lunedì 26 maggio 2014

MARY GAUTHIER


 Mary Gauthier 
Trouble & Love
[
Proper records/ IRD 
2014]
www.marygauthier.com

 File Under: love and loss songs

di Nicola Gervasini (30/05/2014)
Ci vuole anche una certa non comune abilità nel rifare sempre la stessa canzone, nel cantarla sempre con lo stesso tono lento e strascicato, nell'adottare sempre lo stesso concetto di arrangiamento minimale (chitarra che arpeggia, batteria che accarezza e non batte mai, un piano che contrappunta, un violino che segue la melodia e pochissime altre variazioni) e nel rimanere uguale a sé stessa nonostante il passaggio di diversi e capaci produttori (Joe Henry, Gurf Morlix). Ci vuole la bravura di Mary Gauthier per non sbagliare mai veramente disco, nemmeno quando magari il concept del progetto un po' sovrastava il songwriting come nel precedente The Foundling. Ma con Trouble & Lovenon ci sono distrazioni: otto canzoni per 38 minuti di musica, e davvero paiono le solite otto canzoni già sentite in grandi titoli come Mercy Now o Between Daylight and Dark, ma, chissà perché, poi ogni volta ognuna sembra sempre nuova, irrinunciabile, talmente intensa da richiedere un immediato riascolto.

Non è un caso che da qualche anno la Gauthier campi più organizzando workshop di scrittura piuttosto che con le mai troppo esaltanti vendite dei suoi dischi. Sebbene la sua carriera sia nata sulla scia della grande euforia del post Lucinda Williams dei primi anni 2000, la Gauthier resta un fenomeno di nicchia, "da intenditori" potremmo osare con un po' di sano snobismo. Che la canzone segua al meglio le sue tipiche trame melodiche come la splendida title-track o si adagi su semplici giri folk come Oh Soul, il risultato non cambia: anche quando il disco pare anche solo un titolo di passaggio dopo tanti dischi importanti, la Gauthier riesce a fare la differenza. E le basta sempre così poco, anche quando hai la sensazione che se solo accelerasse il ritmo ogni tanto potrebbe persino imbroccare brani più pop (ci si potrebbe giocare molto sul ritornello di Worthy).

Ma lei è interessata ad altro, e presenta il disco dicendo che "chiunque abbia amato e perduto, non potrà non essere toccato da queste canzoni", quasi a giustificare tante emozioni intense così compresse in pochi brani. Da When A Woman Goes Cold a Walking Each Other Home, da How You Learn To Live Alone Another Train non ci sono episodi deboli (o forse solo la breve False From True passa un po' senza lasciare troppi segni), e i suoni, stavolta confezionati da Patrick Granado con la stessa Gauthier, sembrano sempre al livello giusto. Se poi non sarà forse il disco migliore dell'anno è solo perché resta sempre quella sensazione che ci stia fregando rifilandoci sempre la stessa bottiglia di vino, a cui cambia solo l'etichetta. Ma trattandosi di vino buono, per ora facciamo un po' finta di niente.

lunedì 19 maggio 2014

MICHAEL McDERMOTT

 Michael McDermott 
West Side Stories
[
Appalooosa/ IRD 
2014]
www.michael-mcdermott.com

 File Under: Hai bisogno dell'oscurità per vedere la luce (M.M.)

di Nicola Gervasini (12/05/2014)
Pensate cosa sarebbe successo se nel 1991 620 W. Surf di Michael McDermott avesse riscosso un gran successo di vendite, invece di finire miseramente nel paradiso dei "forati". Oggi magari saremmo qui a raccontare di una carriera fatta di grandi dischi e faraoniche tournee, e magari potremmo pure permetterci di contestare al nostro eroe di essersi adagiato sugli allori, come spesso capita a chi vola alto per troppo tempo. Invece la realtà del 2014 è che Michael McDermott è uno dei pochi songwriters di quella sfortunata generazione che non ha mai mollato. Non ha mai smesso di scrivere, suonare e registrare musica, ma lo ha fatto sempre dai margini. E quando anche chi volentieri bazzica quei margini (tipo noi, per esempio) si è stancato della sua musica, troppo spesso prodotta con mezzi di fortuna e poca attenzione ai particolari, lui ha continuato comunque da un mondo ormai tutto suo.

Ultimamente infatti anche noi ci eravamo un po' arresi davanti all'esagerata home-made production di titoli comeNoise From Words, Hey La Hey e Hit Me Back (gli ultimi due non li abbiamo proprio recensiti), ma ora finalmente possiamo tornare a consigliarvi un suo disco. West Side Stories infatti riesce laddove McDermott ha troppe volte fallito nella sua carriera: dare un suono perfetto alle sue canzoni. Ci hanno pensato i Westies a crearlo (non certo dei principianti in termini di musica roots), grazie al loro bassista Lex Price, che ha preso con successo il timone della produzione. E così, con un suono elettro-acustico pieno e convincente, finalmente si ha la concentrazione giusta per godersi la sua scrittura, quella che mai, anche negli album meno riusciti, è scesa sotto il livello di guardia. Perché McDermott è un istintivo e passionale, ma ci ha sempre messo anche un piglio letterario e una certa ragionata intelligenza lirica nella sua scrittura.

Brava dunque l'Appaloosa a distribuire il cd con le traduzioni in italiano dei suoi testi. Universi sociali che si dissolvono in crisi economiche e sparatorie (Hell's Kitchen), le confessioni di coppia di Say It…(duetto con la moglie Heather Horton), il condannato a morte di Death, gli inni ai tipici luoghi dell'anima dell'hobo americano (Trains, Bars), l'irraggiungibile vicina di casa dal passato misterioso (Rosie) o i flussi di coscienza di Fallen e Five Leaf. Sono solo alcuni dei temi e dei personaggi che popolano un album bello e profondo, a cui forse possiamo contestare solo la mancanza di qualche cambiamento di ritmo in più a contrastare una certa piattezza generale. E manca forse quella rabbia che aveva fatto di Ashes del 2004 un imperfetto ma quanto mai convincente urlo di disperazione da vero eroe di strada. Ma, visti i precedenti, accontentiamoci così: McDermott ha finalmente fatto un disco da ascoltare e riascoltare, e non avete idea di quanto sia una buona notizia anche per noi.

lunedì 12 maggio 2014

ADMIRALFREEBEE


Admiral Freebee The Great Scam
[
Sony Music 2014
]
www.admiralfreebee.be

 File Under: Atlantic crossing 

di Nicola Gervasini (23/04/2014)
Ok, fermatevi un attimo: ho da presentarvi un artista belga di nome Admiral Freebee. E guai a voi se storcete il naso e tirate dritto verso lidi più americani. Inutile, visto che lo ha già fatto lui, affidandosi ad una major e ad una produzione tutta yankee. Se amate il rock, classic, roots o quel che sia, non potete in qualche modo non apprezzare questo personaggio. E siamo in ritardo, sapete. Già nel 2010 non siamo stati tempestivi nel segnalare un buon disco come The Honey and The Knife, una vera sventagliata di rock come si comanda. E allora provate con questo The Great Scam (che, per la cronaca, è il suo quinto album, e ricordiamo che già il suo terzo episodio, Wild Dreams of New Beginnings, era prodotto nientemeno che da Malcolm Burn), dategli una chance anche se forse la musica cambia un po' rispetto al suo nobile predecessore, adeguandosi all'imperante ritorno di certi suoni new wave anni 80.

Ma niente paura, la ricetta resta invariata: una voce roca e nasale che fonde Mick Jagger e Israel Nash Gripka, riuscendo ad assomigliare spesso ad entrambi contemporaneamente, un piglio da rocker di razza ma mai banale, non da blue-collar alla Will Hoge dei tempi d'oro, ma ancora più elaborato, coraggioso, potremmo dire intelligente, senza nulla togliere alla nobile arte del rock urbano da dopo-lavoro. La varietà, già punto di forza del precedente sforzo, la fa da padrona anche in questo album, dove forse abbondano troppo gli arrangiamenti sofisticati di un mago di studio come John Agnello (elenco lungo quello dei suoi assisiti: Kurt Vile, Thurston Moore, Dinosaur Jr, Son Volt, Whipsaws, Mark Lanegan, Okkervil River…bastano, o devo andare avanti?). Nella prima parte il gioco funziona alla grande, fin dall'apertura di Nothing Else To Do e dalle atmosfere intense, quasi dark, di Making Love in 2014,Breaking Away e Walking Wounded.

Poi il disco perde leggermente di intensità, sebbene qualche esperimento funzioni a dovere (ad esempio il numero per archi e chitarre acustiche di Poet's Words o la bluesata Do Your Duty), ma riesce a riprendersi alla grande da No One Here in poi. Giusto in tempo per passare in area Beatles con The Land Of Lack e in zona Burt Bacharach con In Spring. Forse per approcciare il personaggio sarebbe ideale cominciare da The Honey and The Knife, che è la sua regola, e solo poi dopo arrivare a The Great Scam, che è la rottura di quella stessa regola, con l'irriverenza di chi nel suo piccolo riesce comunque a non fermarsi. E' grazie a piccoli personaggi come Admiral Freebee che il rock ha ancora qualche speranza di crescere.

lunedì 5 maggio 2014

ANGELA PERLEY


Angela Perley & The Howlin' Moons Hey Kid
[
Vital Music 2014
]
www.angelaperley.com

 File Under: just another rock and roller

di Nicola Gervasini (16/04/2014)
Rock and roll will never die! Penso lo abbia urlato qualsiasi rock-band dal 1965 ad oggi, in un concerto a caso. Eppure c'è chi di funerali al rock, o "classic-rock" come si usa chiamarlo adesso (non si capisce bene per differenziarlo da cosa), ne ha già celebrati parecchi. Un paio di chitarre, una batteria che pesta duro, un basso che pulsa, e una ragazza che unisce presenza e grinta rock: potremmo anche star presentando il nuovo album di Joan Jett, considerato che la vecchia Joan è ancora sulla breccia, ma in questo caso trattiamo del disco di esordio di una sua valida scolara. Angela Perley viene dall'Ohio, batte i palchi della zona fin dal 2009 con la sua band (Howlin'Moons) e non si fa portatrice di nessuna nuova rivoluzione: è puro e semplice rock baby, ma di quelli che ogni tanto speriamo di trovare ancora nelle lande desolate di un mercato discografico disgregato e ridotto alla svendita di preascolti.

Perché la Perley è una che sa battere su riff duri (Hurricane), sa attingere dalla tradizione (la struttura folkish diGeorge Stone), inizia con l'unico brano riflessivo della raccolta (la splendida Athens), ma quando si tratta di scrivere una buona canzone roots-rock alla Ryan Adams sa da che parte cominciare (ascoltare Ghost per credere). La parte inziale di Hey Kid convince subito, anche se ovviamente scopre già tutte le sue carte. Il resto dell'album infatti ribadisce con gusto il discorso, tramite la suadente Howlin' At The Moon (piacerebbe a Chris Isaak), la country-balladRock And Roller (con il canto della Perley che segue le orme della Cat Power più miagolante), il pop-rock alla Linda Ronstadt di Milk On The Fridge. Tutti brani che servono a dare sfogo alla chitarra di Chris Connor e alla attenta sezione ritmica di Billy Zehnal e Jeff Martin.

I brani sono autografi, nessuna cover ad attirare l'attenzione e una produzione (del sassofonista degli A.O.R. Jerry DePizzo e di Mike Landolt) che predilige suoni pieni e anche ben amplificati, e nessuno gioco di prestigio da studio. Basta anche solo il piacere di un garage rock sparato alla Hoodoo Gurus come Bad Reputation, di un bar-boogie comeRoll On Over e della chiusura con ballata acustica per commentare l'ultimo giro di birra (Down and Drunk, appunto…). Tempo per una veloce reprise di Athens, e tutti a casa. 39 minuti, il timing perfetto per non rendersi conto di quanto sia tutto già noto e non essersi ancora asciugati il sudore dei quattro salti che Hey Kid saprà farvi fare. Così si fa un vero rock and roll record.

sabato 3 maggio 2014

THE BASEBALL PROJECT


 The Baseball Project3rd 
[Yep Roc/ Audioglobe 
2014]
www.thebaseballproject.net

 File Under: Oh no! Not again

di Nicola Gervasini (31/03/2014)
"Il gioco è bello se dura poco" ci hanno insegnato da bambini. E noi a non capire perché. Se è bello, perché non approfittarne? Poi più avanti ci hanno anche insegnato che "Squadra che vince, non si cambia", e la contraddizione con il primo precetto ci sta tutta. E che fare dunque quando un progetto musicale, nato per caso in una serata in cui si parlava di miti del baseball (esattamente quello che succede in un qualsiasi bar italiano per il calcio), finisce per diventare uno dei pochi avvenimenti che hanno ravvivato il mondo del rock sotterraneo americano anche in termini di vendite? Steve Wynn era stato chiaro già ai tempi del Volume 1: in vita sua non aveva mai venduto tanto. E visto che i suoi dischi ormai vengono ignorati (e, dopo Static Transmission, anche un po' a ragione…), e visto che nessuno gli rinfaccia se in questo periodo batte sul tasto della nostalgia con le reunion dei Dream Syndicate (per non dire che batte cassa...), ecco arrivare il Volume due nel 2011, e ora, sempre come ci hanno insegato da piccoli, "Non c'è due senza tre".

I compagni di avventura non hanno avuto nulla in contrario: Linda Pitmon perché segue il compagno ovunque (e dove altro potrebbe andare?), Scott McCaughey perché segue Peter Buck ovunque (un tempo nei REM, poi nei Venus 3 di Robyn Hitchcock), Peter Buck perché, con il compare Mike Mills (ormai integrato a tempo pieno nella formazione), non si è ancora organizzato bene la vita dopo lo scioglimento dei REM. Ironie a parte, il problema di 3rd non è tanto che l'idea ha il fiato corto: noi magari siamo fuori dal mondo del baseball e non possiamo apprezzare pienamente, ma di buone storie da raccontare su uno sport ce ne saranno sempre. E tra l'altro, a ben sentire, qui ci sono alcuni dei migliori episodi della saga (la coinvolgente Hola America!, la remmiana Monument Park, la folkish Larry Yount o ancheThey Don't Know Henry). Il problema è che la massima di cui sopra - "Il gioco è bello se dura poco" - avrebbero dovuto tenerla a mente nella scelta della scaletta, perché diciotto brani per sessantadue minuti paiono effettivamente troppo.

Anche perché, sottolineiamo noi, le soluzioni musicali si ripetono spesso (quanti secondi ci hanno messo ad arrangiare e registrare un brano paurosamente ovvio come To The Veteran's Committee? Pochi, davvero pochi), i riempitivi sono tanti (a partire dall'introduzione di Stats, che proprio non si comprende), e i brani anche bruttarelli ogni tanto affiorano (Box Scores). Aggiungiamoci anche il brutto obbligo di dare spazio a tutti con la voce. Loro si divertiranno anche, e il conto in banca respira, ma se il primo album resta un momento importante della loro carriera, il nuovo volume ha lo stesso sapore dei sequel di Rocky e Rambo di un tempo: puro entertainment.

BILL RYDER-JONES

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