martedì 31 gennaio 2012

CASS McCOMBS - Humor Risk

inserito 20/12/2011

Cass McCombs
Humor Risk
[
Domino 2011
]



Non c'è modo migliore per far cadere un'opera nell'oblio di farne uscire subito un'altra in grado di oscurarne le qualità. Non deve essere stata questa la preoccupazione di Cass McCombs, artista in decisa quanto disordinata maturazione, che solo sei mesi dopo averci offerto la sua arte colta in tutta la sua scarna essenzialità (Wit's End), ci dimostra subito di cosa è capace quando sulle proprie canzoni ci ricama qualcosa di più di un semplice accompagnamento chitarra acustica/pianoforte. Humor Risk torna a riempire gli spazi come già accadeva in altre sue vecchie opere (Dropping The Writ ad esempio), stavolta però facendo tesoro di altre esperienze (Bill Callahan, Bon Iver, Iron & Wine, Silver Jews sono gli artisti che devono per forza essere passati nel suo lettore cd, ma anche il pop-rock classico dei Badfinger magari). Il titolo parla chiaro: se Wit's End era un inno al senso della morte, qui invece tutto cerca la vita e il suo paradosso, tanto che per assaporarla si usa la carta dell'ironia, nei testi così come in alcuni up-tempo decisamente sopra le righe per le sue dimesse abitudini. Insomma, provate ad immaginare che una sera il vostro amico solitamente più depresso e serioso tiri fuori dal cilindro una serie di battute micidiali e tenga banco per tutta una serata, e capirete la sorpresa.

Non che ci sia poi troppo da ridere con le storie di Mystery Mail, il cui plot (in poche parole) vede un uomo finire in galera per aver prodotto droghe illegali per conto del cugino, e lì muore infilzato con una penna dal suo compagno di cella. A voi il compito di trovare la morale della vicenda, McCombs si limita solo ad avvertire nel finale che "magari qualcuno di voi farà di quest'uomo un monumento, ma non è che tutti devono per forza essere santificati, Daniel era un bravo ragazzo, ma di certo non un santo". Ed è anche difficile dove sia il confine tra sarcasmo e fede nelle elucubrazioni mistico-filosofiche di The Living World, ma in genere Cass mette in mostra meno autocompiacimento della propria negatività esistenziale e qualche voglia di uscire allo scoperto fin dalla vena decisamente rock-oriented di certi arrangiamenti.

Ne viene fuori forse il suo disco più convincente, anche se magari il fatto di aver affidato il tutto al suo solito produttore (Ariel Rechtshaid) ha negato al tutto la possibilità di fare anche un salto di qualità maggiore e non sembrare solo una versione più elettrica ed accelerata delle sue precedenti opere. L'ironia in ogni caso sta tutta nella parodia dell'eterna ricerca della bellezza (Meet Me At the Mannequin Gallery) o dell'ipocrisia comune (Love Thine Enemy, in cui declama che "tutte le cose più idiote che dici parlano di dolore e verità). Insomma c'è sostanza, intelligenza e c'è anche da divertirsi, e per un artista che aspira più ad apparire come un personaggio avvolto dal mistero piuttosto che un grande intrattenitore è probabilmente il risultato più importante.
(Nicola Gervasini)

www.cassmccombs.com


venerdì 27 gennaio 2012

CROOKED FINGERS . Breaks In The Armor

inserito 13/12/2011

Crooked Fingers
Breaks In The Armor
[
Merge 2011
]



Se mai doveste fare mente locale su quali dischi di questi anni 2000 tramandare ai posteri, non dimenticatevi di almeno due titoli a nome Crooked Fingers, creatura musicale di Eric Bachmann, uno dei tanti - ma non uno dei soliti - artisti indipendenti genialoidi di questi ultimi anni. Anche il nostro sito ha decantato le lodi di album comeRed Devil Dawn (2003) e Dignity and Shame (2005), probabilmente quello che avrebbe prodotto Bob Dylan se si fosse mosso da Duluth nel 2000 per recarsi ad Athens invece di proseguire verso New York. Album che si barcamenavano tra normalità ed eccentricità, con il risultato forse di non aver mai veramente incantato nessuno, visto quanto sono stati dimenticati dai più. Bachmanm d'altronde ci ha messo del suo per rimanere nell'ombra, consegnando nel 2008 uno strano prodotto "pop" come Forfeit/Fortune, opera indecifrabile che noi stessi non abbiamo avuto la forza di ragionare e digerire, tanto che alla fine abbiamo deciso di lasciare al tempo il compito di confermarci l'impressione di esserci trovati di fronte ad un vero passo falso.

Altri tre anni sono passati e Bachmann ammette implicitamente il fallimento di quella svolta irrisolta, se è vero cheBreaks In The Armor tira il freno e fa decisamente marcia indietro, recuperando il suono elettroacustico dei suoi anni migliori. Una mossa doverosa forse, anche se probabilmente forzata, visto che la sensazione è che per al prima volta nella sua lunga carriera Bachmann ci abbia messo più mestiere che anima nel confezionare la parte strumentale di questi undici brani. Niente di male, intendiamoci, il talento resta considerevole, ma per la prima volta il nostro eroe si è fatto prendere la mano dall'emotività solo a livello di testi. Ne esce così un disco cupo nelle liriche, che parlano di malattie senza ritorno (Bad Blood), solitudine (Heavy Hours), ricerche senza speranza (Went To The City), laceranti addii (The Hatchet). Il tutto realizzato con molta - forse troppa - precisione grazie ai suoni confezionati da Matt Yelton (lo si ricorda al lavoro per i Pixies), e con il contro-canto della amica Liz Durrett come unico accorgimento stilistico a rompere il dialogo voce-chitarre.

Probabilmente è stato anche il riformare la sua vecchia band degli anni 90 (gli Archers Of Loaf, vero e proprio simulacro cult dell'era pre-indie rock) che gli ha ridato la voglia di ripercorre sentieri già battuti, seppur contaminati da un pessimismo che raggiunge in Your Apocalypse la vera apoteosi. Sarà dunque solo il prossimo capitolo a confermarci se questo è l'inizio di quella matura normalità (detta anche "l'era del solito disco") che prima o poi colpisce qualunque artista del globo, oppure si tratta solo di un rigenerante periodo di transizione.
(Nicola Gervasini)

www.crookedfingers.com


mercoledì 18 gennaio 2012

CESARE CARUGI - Here's To The Road


Perchè un ragazzo - ormai neanche più tanto ragazzo - di Cecina decide di investire tempo, neuroni e energia nel produrre un disco in pieno 2012, destinato a perdersi nel mare magnum del iper-produttività di questi anni 2000? Per compiacere sè stesso, certo, per piacere agli amici e conoscenti, certo, per scoprire che al di là del muro di casa esiste qualcuno che condivide la stessa passione per un rock americano che suonava nuovo alla fine degli anni 70, quando un disco così serviva a far esordire uno Steve Forbert o un Willie Nile al grido "abbiamo il nuovo Springsteen o il nuovo new Dylan!". Certo. Quante copie potrebbe vendere Here's To The Road? Quanta storia può scrivere oggi una Caroline, la ballatona che ancora mancava nel perfetto songbook del blue-collar loser, o una Too Late To Leave Montgomery che ruba un incipit a Lucinda Williams ma poi riesce a trovare una strada tutta sua per diventare uno dei vostri tormentoni quotidiani se solo gli concedete più di un ascolto? Quante citazioni potrebbe guadagnarsi fra vent'anni un disco come quello di Cesare Carugi? E quanti, come lui, hanno imparato in anni di ascolti e passione un verbo (qui è quello del più puro rock americano) e ora lo sanno parlare alla perfezione, proprio quando sono rimasti però in pochi a capirlo? Già, perchè ascoltando Here's To The Road si hanno due obbligatorie reazioni: la prima è "cazzo, ma sta roba è tutta già sentita!". La seconda invece è "cazzo, ma 'sto tipo però è bravo". Già, il Carugi canta bene, sa come si scrive una canzone, e nei limiti di una autoproduzione casalinga, ha saputo anche registrarle. Poi ci pensi, e realizzi che se un Jimmy Iovine dei tempi d'oro avesse prenotato la casa per le vacanze a Marina di Cecina, e alla sera, tra una finocchiona e un ragù di cinghiale, avesse dato un paio di dritte al Carugi per rendere più potente una There Ain't Nothin' Wrong With Goin' Nowhere (grande brano e grande titolo...), se il Michael McDermott che passa in visita di cortesia in Dakota Lights & The Man Who Shot John Lennon (grande brano e grande titolo...) fosse ancora seguito dall'entourage da major che confezionò così bene il suo lontano esordio, se lo stesso Carugi si rendesse conto che se sa tirar fuori un piccolo gioiello come London Rain (pare un pezzo di Shawn Phillips, sempre che ci si ricordi chi diavolo fosse Shawn Phillips...), allora forse può anche andare oltre certi schemi da raduno di springsteeniani, insomma, se questo album fosse uscito 30 anni fa e fosse stato registrato a New York invece che a Bagno a Ripoli....allora....forse....il discorso lo sapete. Insomma, se questa è per la strada, allora che rimanga alla strada, ma un tempo questa roba la si dava prima in pasto alla storia, e non è colpa del Carugi se ora il rock and roll è solo questione di files sul desktop da passare sull'ipod e non più di radio che lanciano colonne sonore agli avvenimenti umani. Le sue canzoni sono le stesse che avremmo amato trent'anni fa, magari facendole passare per importanti, per cui che importa se oggi lo saranno solo per quei quattro gatti che avranno tempo per ascoltarle. Ci sono, e sono davvero sulla strada. Questo è il bello. (Nicola Gervasini)

martedì 17 gennaio 2012

KD LANG - Sing it Loud


Fin dal 1984 i suoi dischi rappresentano il perfetto riassunto di decenni di musica canadese, eppure k.d.lang resta un personaggio poco riconosciuto, che ancora usa firmarsi in caratteri minuscoli nonostante abbia anche venduto parecchio. A dispetto del titolo del suo nuovo album (Sing It Loud, Nonesuch), lei è infatti una che non ha mai urlato, neppure la sua dichiarata omosessualità (resta memorabile il servizio fotografico che ritraeva Cindy Crawford intenta a rasarle la barba) o le sue lotte contro l’industria della carne. Consigliamo invece di dimenticare il personaggio ed ascoltare queste dieci canzoni sofisticate e finemente costruite, che fanno sempre più a meno della musica rurale nordamericana e si avvicinano più al jazz, al pop, e ad un gusto teatrale e melodrammatico decisamente europeo. (Nicola Gervasini)

domenica 15 gennaio 2012

COWBOY JUNKIES - The Nomad Series Vol. 3 - Sing In My Meadow

inserito 11/11/2011

Cowboy Junkies
The Nomad Series Vol. 3 - Sing In My Meadow
[
Latent/Proper Records
2011]



Continuano le pulizie di primavera nel solaio di casa Timmins, dove si trovano ancora interi bauli di progetti abbandonati, tante canzoni non sviluppate accumulate in quasi trent'anni di onorata carriera che stanno dando vita ad una serie di dischi (The Nomad Series) teoricamente destinati solo ai fans più stretti. Se il primo volume aveva dato davvero la sensazione di un mero disco di outtakes, il secondo (un tributo all'appena scomparso Vic Chesnutt) era apparso come un interessante opera unitaria. Più difficile inquadrare invece questo Sing In My Meadow, che potremmo definire come il loro "tutto ciò che non suona come una canzone dei Cowboy Junkies ma sono pur sempre i Cowboy Junkies", vale a dire un insieme di esperimenti psichedelici e distorti che rappresentano il lato meno conosciuto e celebrato della band canadese, solitamente citati come esempio supremo di sonnecchiante e fascinoso folk da camera per orecchie sensibili al troppo rumore.

Registrato in quattro giorni utilizzando materiale di recupero e qualche brano già noto (Hunted era uno dei pezzi forti di Pale Sun Crescent Moon), il disco ha un approccio live e decisamente blues fin dall'iniziale Continental Drift, splendida performance caratterizzata da una armonica che sembra provenire dagli inferi e dalla agghiacciante interpretazione di una Margo Timmins che abbandona i toni caldi in favore di un canto freddo e impenetrabile. Basterebbe questo inizio a spazzare via l'intero decennio scorso della loro produzione, se non fosse che anche questi quaranta minuti alla fine tradiscono la propria natura sperimentale, visto che in altri episodi il gioco a "cercare di non sembrare i Cowboy Junkies" mostra qualche segno di cedimento (Late Night Radio meritava un arrangiamento più caratterizzante) o qualche esagerazione (i troppi effetti usati per rendere It's Heavy Down Here più sinistra possibile o la fin troppo confusa A Bride's Price).

Quando però la chitarra inacidita di Michael Timmins si intreccia con l'armonica i risultati sono esaltanti, con momenti tesi e taglienti come 3rd Crusade o la stessa Sing In My Meadow, fino all'apoteosi del lungo assolo della conclusiva I Move On, dove persino la voce di Margot viene sovrastata dal baccano, finendo per una volta relegata a semplice strumento di accompagnamento. Resterà dunque uno strano oggetto non identificato questo volume tre, che potrebbe paradossalmente scontentare qualche vecchio adepto, ma conquistarne di nuovi, magari quelli che distrattamente non si erano mai accorti che questi Cowboy Junkies esistevano già nelle pieghe di tutte le loro opere precedenti.
(Nicola Gervasini)


www.cowboyjunkies.com


giovedì 12 gennaio 2012

SCOTT H BIRAM - Bad Ingredients

inserito 22/11/2011

Scott H Biram
Bad Ingredients
[Bloodshot
2011
]



Inventarsi uno stile personale e un tocco inimitabile è già un grande risultato per un artista, ma ben più difficile è saperlo mettere a frutto nel tempo. PrendeteScott H Biram ad esempio, uno che nel 2000, dopo aver fatto gavetta con una punk-band e un suo progetto bluegrass a largo numero di partecipanti, si è inventato il personaggio di "The Dirty Old One Man Band", chitarrista blues a metà tra Hendrix e Jon Spencer, capace di infiammare il palco in completa solitudine. La sua formula ha scatenato entusiasmi tra tutti quelli che hanno avuto la fortuna di vederlo in azione, mentre i suoi dischi (con Bad Ingredients siamo arrivati al settimo album) hanno sempre destato più curiosità che vera ammirazione. La difficoltà sta nel fatto che il suo stile chitarristico, capace di coprire da solo tutte le frequenze del vostro stereo, appare come ingabbiato quando viene ascoltato tra le mura domestiche, laddove oltre a qualche numero pirotecnico richiediamo anche canzoni di spessore e motivi per arrivare alla fine dei 45 minuti senza avere voglia di ascoltare altro.

Il suo problema è sempre stato quello di aggiungere nuovi elementi e idee conservando però la propria natura di autarchico one-man-band e resistendo alla tentazione di chiamare qualche session man in più o qualche ospite famoso per infarcire la torta. Che, come recita il titolo di questa sua nuova fatica, continua ad essere cucinata con gli elementi base del più tipico blues rauco, sporco, brutto e cattivo del mondo alternativo americano, sia esso acustico (Just Another River), da garage-band (Dontcha Lie To Me Baby) alla White Stripes in gita sul delta (Victory Song) o classicamente alla John Lee Hooker (Born In Jail) o Muddy Waters (I Want My Mojo Back). L'ingrediente a sorpresa è un nuovo tocco da cantautorato texano, se è vero che Open Road o Broke Ass potrebbero ricordare l'epica (e la "fine" dialettica…) di Calvin Russell, ma quando poi si arriva alla stracotta e stra-coverizzata Have You Ever Loved a Woman? di Lightin'Hopkins si capisce che l'autonomia creativa continua ad essere di breve durata.

Divertitevi dunque senza troppo pensarci, magari negli episodi più esplosivi come Wind Up Blind dove Scott da sfogo alle proprie distorte fantasie sul blues o con il travolgente rock&punk di Killed A Chicken Last Night, episodi che non rivoluzionano nulla, ma uniscono l'irriverenza di Mojo Nixon e Skid Roper al tagliente self-made rock di Hammell On Trial. E se anche i paragoni tirano in ballo nomi oscuri e minori come quest'ultimi, che solo chi segue il mondo della canzone americana da tempo può riconoscere, allora davvero Bad Ingredients conferma, nella sua genuina e amabile irruenza, che la carriera di Biram è destinata a rimanere nella serie B.
(Nicola Gervasini)

www.scottbiram.com


mercoledì 11 gennaio 2012

DEVON WILLIAMS - EUPHORIA


DEVON WILLIAMS

EUPHORIA

Slumberland Records

***

Piccoli indipendenti crescono: Devon Williams è ancora un nome poco noto nel firmamento della musica, dopo l’esperienza in band rimaste oggetto di culto per pochi come gli Osker, Fingers-Cut, Megamachine e Lavender Diamond. Nel 2008 aveva esordito con Carefree, piccolo gioiellino di indie-music che non ha fatto però il giusto rumore nel fracasso generale di mille piccole produzioni, ma potrebbe essere la volta buona con il secondo tentativo, il fin dal titolo e copertina colorato Euphoria, una variopinta tavolozza di stili che dal folk minimale di base si estende al pop e a quello stesso amore per gli arrangiamenti complessi dei Fleet Foxes più recenti. Ricetta non nuova ma sempre affascinante la sua, forte di una voce che sa davvero molto di new wave di primi anni 80, ma con lo stesso gusto per i vocalizzi eterei alla Bon Iver. Euphoria è infatti un disco che si appella ad un ben preciso periodo storico del rock, che passa da una title-track che potrebbe davvero essere appartenuta ai Cure meno drammatici di metà anni 80, fino a pop orchestrali come Sufferer, che avremmo potuto anche trovare tranquillamente in un disco del Lloyd Cole che fu. Sicuramente Williams contribuisce al rilancio generale di certe soluzioni degli eighties che erano forse state sepolte con troppa fretta nei ruggenti novanta, come se si potesse far risorgere lo spirito degli Echo & The Bunnymen aggiornati per i nuovi palati legati al freak-folk più recente, anche se le tastiere di Tower Of Thought sono davvero le stesse di quegli anni. Al disco manca forse il guizzo che faccia la differenza, tentato con una Right Direction che prova la via di un jingle-jangle pop che ancora una volta sta dalle parti dei Cure (ma stavolta quelli di Wish), o con una All My Living Goes To You che in tema di sovra-orchestrazioni cerca di fare concorrenza ai Beach Boys. Ma la finale La La La La, che filtra batterie e chitarre in mille effetti, comincia a far pensare che Devon avrebbe voluto nascere nei tempi in cui produttori come Steve Lillywhite confezionavano questi suoni per i nomi più alla moda e le produzioni erano imposte dall’alto. Tutte cose che lasciano il dubbio se Euphoria sia solo un disco moderno con un lieve gusto retrò, o molto probabilmente il risultato di un nuovo feticismo da studio di registrazione. In attesa di capire cosa farà lui da grande, il gioco riesce anche a divertire.

Nicola Gervasini

lunedì 9 gennaio 2012

THE DUKE & THE KING


THE DUKE & THE KING


Deve aver pensato che era giunto il momento di dare il colpo di grazia ai propri fratelli il buon Simone Felice, e così, mentre i Felice Brothers arrancano affannosamente in una modernizzazione senza troppo futuro (ascoltate il recente e deludente Celebration, Florida), lui prova a lucidare il repertorio dei suoi The Duke & The King nella speranza di rendere ben chiaro chi ci ha guadagnato di più nella separazione. Il progetto del Duca e del Re (personaggi presi da Mark Twain) è giunto al terzo disco ormai, un album senza titolo che è in verità una sorta di “The Best” dei primi due lavori (l’ottimo esordio Nothing Gold Can Stay e il più incerto ma variegato Long Live), pensato e ideato per il mercato americano, visto che le due prime pubblicazioni hanno riguardato solo l’Europa. L’occasione è dunque quella di ripartire da zero e considerare che il progetto di Simone e del suo partner Robert "Chicken" Burke ha tutte le credenziali per produrre in futuro ottime cose, visto quanta grazia già ci offrono i questi solchi. Se non le conoscete, scoprite allora brani come If You Ever Get Famous o The Morning I Get To Hell, che nulla hanno da invidiare all’applauditissimo John Grant, oppure l’irresistibile folk-pop di Shaky (come si fa a resistere ad un ritornello che canta “The Jackson 5 grew up so fast, Cmon baby, Just come and shake that country ass”?), o la bella No Easy Way Out cantata dalla violinista Simi Stone. Il riferimento a John Grant può aiutare per capire lo stile: folk americano e pop inglese qui s’intersecano alla perfezione, con in più qualche inserimento percussivo un po’ obliquo, logico contributo di Burke, un nato alla scuola per deejay di George Clinton (anche il batterista Nowel Haskins viene dal giro dei Parliament). Ma quello che piace, anche risentendo questa panoramica che si divide quasi equamente tra estratti dei loro primi due lavori, è proprio la scrittura delle canzoni, malinconica ma mai autoindulgente, con un’attenzione particolare alla melodia senza però scadere nell’ovvio (sentite anche una semplice folk-song come O’Gloria). Come sempre accade in questi casi la scelta delle canzoni non collima perfettamente con quella che avremmo operato noi (ad esempio dal secondo album avremmo evitato la pesante Just You And I), e dal primo album manca all’appello qualche titolo fondamentale, ma in attesa di verificare la positiva evoluzione del duo, The Duke & The King è un consigliatissimo cd per essere aggiornati su una delle migliori nuove realtà della canzone americana.

Nicola Gervasini

domenica 8 gennaio 2012

JOSH ROUSE - Josh Rouse and The Long Vacations

Josh Rouse
Josh Rouse and The Long Vacations
(Bedroom 2011)


Gli album di Josh Rouse sono come i titoli di testa dei film di Woody Allen: sempre uguali da anni. Canzoni brevi, durate complessive sempre sotto i quaranta minuti (qui siamo poco sopra i 25...) e una generale attitudine al modesto, il leggero, il soffice e sussurrato. Una ricetta che nei primi anni ha sorpreso e regalato, se non capolavori, perlomeno titoli come Dressed Up Like Nebraska, 1972 o Nashville che ancora oggi meritano di essere rivisitati di tanto in tanto. Da qualche anno però la formula è caduta in una stanca ripetitività, e l'aver puntato sul taglio autobiografico fin dal precedente El Tourista (lui ora vive in Spagna, dove ha trovato nella bella Paz Suay l'amore di una vita) ha spostato solo il target stilistico dal country/folk con vaghe tinte soul dei primi anni, verso il mondo dei ritmi latini, ma senza cambiare poi troppo il succo del discorso. Josh Rouse and The Long Vacations inizia là dove finiva lo sforzo precedente, da 9 piccoli brani che si muovono lascivamente tra percussioni e sfumature jazz, strizzatine d'occhio al beach-pop alla Jack Johnson e pochi brani di sostanza. Tanta classe, suoni perfettini, una matematica precisione che fa si che tutta la seconda parte del disco sia composta da brani che durano esattamente 3 minuti e dieci secondi, e dunque tanta noia fortunatamente di breve durata.
(Nicola Gervasini)

www.joshrouse.com

sabato 7 gennaio 2012

DIEGO GARCIA - Laura

Diego Garcia
Laura
(Nacional 2011)


Prova la carta del disco solista votato ad un tenue folk(-pop?) Diego Garcia, leader degli Elefant, paladini negli primi anni 2000 di un ritorno alle atmosfere dark dei primi anni 80, e forse per questo piccoli anticipatori del revival del decennio di questi ultimi mesi. Prodotto, arrangiato, ma soprattutto interamente suonato da Jorge Elbrecht, leader dei Violens, Laura è un disco che cerca i toni autunnali insistendo molto su una sezione archi ottenuta sovra-registrando più parti suonate da Daniel Bensi, unico session-man accreditato nell'album. L'effetto è sicuramente suggestivo, ma basta anche solo ascoltare la sinuosa e melodicaNothing To Hide per capire come questi toni foschi si scontrano un po' con una scrittura (e anche degli impasti vocali) che restano comunque ancorati ad alcuni clichè pop di trent'anni fa. E' probabile che secondo lui Laura sia un ottimo omaggio ai cantautori degli anni 60, magari contando sul fatto che tutti riconosciamo nell'arpeggio di Separate Livesun'eco della Everybody's Talking di Harry Nilsson, o magari ci aspettiamo di scoprire che la title-track possa anche essere stata una vecchia hit di Nancy Sinatra, così come è facile cercare segni di Scott Walker nella tragedia di Stay, ma alla fine il risultato sa più di esercizio di stile, che non va oltre l'aggettivo "curioso".
(Nicola Gervasini
)

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