti, un'orgia di suoni perfetti, lo zenith del Burnett-pensiero, con la netta sensazione che ormai una sua produzione la possa cantare Robert Plant come Raffaella Carrà senza che il risultato cambi di troppo.

"Suo padre sarebbe fiero di lei, Lisa Marie è un'artista di vero American Southern Folk" ci rassicura lui presentando l'album, dimostrandosi ormai anche abile uomo marketing, ma poi alla fine proprio tutti i torti non si riesce mai a darglieli. Perché la sostanza c'è, magari annegata in troppe slow-ballads e leziosità inutili, ma resta poi impossibile rimanere indifferenti al vocione indolente della Presley quando scorre negli up-tempo di So Long o Un-Break, oppure nella spezzata interpretazione di Forgiven per la quale i sorpresi complimenti (cavoli, ma allora sa davvero cantare!) non si sprecano. Se poi decidete di darle anche voi credito (male non vi fa di certo), recuperate la deluxe edition, i quattro brani in più sono inspiegabilmente migliori di molti altri inclusi nell'album. Puro marketing anche in questo caso probabilmente (Springsteen insegna...), ma ogni tanto possiamo anche concederci di fare nuovamente la figura dei fessi.

BILL RYDER-JONES

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