sabato 29 giugno 2013

MELISSA GREENER


 Melissa Greener Transistor Corazon
[
Anima 
2013]
www.melissagreener.com
www.cdbaby.com/cd/melissagreener

 File Under: Emo-folk-crooner
di Nicola Gervasini (05/06/2013)
Emo-folk-crooner. Sì, avete letto bene. E non è che oggi ho deciso di inventarmi nuove categorie per crisi d'astinenza da novità epocali in campo folk, la dicitura se l'è auto-affibbiata nel suo sito personale la stessa Melissa Greener. Una giustificazione d'immagine più che di stile musicale, se è vero che la country-girl dai capelli fluenti vista sulla copertina del suo disco d'esordio (Fall From The Sky del 2006) ha oggi lasciato il posto ad una aggressiva dark-lady con sguardo deciso, capelli corti con ciuffo (in stile Alejandro Escovedo di un tempo si potrebbe dire…) e qualche ammiccamento androgino che va molto di moda tra le folk-singer moderne.

Storia singolare comunque la sua: figlia di una vocalist che cantava durante gli spogliarelli di un Playboy Club di Detroit e di un hippie di passaggio, la Greener da giovane ha viaggiato a lungo per il mondo per sfogare la sua passione per la montagna (il suo lungo tour da trekker ha toccato anche le Alpi) e per la solitudine. Tornata in patria, è stata fagocitata dall'industria discografica di Nashville, forse non più capace di intuire che la ragazza non aveva nessuna intenzione di fare la country-chick tutta capelli cotonati e american pie nella vita. E così, se già il precedente Dwelling del 2010 faceva intuire direzioni più indie-oriented, Transistor Corazon si getta definitivamente in un area da american-singer che unisce la vena melodica di Tift Merritt (Ghost In The Van), certe irriverenze alla Neko Case (The Mess Love Made, ma se vogliamo anche le foto in topless nel booklet), ma fondamentalmente tanto rispetto verso il mondo delle songwriter più classiche.

Prodotto da Brad Jones, uno bravo a sostenere le melodie con poco senza mai sembrare tropo scarno (ne sanno qualcosa Hayes Carll, Josh Rouse o gli Over The Rhine che hanno beneficiato dei suoi servigi), Transistor Corazon è il classico prodotto indipendente della nuova roots-music, più intraprendente nella confezione che nei risultati, e che cerca nella varietà di arrangiamenti la propria versatilità (fiati, archi, cori, vibrafoni, non manca nulla). Le chicche dell'album sono la messicaneggiante title-track (più o meno come se Joan Baez cantasse un pezzo di Tom Russell), e le due cover, una If I Fell dei Beatles resa autunnale da un malinconico intreccio di archi e chitarra acustica (che è poi molto simile all'arrangiamento di Yesterday) e una sorprendente That's What Makes You Strong di Jesse Winchester (era sul buon Gentleman Of Leisure del 1999) corredata da fiati e un mood decisamente black. Per il resto la penna della Greener piace anche se non va troppo oltre gli schemi di genere (AlwaysWhy), ma anche solo la partenza diEverybody Wants Some (molto radiofonica) e la splendida Jackson valgono l'acquisto di un'artista che ritroveremo sicuramente sulla nostra strada.


sabato 22 giugno 2013

BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB

BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB
SPECTER AT THE FEAST
Co-op/vagrant
***1/2

Probabilmente nessuno meglio dei Black Rebel Motorcycle Club ha incarnato meglio le anime del rock anni 2000. Il fatto che il loro esordio sia proprio posto all’inizio del nuovo secolo è simbolico. Spesso inquadrati nell’area del garage-rock alternativo, la lor musica si è parecchio evoluta nel corso di sei album che, tra gli ovvi alti e bassi, ha sempre tenuto un livello più che ragguardevole (ho una predilezione per Howl del 2005, ma c’è comunque l’imbarazzo della scelta). Specter At The Feast, settimo capitolo della loro saga, potrebbe essere sia l’epilogo di un periodo creativamente esaltante, sia il nuovo inizio per un futuro dalle tinte più incerte. La band di Peter Hayes e Robert Levon Been (a cui va aggiunta l’energica batterista Leah Shapiro, in forza da ormai più di cinque anni) maneggia ormai con sicurezza la nuova psichedelìa indie (Fire Walker), i soliti echi di stoner-rock (Let The Day Begin, dedicata al loro produttore storico – nonché padre di Robert -  Michael Been, scomparso tre anni fa, che nel 2000 sostenne con quello slogan la campagna delle presidenziali di Al Gore) e sapienti impasti vocali da nuovo indie-folk (Returning). Sta proprio nell’aver accentuato il caleidoscopio di stili la novità di Specter At The Feast, che fa di varietà virtù, sciorinando folk-song sonnacchiose (Lullaby) accanto ad un travolgente rock-techno-dance come Hate The Taste, o ancora le voglie grunge di Rival contrapposte a quelli più garage-noise di Teenage Disease (roba che i Sonic Youth masticavano già trent’anni fa, ma chissà perché le generation-songs restano sempre attuali e moderne).  Il risultato è un album interessante, anche se un po’ sfilacciato, con anche qualche passaggio a vuoto (l’onirica Some Kind Of Ghost) e qualche nuovo esperimento ancora da mettere a fuoco (Sometimes The Light, probabilmente un omaggio ai Beach Boys?). Il finale comunque, con l’epica e polemica Sell It e la lunga Lose Yourself, è da band di primo livello. Probabilmente Specter At The Feast non risolve il dubbio su quale possa essere la direzione della band nei prossimi capitoli, ma certamente li conferma come una delle realtà (in prospettiva) più durature e costanti degli anni zero.

Nicola Gervasini

giovedì 20 giugno 2013

THE STROKES

THE STROKES
COMEDOWN MACHINE
RCA
**
Gira tanta musica diversa a New York, lo sappiamo bene tutti. Se persino il monolitico rock urbano di Lou Reed ogni tanto si è fatto prendere da qualche sapore alternativo, figuriamoci una band come gli Strokes, eterna promessa (non si capisce mai quanto poi mantenuta) del rock “alternativo ma con un occhio al mainstream” anni 2000. Fece rumore il loro If This It nel 2001, e lo fece nella maniera più semplice, con le chitarre di Albert Hammond, Jr. a inseguire le melodie “rock quasi punk ma a tutti gli effetti pop” del leader Julian Casablancas. Brani semplici, diretti, radiofonici, commerciabilissimi senza essere per forza commerciali, ma digeribili anche da palati più esigenti. Niente di speciale in verità, se non forse davvero il disco giusto piombato nel momento più stanco e incerto della storia rock. Da allora però gli Strokes, tra litigi e pause di riflessione, non hanno più ripetuto l’exploit, pubblicando tre album accolti sempre più o meno freddamente da critica e pubblico. Non è un caso che Comedown Machine esca subito a ridosso del precedente Angles , forse davvero l’episodio più debole della loro storia. Perché fin dalle prime note di Tap Out si capisce che la band è alla disperata ricerca di una svolta, il colpo a sorpresa, che poi troppo a sorpresa non è se è vero che certi suoni anni ottanta, di cui questi brani sono infarciti a dismisura, sono almeno due-tre anni che ce li stiamo ritrovando un po’ ovunque. Operazione recupero più che nostalgia, sempre per quella teoria che gli ottanta saranno stati un decennio spesso musicalmente detestabile in quanto a soluzioni produttive, ma pur probabilmente sempre uno dei periodo più vivi, variopinti e creativi della musica. La buona notizia arriva comunque sul lato scrittura, dove Casablancas pare almeno aver ritrovato il proprio savoir faire in termini di brani power-pop veloci e immediati, come dimostra l’iniziale Tap Out, Happy Ending o Slow Animals. Ma la voglia di amalgamare il synth-pop di un tempo con il loro sound porta a qualche esagerazione di troppo che sa di scivolone nel puro trash come One Way Trigger, Chances o il pasticcio ipnotico di 80's Comedown Machine, manifesto programmatico del nuovo corso. Il classico suono degli Strokes comunque non è morto, e vive in brani come All The Time, 50 50 o Partners in Crime, ma non basta ad elevare un disco che tiene aperte tutte le perplessità sulla tenuta in lungo periodo della band.  

Nicola Gervasini

martedì 18 giugno 2013

JOSH KRAJCIK

JOSH KRAJCIK
BLINDLY, LONELY, LOVELY
BMG
***

Dobbiamo armarci sempre di buona volontà nel non avere pregiudizi quando si presenta un artista che negli Stati Uniti è noto soprattutto come uno dei talentuosi partecipanti dell’edizione 2011 di X Factor. Bisogna solo realizzare che forse oggi anche Smokey Robinson o Carole King sarebbero costretti a passare nelle fauci del talent-show per emergere. E va detto che Josh Krajcik aveva già due album all’attivo prima di diventare uno degli eroi della trasmissione, oltre ad una lunga gavetta da new-soul singer sui palchi di mezza America. Se vi presentiamo Blindly, Lonely, Lovely è dunque solo perché vorremmo evidenziare come anche in questi tempi in cui le vie di mezzo sono rare (pochissimi dischi prodotti da major generalmente fatti di spazzatura contro una miriade sconfinata di dischi autoprodotti o di piccole eroiche etichette che si fa a fatica a starci dietro), si può fare un prodotto di gusto, di valore…e di alto grado di commerciabilità. Prodotto da un pool di mestieranti della pop-music, capitanati dal veterano Steve Kipner, l’uomo che si è inventato Olivia Newton-John più di trent’anni fa insieme a molti successi della black-music anni settanta (oggi fa parte del team di Christina Aguilera), Blindly, Lonely, Lovely fa capire subito dove vuole andare a parare fin dalle percussioni iniziali di Nothing, che sono le stesse di Inner City Blues di Marvin Gaye. Ricetta già vista: un blue-eyed soul virato a pop moderno con grandi secchiate di Philly-sound, una voce profonda ma capace di seguire perfettamente le armonie per non uscire troppo dal seminato  in caso di programmazioni radiofoniche. Ma per fortuna anche brani con spina dorsale abbastanza solida per reggere il tempo come Back Where We Belong e una produzione comunque attenta a non sforare nel pacchiano anche quando si passa alla ballata romantica (No Better Lovers). soul-ballad classiche (The Remedy) o acustiche (Close Your Eyes) accompagnano l’ascolto senza scossoni ma con stile (solo Don’t Make Me Hopeful forse scivola in arrangiamenti poppish un po’ troppo scontati). Su tutto svetta la sua bella voce, figlia legittima della lezione di Teddy  Pendergrass e Lionel Richie. Non è certo un disco fondamentale, ma sono pur sempre 35 minuti di buon soul-pop, oltretutto tutti scritto di suo pugno (e quando sfiora atmosfere alla Terry Callier come in One Thing She’ll Never Know qualche applauso lo strappa). Fossero così tutti gli artisti sfoggiati dall’X-Factor nostrano saremmo anche più felici…
Nicola Gervasini


domenica 16 giugno 2013

JOHNNY DUK & The Dusty Old Band

Johnny Duk & The Dusty Old Band
On The Other Side
(Johnny Duk/PBR Record, 2013)
File Under: Blue-collar cantonale

Avevamo già incontrato lo svizzero Johnny Duk (al secolo Fabio Ducoli) tre anni fa in occasione dell’uscita del suo The River Of Dreams, e lo ritroviamo con piacere con il nuovo On The Other Side, album partorito con la sua fedele Dusty Old Band. Disco dedicato ai minatori svizzeri (un po’ come fu il Pica! di Van de Sfroos con quelli valtellinesi), in particolare quelli italiani morti nel 1908 durante la costruzione del tunnel ferroviario di Lötschberg, On The Other Side è album intriso di mitologia da blue-collar rock fin dall’iconica copertina e dai testi. Rispetto al disco precedente, decisamente improntato su sonorità acustiche (ma qui non mancano comunque i rimandi, come la conclusiva When I Was A Child), il nuovo sforzo vira decisamente sull’elettrico fin dal pesante riff che sostiene Broken Heart o dalle spigolature dell’epica My Brother e di Friends For A Lifetime. Quello che però si apprezza maggiormente è la varietà di stili, che toccano la musica irlandese (Irish On The Rocks), sapori di musica popolare (la divertente Little Country in a Big World), omaggi folk (la cover di Wayfaring Stranger) fino alle ariose ballate West Coast-style come Fly Away. Piacciono anche la pianistica Breath In, Breath Out (duetto con Michela Domenici) e il roccioso delta-blues alla Lynyrd Skynyrd  di Play My Guitar. Disco ben auto-prodotto e spesso caratterizzato dal violino e dalla fisarmonica di Claudia Klinzing (completano la band Maurizio Tedesco al basso e Oreste Pianezzi alla batteria), On The Other Side mostra un appassionato che, con tutti i limiti del caso, ha ormai ben imparato tutto il know-how del buon roots-rocker.
(Nicola Gervasini)












sabato 8 giugno 2013

BACKMASKING...un po' di storia


Dobbiamo tutto a quei burloni dei Beatles e al vizio di morire di Paul McCartney. O più precisamente ad un pomeriggio passato da John Lennon e il produttore George Martin a giocare con i nastri di quello che sarà l’album Revolver nel 1966. John si appassionò all’arte del backmasking quando registrò al contrario le basi strumentali di Tomorrow Never Knows e Rain, ma in seguito scoprì che il giochino funzionava anche con le voci. E così, anche solo “per vedere l’effetto che fa”, alla fine di I’m So Tired (brano del White Album uscito nel 1968), buttò lì la prima frase che gli venne mente. Quando uno studente dell’università del Michigan scoprì quel Paul Is Dead mugolato al contrario nel finale del brano, la storia dei messaggi subliminali nel rock ebbe ufficialmente inizio (e con quella anche il mito che il McCartney odierno sia solo un riuscito sosia di quello originale). E non ai già per loro natura satanici Rolling Stones (che professavano l’anti-Verbo alla luce del sole attraverso il testo di Sympathy for the Devil o mettendo foto di teste di caprone nelle copertine degli album), ma in qualche modo sempre ai Beatles dobbiamo l’utilizzo della tecnica per culti oscuri. L’inclusione (casuale pure questa) del padre del satanismo moderno Aleister Crowley tra i vip della copertina di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band rese infatti popolare tra i fans del rock un personaggio altrimenti destinato all’oblio, tanto che Jimmy Page ne prese sul serio il culto e infarcì dei suoi simboli occulti ogni copertina dei Led Zeppelin, oltre che seminare messaggi nascosti nella loro super-hit Starway To Heaven del 1971 (dalla quale affiora a ritroso un chiaro I've got to live for Satan!). Ma i padri indiscussi del genere restano i Black Sabbath, che nel 1970 per primi inserirono un eloquente Sono Satana! Amami! nel loro album d’esordio. In quegli anni il tutto rimaneva però a livello di capriccio da rockstar, perché pochissimi a casa possedevano i mezzi tecnici per scovare queste frasi. Ma nel 1973 William Friedkin nel film L’esorcista mostra il primo messaggio satanico al grande pubblico (il diavolo comunica tramite una cassetta riprodotta al contrario), e i fans del rock capirono il trucco. La maggiore diffusione delle musicassette li aiutò nella spasmodica ricerca di messaggi nascosti, una caccia all’oro che trova la sua miniera nel 1974, quando nel vendutissimo album Eldorado degli Electric Light Orchestra (satanico già nella copertina) si scopre un Jeff Lynne in vena di burle che blatera È lui il cattivo, il Cristo infernale. Si dice che siamo uomini morti, ma chi ha il Marchio vivrà. E la moda esplode. Lo stesso Lynne all’argomento dedicherà addirittura un autoironico concept album (Secret Messages), uscito nel 1983 in piena era di caccia alle streghe scatenata dai movimenti cristiani americani. L’avvento dell’heavy metal rende infatti la pratica una consuetudine (Tom Araya degli Slayer ammetterà la natura puramente scenografica di tali messaggi), il fenomeno scatena congressi e articoli scientifici sui pericoli per le deboli e plasmabili menti dei giovani, fino alla clamorosa causa legale intentata nel 1984 dai genitori di un ragazzino suicida contro Ozzy Osbourne, reo di averlo istigato al folle atto con i messaggi subliminali tratti dal suo album Blizzard Of Ozz. Gli anni ottanta, era di splatter e band con nomi e copertine da Grand Guignol, saranno dunque l’età dell’oro del backmasking, se è vero che non si fecero mancare il loro bravo messaggio satanico neppure la zuccherosa Carrie degli Europe o il Michael Jackson che urla Satana è in me! in Beat It. Ma i messaggi subliminali hanno continuato a sopravvivere anche negli anni successivi, fino ai giorni nostri, indipendentemente dal genere (dal grunge di Soundgarden e Pearl Jam, fino al pop di Madonna e Britney Spears e al rap di Eminem), e dal tipo di messaggio, (da quelli a sfondo sessuale di Prince, fino a vere o proprie vendette personali, come quella del Roger Waters che in Amused To Death del 1993 irrise Stanley Kubrick in seguito ad un litigio). Uno scherzo davvero ben riuscito quello di John.


Nicola Gervasini

giovedì 6 giugno 2013

JIMI HENDRIX ...again

Oh No! Un altro album di Jimi Hendrix! Davvero incredibile quanti dischi possa fare un morto, eppure People, Hell and Angels (Legacy), nuova raccolta di inediti del chitarrista di Seattle, pare proprio l’anello mancante della sua breve storia artistica. Il produttore Eddie Kramer assicura che trattasi delle ultime registrazioni in studio disponibili, e giura che stavolta non sono stati fatti aggiustamenti e sovraregistrazioni, il che appare strabiliante vista la perfezione di queste versioni di brani già comunque noti. Stiamo parlando dell’Hendrix più maturo, quello che tra il 1968 e il 1969 si chiuse a registrare nei Plant Studios di New York con la nuova sezione ritmica composta da Billy Cox e Buddy Miles. Insomma, a parte qualche intruso incluso per rimpinguare il piatto (Let me Love You ad esempio è una registrazione antecedente con il sassofonista Lonnie Youngblood,  Izabella e Easy Blues sono invece il frutto di sessions con l’estemporanea band con cui si presentò a Woodstock), People, Hell and Angels è la cosa più vicina a quello che sarebbe dovuto essere il suo quarto album, se non fosse che tra mille ripensamenti, stravolgimenti e riscritture, Jimi non lo porterà mai a termine. Un Hendrix colto nel pieno del passaggio dal blues da power-trio degli Experience a quelle influenze jazz che probabilmente gli impedirono di essere soddisfatto di queste registrazioni quanto lo siamo noi.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...