lunedì 29 novembre 2010

TIM ROBBINS - Tim Robbins and The Rogues Gallery Band


Ci sono dischi che un recensore spera ardentemente siano all'altezza delle aspettative, fosse solo per il fatto che certi personaggi predispongono a particolar benevolenza. Tim Robbins è uno di questi, un bravissimo attore, ma soprattutto un esempio di artista capace di coniugare successo, impegno e qualità come pochi ormai nel panorama hollywoodiano riescono a fare. Robbins è un uomo che ama raccontare storie, lo ha fatto tante volte attraverso le sue pellicole, spesso scomode e spinose, quanto sempre significative, ma evidentemente ne aveva troppe nel cassetto per poterle trasformare tutte in valide sceneggiature. Logico quindi riesumare quella parte del suo DNA che risale alla vita e carriera da folk singer del padre Gilbert Robbins, uno che bazzicava il Greenwich Village quando aveva senso farlo con gli Highwaymen (da non confondere con quelli di Willie Nelson e soci), e via dunque all'ennesimo salto di confine tra cinema e musica da parte di un attore in cerca di nuove vie espressive.

Robbins ha fatto le cose per bene, ha scritto nove splendidi racconti folk, con storie di vite altrui (agghiacciante la confessione del reduce dell'Irak in Time To Kill) mischiate alla propria, dove il recente divorzio dalla storica moglie Susan Sarandon aleggia come uno spettro senza però mai essere veramente affrontato (Queen of Dreams). "Non è un album sul divorzio, ma sul pre-divorzio" spiega lui, che avrebbe voluto infatti intitolarlo Midlife Crisis, proprio quella crisi di mezz'età in cui si mette in subbuglio una vita e ci si chiede come mai nel cassetto ci siano una quindicina di canzoni che nessuno ha mai sentito. Lui, nel pieno di questa depressione (complice anche una mezza bancarotta per un film mai andato in porto), le ha fatte sentire ad un produttore di serie A come Hal Willner, che gli ha subito procurato una band di prim'ordine (la Rogues Gallery Band) che annovera musicisti come Andy Newmark alla batteria (uno che dal 1970 ha suonato con il gotha del rock), la bella Kate St John ai fiati e fisarmonica e pure Roger Eno (fratello di Brian ovviamente…) alle tastiere.

Tutto bene quindi, salvo un piccolo ma non trascurabile problema: Tim non sa cantare, e non nel senso che non ha una gran voce (anzi, il timbro profondo potrebbe anche funzionare), ma proprio che non riesce mai dare vitalità al suo monotono colloquiare. E per una serie di brani molto verbosi, che si aggirano sempre tra i quattro e i sei minuti, la cosa non appare irrilevante, anzi, alla lunga rende l'ascolto difficoltoso, nonostante l'ospite d'onore Joan Wasser - alias Joan As Policewoman - si prodighi ad armonizzare con la voce il non armonizzabile. Un vero peccato, perché il personaggio meritava davvero una nuova occasione di applausi e perché i brani sono davvero di gran valore. Potremmo magari proporre un bel disco intitolato "Billy Bob Thornton sings Tim Robbins", e forse davvero il cinema invaderebbe la nostra musica con qualcosa di più che dei semplici capricci da star.
(Nicola Gervasini)

www.timrobbins.net

giovedì 25 novembre 2010

MISS FRAULEIN - The Secret Bond


O voi orfani del grunge, che dalla metà degli anni 90 state ancora cercando disperatamente la nuova Seattle, vi esortiamo a percorrere la Salerno-Reggio Calabria invece che la Interstate 90 per una volta. Non garantiamo la stessa velocità di percorrenza, ma passando da Cosenza potreste scoprire i Miss Fraulein, 5 ragazzi innamorati di un suono tutto chitarre realizzato con grande cura e maturità. Gli elementi tipici del genere ci sono tutti, con la band che si ritrova a cercare gli stessi impasti voci-chitarre degli Alice In Chains (Grown High), qualche riff alla Pearl Jam (Battle On Ice) o qualche ruvidezza alla Soundgarden (In Confidence, quasi una outtake di Badmotorfinger), e al massimo, per divagare sui generi, si potrebbe sconfinare nello stoner-rock alla Kyuss. Ma soprattutto "fa grunge" il modo di cantare un po' posseduto di Giulio Ancora, la chitarra sempre in bilico tra metal e rumorismo alternativo di Aldo D'Orrico, e i testi che ti aspetti da una band che esprime tutto il disagio umano di una città, e forse non solo quella, che sta stretta a tutti. E a ben vedere, persino il divertente video realizzato dall'attore Max Mazzotta (You Know Why) sa di anni 90, con quel gusto tra l'allucinato e il grottesco che ricorda molte cose viste in MTV in quegli anni. Una minestra riscaldata potrebbe opinare qualcuno, ma quando ti fai produrre dal bravo Maurice Andiloro (una vita da sala di registrazione per mille artisti italiani, dagli Afterhours a Vinicio Capossela, fino a nomi grossi come Celentano e Ruggeri), quando comunque ci metti fantasia (lo strumentale The Secret Bond, con la sua guerra tra fiati e sei corde, finisce per essere una delle cose più sorprendenti del disco) e ispirazione (la dark Human Hunter), capace pure che ne esca una minestra sicuramente più buona di quella cucinata da gran parte delle dimenticate (in quanto dimenticabili) band della seconda generazione grunge. ( 7)

martedì 23 novembre 2010

SOUTHISIDE JOHNNY - Pills And Ammo


Magazzino di Rootshighway: stamane arriva una cassa di nuovi cd di Southside Johnny. Il nostro magazziniere, uomo di grande esperienza, per accettare la merce prende l'apposito modulo e comincia a spuntare la checklist. Senza i dovuti requisiti richiesti ad un cd di Southside Johnny, questo Pills And Ammo non verrà accettato e verrà restituito al mittente. Il bravo uomo comincia dunque la spunta. C'è passione? Ok, c'è. C'è energia? Alla grande direi, il buon John Lyon sembra un ragazzino che ancora cerca fortuna nei locali del New Jersey. C'è ritmo? Ok anche qui, se riuscite a stare fermi ascoltando un disco come questo potete anche darvi al taglio e cucito e lasciar perdere con la musica. C'è sudore? Sì, sì, i dischi del buon Southside sono gli unici che lasciano anche l'alone nel lettore. Ci sono grandi canzoni? Qui il magazziniere si sofferma un attimo a riflettere: Pills And Ammo è composto da 11 brani, e per la prima volta nella sua carriera Johnny compone tutto il materiale (in collaborazione con il tastierista Jeff Kazee), un grande atto di coraggio che attesta la persistente vitalità del personaggio, quanto un piccolo tallone d'Achille, perché come era già successo in Going To Jukesville del 2002, la sua scrittura tende sempre a cercare lo stesso groove, lo stesso riff, la stessa melodia costruita ad arte per sposarsi con il wall of sound tutto fiati degli Asbury Dukes.

In ogni caso il magazziniere registra che se nessuno di questi brani potrà mai essere un classico, la ballatona soul (Lead Me On) a lui viene pur sempre bene, il blues (Woke Up This Morning) l'ha imparato egregiamente strada facendo, mentre sul rock da bar viaggia ancora nel mille volte sentito (Cross That Line, per non dire di One More Night To Rock, party-hymn che in uno slancio di incredibile originalità prosegue con un bel one more night to roll…). E il suono, è tutto a posto? A posto sì, il sound stavolta è solo più decisamente sporco e guitar-oriented, ci sono più Stones e meno soul rispetto al solito, ma dal punto di vista delle soluzioni musicali siamo ancora fermi alle idee di Steve Van Zandt degli esordi, e se il suo resta sempre il migliore e più puro esempio di Jersey-sound della storia del rock, l'idea che la sua carriera sia comunque solo uno spin-off dell'epopea springsteeniana sarà difficile da estirpare dalla testa dei suoi detrattori.

Ad ogni modo il nostro fido magazziniere si ritiene soddisfatto, mette il timbro di Rootshighway alla voce "Accettato" e ripone i cd nello scafale. Torneranno utili alla redazione quando si dovranno stilare le liste di fine anno, non perché Pills And Ammo abbia grandi speranze di rientrarvi, quanto perché finite le notti di gran lavoro e ardue decisioni, sarà questo il disco che metteremo per sfogare la tensione e ricordarci perché mai perdiamo tempo a fare questo sito.
(Nicola Gervasini)

lunedì 22 novembre 2010

RA RA RIOT - The Orchard


I Ra Ra Riot vengono da Syracuse, nello stato di New York, e sono una delle più recenti new thing dell’indie-rock statunitense. Sono saliti alla ribalta con il disco d’esordio del 2008 (The Rhumb Line), album che univa tutta la frizzante verve dei loro concerti con la malinconia per la sfortuna che sembrava perseguitare la band nei primi anni della loro carriera (il primo batterista è stato ritrovato morto annegato dopo un concerto ad un festival). The Orchard è il secondo disco, pubblicato sempre per la Barsuk Records, vera e propria fucina di talenti del sottobosco statunitense (Death Cab For Cutie, Rocky Voltolato,…), e continua la strada di uno strano folk-pop caratterizzato dalla voce stridula ed effeminata del vocalist Wes Miles (uno che deve molto a gente come Rufus Wainwright nel suo metodo espressivo), ma soprattutto dagli archi suonati da Alexandra Lawn (violoncello) e Rebecca Zeller (violino). La band stessa ha annunciato il disco come “la nostra svolta poppy”, e c’era davvero da credergli se è vero che The Orchard apre il disco ammantata di tutta la maestosa che possono comunicare gli archi, e Boy spara subito un micidiale giro alla Cure che mette subito le cose in chiaro. E si prosegue con veri e propri trattati nuovo pop come Too Dramatic con i suoi urletti, e con un po’ di energia rock in Foolish, ma proprio quando ci s’incomincia a divertire, la pasticciata Massachussets impantana tutto, e la successiva dolce ma melmosa ballata cantata da Rebecca (You And I Know) riesce solo a peggiorare le cose. Shadowcasting e Do You remember riprovano a ridare ritmo con la loro batteria pompante, ma il finale di Kansai e Keep It Quiet conferma la confusione tra voglia di cercare arrangiamenti elaborati e la salvaguardia di freschezza e immediata orecchiabilità. The Orchard è un disco irrisolto, una svolta non conclusa di una band che potrebbe anche diventare adulta, ma che deve ancora macinare qualche chilometro in più.

(Nicola Gervasini)

mercoledì 17 novembre 2010

ERIC CLAPTON - Clapton


Esiste una legge non scritta (o forse realmente messa nero su bianco dal suo ufficio marketing) che vuole che Eric Clapton da anni pubblichi sempre gli stessi due album con precisa alternanza. Una volta è il disco radiofonico per il grande pubblico, quello raccolto durante gli anni 80, l’altra volta invece è il contentino per i vecchi fans, vale a dire i buoni cd di blues da salotto come il disco con B.B.King o il tributo a Robert Johnson. Come successore del dimenticabile (e forse già dimenticato) Back Home del 2005, l’indetronizzabile dio dei chitarristi inglesi ha quindi organizzato un happening di vecchi amici per ricordare neanche i bei tempi andati degli anni sessanta, quanto addirittura quelli mai vissuti del pre-blues bellico, del dixieland di New Orleans e di quel confine tra blues e jazz che negli anni quaranta risultava spesso impercettibile. La vera sorpresa è che quello che poteva essere il disco più inutile e lezioso dell’annata finisce pure per essere la sua cosa migliore per lo meno da From The Cradle, vuoi perché gli amici che lo vengono a trovare (Steve Winwood, Derek Trucks, Sheryl Crow e tanti altri) sono un po’ meno svogliati del solito (si esalta persino JJ Cale, che con lui aveva ronfato non poco nel pigrissimo Road To Escondido), vuoi perché Eric appare realmente coinvolto in queste rivisitazioni. Certo, c’è da chiedersi se davvero ci mancava la sua versione di Autumn Leaves di Jacques Prévert, ma magari una Run Back To Your Side che lo vede schitarrare convinto senza sonnecchiare sugli allori ci voleva proprio. La scaletta è talmente varia da risultare indefinibile, tanto che il nostro neanche è riuscito ad inventarsi un titolo che comprendesse il tutto. Noi diamo la colpa al consulente marketing di cui sopra, il cui licenziamento ci eviterebbe il prossimo disco easy-pop. A quel punto resterebbero da silurare anche il parrucchiere e il grafico della copertina, e le basi per una pensione degna del suo blasone sono gettate.
Nicola Gervasini

da FILM TV Novembre 2010

lunedì 15 novembre 2010

CESARE CARUGI - Open 24 Hours


Recensire un disco che ci annovera nei ringraziamenti non è esattamente la prassi, per cui giochiamo a carte scoperte: Cesare Carugi lo abbiamo conosciuto qualche anno fa come appassionato lettore del nostro sito, e oggi lo accogliamo sulle nostre pagine come artista (ci era già finito in occasione della serata tributo a Townes Van Zandt dello scorso anno). Cesare non è uno che ha fretta, ci è voluto lo sprono di un gruppo di artisti che ruota intorno al mondo del duo Massimiliano Larocca-Andrea Parodi per superare la fase di qualche scolastica cover suonata per gli amici, periodo rappresentato da una Open All Night (è la bonus track del Cd) che risulta infatti troppo ricalcata sull'originale springsteeniano (coretti a parte…) per risultare significativa. Invece i quattro brani autografi registrati per questo Open 24 Hrs ci sorprendono, perché seppur lo stile sia ancora "derivativo" (Jackson Browne e Springsteen i riferimenti più evidenti), l'interpretazione non lo è davvero, ed è proprio per la sua ottima voce (con pronuncia inglese impeccabile, e già qui parte avvantaggiato rispetto al 95% dei colleghi italiani), che brani come Carry The Wind Home o Further On riescono ad uscire dall'anonimato di un genere iper-inflazionato. La penna è comunque già ben avviata, e il testo di 24 Hrs è quello di una artista che non si basa solo su clichès consolidati. Certo, la produzione casalinga fa sì che il finale quasi-gospel di Boulevards faccia rimpiangere rifiniture più maestose, ma per ora basta così, il primo vero disco è in cantiere, e questa volta arriverà seguito dalle nostre alte aspettative. Non le deluda.
(Nicola Gervasini)

www.cesarecarugi.com
da Rootshighway

sabato 13 novembre 2010

Una serata con EVASIO MURARO...


Quando Ulisse tornò nella sua Itaca scoprì che qualcuno aveva approfittato della sua assenza per impadronirsi della sua casa, si ritenga quindi fortunato il navigatore Evasio Muraro, che nella sua terra natia la sera del 23 ottobre non ha trovato orde di proci da scacciare, ma di nuovo tutto il suo mondo, intatto e sempre pronto a riaccoglierlo in seno. Vizzolo Predabissi è un piccolo e sconosciuto centro di 4000 anime, perso nella campagna milanese, probabilmente fuori da ogni rotta turistica, e potrebbe essere un peccato, perché per arrivare all’auditorium che ha ospitato il concerto di chiusura del “Distrattour” di Muraro, si passa di fronte alla bella e imponente Basilica di Santa Maria in Calvenzano, opera del XI-XII secolo dei monaci cluniacensi. Una chiesa che fa sentire la sua influenza evidentemente, perché i cluniacensi furono dei monaci barricaderi, anche perseguitati per le loro idee contro l’eccessiva secolarizzazione del clero, o forse proprio perché il loro ordine si è caratterizzato nei secoli per l’amore per le arti e la letteratura, esattamente lo spirito che ha animato una serata fatta di “esposizioni” di libri, arte e musica. La performance di Evasio Muraro è stata davvero impressionante, e forse aumenta il rammarico per le troppe volte che artisti come lui devono accontentarsi di spartani set acustici per mere problematiche logistiche ed economiche. Presentato da Gianni Del Savio e Fabio Cerbone, Evasio è arrivato sul palco shakerando percussioni e duettando con il tastierista Fidel Fogaroli inDistratto, Vedo la tua ombra e O tutto o l’amore, e da lì in poi il palco ha cominciato a popolarsi gradualmente, prima con l’arrivo dell’ottimo batterista Stefano Bertoli, blasonato jazzista prestato alla canzone d’autore, infine, in occasione di una tesissima Smetto quando voglio, con l’entrata dei fratelli Marco eDaniele Denti, il primo giornalista musicale prestato con successo al basso, il secondo chitarrista e produttore che Muraro si guarda bene di prestare ad altri. Lo spettacolo ha raggiunto qui il suo highlight, sono passate Semino errori, Raccolgo la vita, Il granchio, e tutto il meglio del nuovo songbook di Evasio è stato filtrato da una band affiatata, fino ai momenti più esaltanti diUn’ora d’aria e Se. A questo punto, come a voler seguire una linea gaussiana, il mondo di Muraro è tornato a spogliarsi gradualmente, la band è uscita nuovamente di scena, e allora c’è stato più spazio per gli amici, prima quel gianCarlo Onorato che è salito sul palco per duettare nella sua Ballata dell’estate sfinita,poi invece con il trio vocale dei Gobar (Paolo Ronchetti, Cristina Gambalonga e Renato Pacchioni), che di nuovo in veste acustica hanno impreziosito la Se perdo anche te che Gianni Morandi tradusse da Neil Diamond, e il finale di Vivo, Tuffati e Lello. Dopo una serie di canzoni che parlano di un autore perso nel suo mondo d’intrecci di pensieri e sensazioni, apparentemente slegati dalla realtà, arrivano solo nei bis due brani impegnati (forse più “sociali” che “politici”) come Cara moglie di Ivan Dalla Mea e Il disertore che l’Ivano Fossati dell’era Lindbergh aveva tradotto da Boris Vian, un finale che riporta Muraro alle battaglie quotidiane, in attesa di partire per un prossimo sogno. Alle sue spalle durante lo show campeggiava una sua foto di un albero spoglio e innevato che lui dice essere stata scattata nei dintorni di Vizzolo Predabissi, ma di non ricordare assolutamente dove con esattezza. Probabilmente perché anche quell’albero esiste solo nella sua fantasia, talmente fervida da imprimere le pellicole e creare immagini vere, le stesse che speriamo popoleranno anche il suo prossimo disco. (Nicola Gervasini)
Foto di Elena Barusco

lunedì 8 novembre 2010

JOSHUA RADIN - The Rock And The Tide


Secondo un calcolo, non so quanto ancora aggiornato, le canzoni di Joshua Radin sono state utilizzate negli ultimi 5 anni per commentare le immagini di ben 75 pellicole, tra film e note serie televisive, non male per un ragazzo con soli tre album all’attivo. La statistica è in grado di dirci già quanto la musica di Radin sia buona per diversi palati, ma ovviamente non ci parla di quanto poi questa musica sia davvero buona. Il suo secondo disco (Simple Times del 2008) era piaciuto parecchio anche alla stampa specializzata, spingendo il suo nome in coda ai nuovi paladini del folk-pop come Joshua James o Brett Dennen, sicuramente i due nomi a lui più accomunabili qualora qualcuno si volesse prendere la briga di dare un nome ad un nuovo genere. The Rock And The Tide ribadisce ancora una volta la voglia di Radin di risultare incatalogabile, un uomo con il DNA nel folk e nel roots-rock, che però ama mettere un piede anche nell’indie-folk (la title-track potrebbe anche arrivare da un disco degli Iron & Wine ) oppure addirittura azzardare una dance-song tutta elettronica come Here We Go, più o meno quello che potrebbe succedere dall’incontro tra Ray Lamontagne e i Pet Shop Boys. Il tentativo di allargare il proprio raggio di azione è evidente, magari non così spudorato come l’ultimo Brett Dennen, ma è ovvio che una pop-song come We Are Only Getting Better abusa di ritmo calzante e di una catchy-melody in maniera quantomeno sospetta. In ogni caso il risultato finale appare anche ben riuscito, il disco parte benissimo con l’accoppiata Road to Ride On e Streetlight, che sono forse le prove di scrittura migliori del lotto, visto che poi i repentini cambi di stile fanno perdere di vista un po’ l’importanza delle canzoni (la lenta e strascicata You Got What I Need si risolve in una bella atmosfera gospel fatta di mugugni e organi hammond , ma il brano non è certo memorabile). In ogni caso ce n’è per tutti i gusti, con lotte tra chitarre vintage e melodie mielose alla Chris Isaak (Nowhere To Go), sofferte ballate notturne per chitarra e piano (Think I’ll Go Inside) e frizzanti power-pop (You’re Not As Young). Il finale è in tono minore, con una One Leap che cerca Josh Ritter senza eguagliarlo, e Brand New Day che chiude le danze con qualche leggerezza di troppo, ma sono peccati veniali, perché The Rock And The Tide conferma Radin come un nome da seguire, proprio perché se non è questo il disco da acclamare, il suo eclettismo, misto all’ indubbio talento, potrebbero prima o poi regalarci il botto.

Nicola Gervasini

sabato 6 novembre 2010

THE GRANFALLOONS - Songs To Sing


Vengono da Athens i Grandfalloons, e in quella città ormai mitica per il rock americano hanno incamerato il gusto della soluzione semplice, dell'arpeggio immediato o della melodia rimarcata che è stato dei concittadini R.E.M. e Jayhawks. Semplici canzoni da cantare e fischiettare nei momenti più rilassati, o semplicemente quando si è sopra pensiero, esattamente come proclamato dal titolo del loro primo album, un disco realizzato con molta professionalità da un quartetto che ha la particolarità di non avere un vero leader, ma tre autori-cantanti (Matthew Williams, Tommy Sommerville e AJ Adams) che si alternano in prima posizione barcamenandosi tra chitarre, mandolini, lap steel e tastiere varie. Completa il combo il batterista Seth Hendershot (lui dal percorso creativo sembra escluso, ma si sa, di Levon Helm ne nascono uno ogni dieci anni…), mentre appare bizzarro constatare che il gruppo manca di un bassista, interpretato in studio da un session-man occasionale (Chack Bradburn). Songs To Sing è un disco di facile ascolto e prettamente acustico, inizia con una puntina di un vinile che zoppica sulla polvere (idea ormai abusata per rivendicare il proprio attaccamento alle radici del passato) e parte con una Nobody's Singin per la quale spero abbiano già versato il dovuto copyright alla coppia Gary Louris - Mark Olson. Fortuna che il brioso country-rock di Real Life cambia subito registro, e proseguendo in mezzo a tanto buon mestiere (End Of The Day) e qualche riff fin troppo già noto (Gave Up On You) affiora anche qualche piccola zampata (la sgangherata Pura Vida diverte molto, così come la jazzata Pepper o la balcanica Dimitri's Demise). Songs To Sing è uno di quegli esordi che lascia il giudizio sospeso, perché tanta sufficienza basta giusto per notarli, ma non è ancora abbastanza per ricordarli.
(Nicola Gervasini)

www.cowboyangelmusic.com
www.myspace.com/thegranfalloons

giovedì 4 novembre 2010

THE WEEPIES - Be My Thrill


"Non si può tornare indietro adesso" cantavano i Weepies durante la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008. Sembra passata una vita, ma per questo duo di Cambridge il fatto che il loro singolo Can't Go Back Now sia stata una delle canzoni simbolo della campagna del presidente statunitense è stato il primo vero punto di arrivo di una carriera sotterranea da veri indie-folker, iniziata senza grandi ambizioni nel 2003 con Happiness, ma esplosa nel 2006 con l'acclamato Say I Am You. Be My Thrill è il quarto album del duo, probabilmente il primo che verrà accolto non più come il disco di una nuova band, quanto come una consolidata realtà dell'ultimo decennio. La formula in ogni caso non cambia, Deb Talan e Steve Tannen hanno continuato a lavorare in solitudine, preferendo autoprodursi invece che cercare produttori à la page. D'altronde il loro suono non chiede altro che gusto e semplicità: provate ad immaginare che tipo di disco avrebbe potuto fare una giovane Suzanne Vega se invece che bazzicare il Greenwich Village negli anni 80, avesse esordito oggi dopo anni di folk indipendente e lo-fi, dopo Belle & Sebastian e tutto quello che è successo in questi anni caotici.

Provate quindi a pensare ad un folk che si sposa con la leggerezza del pop, con una partenza da vero folk-club comePlease Speak Well Of Me che si risolve subito nella baldanzosa orecchiabilità di When You Go Away (siamo dalla parti della Shawn Colvin più radiofonica qui). Lasciatevi cullare dalla delicatezza di Red Red Rose (puro slow-core pop), o dalla dichiarazione di spensierata vitalità di I Was Made For Sunny Days con le sue chitarre molto seventies. L'indolente folk newyorkese alla Vega fa capolino ancora nell'autunnale They're In Love, Where Am I?, mentre Add My Effort forse esagera un po' troppo con coretti zuccherosi, una misura sbagliata che fortunatamente la successiva title-track riequilibra alla grande.

Il problema del disco semmai è che le canzoni sono tante (14, ma tutte di breve durata), ma nessuna riesce ad uscire dal seminato, se è vero che dalle leggerine Be My Honeypie e Hummingbird in poi ci si addentra in un dejà vu di easy-folk che ha la sua pur piacevole suggestione (Not A Lullaby ricorda addirittura una dei momenti rilassati di Norah Jones), quanto una scarsa imprevedibilità se non il rock acustico di How Do You Get High? e il finale di Empty Your Hands. In ogni caso se dalla musica cercate il gusto delle piccole cose, Be My Thrill è il vostro disco.
(Nicola Gervasini)

www.theweepies.com
www.myspace.com/theweepies

martedì 2 novembre 2010

LUCA MACIACCHINI - Il Boomerang di Dante


Visto che queste pagine hanno origine nel cuore della Lombardia, val la pena ogni tanto dare un occhio al mondo della canzone regionale, dove accanto ad artisti che hanno usato il nostro folklore per costruire uno stile maturo e personale (pensiamo a Davide Van De Sfroos), sopravvive ancora una tradizione musicale (la nostra "roots music" moderna dunque?) che si rifà ai grandi nomi di Gaber, Jannacci, Svampa, tutti sempre in bilico tra folk, jazz e cabaret (fino al teatro vero e proprio), tutti artisti di vecchia generazione che hanno oggi pochi veri e sinceri adepti. Luca Maciacchini è uno di questi, varesino da sempre volutamente in bilico tra recitazione, comicità e canzone d'autore, uno spirito libero (anche scrittore e chitarrista classico) destinato a muoversi tra le trappole dell'essere politicamente targato come leghista d'ordinanza a causa dell'utilizzo del dialetto, se non addirittura come semplice artista popolare buono per una sagra del liscio. "Ma forse è una questione d'avventura sapersi gradualmente districare nella febbricitante, aspra e dura selvaggia selva d'inerzia popolare" risponde lui tramite la voce di Maria Antonazzo in Dante, secondo brano de Il Boomerang di Dante, sua opera terza arrivata dopo Semaforo Rosso del 2007 con rinnovata e ancor più inferocita vis polemica.

E allora via ad un cd per nulla ammiccante al facile populismo, che sciorina una galleria di un' Italia da odiare profondamente, quella dei Corona e soubrette a seguito, dei calciatori strapagati e dei rispettabili borghesi pedofili, degli ipocriti moralismi pseudo-religiosi e dei falsi musicisti da festa paesana, tutti ben descritti nelle quattro parti del brano Bestiario. Qui si presenta l'Italia del pensiero "piccolo", quello che vuole che gli sbruffoni e arroganti vengano omaggiati (e votati…) per paura dell'effetto controproducente dell'opporsi al potere, un fenomeno boomerang che da sempre blocca la nostra ragion critica di massa (se ne parla in Boomerang). Storie popolari insomma, come un tempo cantate attraverso ballate spesso in dialetto, con satire alla George Orwell che parlano di pollai per denunciare lo stato del mondo del lavoro (I Gaijn del Lavurà, Co. Co. Co.) o colti reading blues danteschi (Belacqua Blues). In ogni caso quello che sembra essere il vero tema del disco (che come sua abitudine si trasformerà anche in uno spettacolo teatrale) è il problema della "acriticità" con cui il pubblico moderno accoglie qualsiasi cosa, sia essa politica o cultura, con quella sensazione di fastidioso applauso obbligato derivante dalla cultura del "son tutti bravi e belli" propagata dalla comunicazione di massa (giornali e televisione in primis), qui denunciata a ritmo dance nella tagliente Ma cosa applaudite.

Noi ad esempio applaudiamo i grandissimi testi e la matura complessità del progetto, un po' meno forse l'aspetto musicale, che continua a rimanere in secondo piano a discapito del contenuto (ma d'altronde gran parte dell'opera discografica del maestro Gaber ha sofferto dello stesso difetto). In altre parole la musica resta sempre al servizio delle parole, creando un quadro sonoro stilisticamente vario, quanto poco definito e caratterizzante, nonostante l'eclettismo degli arrangiamenti pensati con il tastierista Luca Fraula. Colpa forse dell'eterna indecisione se puntare sul suo essere un bravo cantante (il bel duetto con Sandra Zoccolan di Estetica della Rinuncia abbandona ogni velleità teatrale a favore di una pura musica leggera) o lettore di classici (Turista Ulisse riporta il tutto dentro le mura di un Liceo Classico), un comico o un semplice fustigatore sociale. Lui però sguazza in questa poliedricità espressiva e ama definirsi semplicemente un entertainer, per cui si prenda Il Boomerang di Dante nel suo insieme di progetto artistico a 360 gradi, o semplicemente come un inusuale e intelligente entertaiment.
(Nicola Gervasini)

www.lucamaciacchini.com

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...