Storia singolare comunque la sua: figlia di una vocalist che cantava durante gli spogliarelli di un Playboy Club di Detroit e di un hippie di passaggio, la Greener da giovane ha viaggiato a lungo per il mondo per sfogare la sua passione per la montagna (il suo lungo tour da trekker ha toccato anche le Alpi) e per la solitudine. Tornata in patria, è stata fagocitata dall'industria discografica di Nashville, forse non più capace di intuire che la ragazza non aveva nessuna intenzione di fare la country-chick tutta capelli cotonati e american pie nella vita. E così, se già il precedente Dwelling del 2010 faceva intuire direzioni più indie-oriented, Transistor Corazon si getta definitivamente in un area da american-singer che unisce la vena melodica di Tift Merritt (Ghost In The Van), certe irriverenze alla Neko Case (The Mess Love Made, ma se vogliamo anche le foto in topless nel booklet), ma fondamentalmente tanto rispetto verso il mondo delle songwriter più classiche. Prodotto da Brad Jones, uno bravo a sostenere le melodie con poco senza mai sembrare tropo scarno (ne sanno qualcosa Hayes Carll, Josh Rouse o gli Over The Rhine che hanno beneficiato dei suoi servigi), Transistor Corazon è il classico prodotto indipendente della nuova roots-music, più intraprendente nella confezione che nei risultati, e che cerca nella varietà di arrangiamenti la propria versatilità (fiati, archi, cori, vibrafoni, non manca nulla). Le chicche dell'album sono la messicaneggiante title-track (più o meno come se Joan Baez cantasse un pezzo di Tom Russell), e le due cover, una If I Fell dei Beatles resa autunnale da un malinconico intreccio di archi e chitarra acustica (che è poi molto simile all'arrangiamento di Yesterday) e una sorprendente That's What Makes You Strong di Jesse Winchester (era sul buon Gentleman Of Leisure del 1999) corredata da fiati e un mood decisamente black. Per il resto la penna della Greener piace anche se non va troppo oltre gli schemi di genere (Always, Why), ma anche solo la partenza diEverybody Wants Some (molto radiofonica) e la splendida Jackson valgono l'acquisto di un'artista che ritroveremo sicuramente sulla nostra strada. |
sabato 29 giugno 2013
MELISSA GREENER
sabato 22 giugno 2013
BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB
BLACK
REBEL MOTORCYCLE CLUB
SPECTER AT THE FEAST
Co-op/vagrant
***1/2
Probabilmente nessuno
meglio dei Black Rebel Motorcycle Club
ha incarnato meglio le anime del rock anni 2000. Il fatto che il loro esordio
sia proprio posto all’inizio del nuovo secolo è simbolico. Spesso inquadrati
nell’area del garage-rock alternativo, la lor musica si è parecchio evoluta nel
corso di sei album che, tra gli ovvi alti e bassi, ha sempre tenuto un livello
più che ragguardevole (ho una predilezione per Howl del 2005, ma c’è comunque l’imbarazzo della scelta). Specter
At The Feast, settimo capitolo della loro saga, potrebbe essere sia
l’epilogo di un periodo creativamente esaltante, sia il nuovo inizio per un
futuro dalle tinte più incerte. La band di Peter
Hayes e Robert Levon Been (a cui
va aggiunta l’energica batterista Leah Shapiro, in forza da ormai più di cinque
anni) maneggia ormai con sicurezza la nuova psichedelìa indie (Fire Walker), i soliti echi di
stoner-rock (Let The Day Begin,
dedicata al loro produttore storico – nonché padre di Robert - Michael Been, scomparso tre anni fa, che nel
2000 sostenne con quello slogan la campagna delle presidenziali di Al Gore) e
sapienti impasti vocali da nuovo indie-folk (Returning). Sta proprio nell’aver accentuato il caleidoscopio di
stili la novità di Specter At The Feast,
che fa di varietà virtù, sciorinando folk-song sonnacchiose (Lullaby) accanto ad un travolgente
rock-techno-dance come Hate The Taste,
o ancora le voglie grunge di Rival
contrapposte a quelli più garage-noise di Teenage
Disease (roba che i Sonic Youth masticavano già trent’anni fa, ma chissà perché
le generation-songs restano sempre
attuali e moderne). Il risultato è un
album interessante, anche se un po’ sfilacciato, con anche qualche passaggio a
vuoto (l’onirica Some Kind Of Ghost)
e qualche nuovo esperimento ancora da mettere a fuoco (Sometimes The Light, probabilmente un omaggio ai Beach Boys?). Il
finale comunque, con l’epica e polemica Sell
It e la lunga Lose Yourself, è da
band di primo livello. Probabilmente Specter
At The Feast non risolve il dubbio su quale possa essere la direzione della
band nei prossimi capitoli, ma certamente li conferma come una delle realtà (in
prospettiva) più durature e costanti degli anni zero.
Nicola Gervasini
giovedì 20 giugno 2013
THE STROKES
THE
STROKES
COMEDOWN
MACHINE
RCA
**
Gira tanta musica diversa a New York, lo sappiamo
bene tutti. Se persino il monolitico rock urbano di Lou Reed ogni tanto si è
fatto prendere da qualche sapore alternativo, figuriamoci una band come gli Strokes, eterna promessa (non si
capisce mai quanto poi mantenuta) del rock “alternativo ma con un occhio al
mainstream” anni 2000. Fece rumore il loro If
This It nel 2001, e lo fece nella maniera più semplice, con le chitarre di Albert Hammond, Jr. a inseguire le
melodie “rock quasi punk ma a tutti gli effetti pop” del leader Julian Casablancas. Brani semplici, diretti,
radiofonici, commerciabilissimi senza essere per forza commerciali, ma
digeribili anche da palati più esigenti. Niente di speciale in verità, se non
forse davvero il disco giusto piombato nel momento più stanco e incerto della
storia rock. Da allora però gli Strokes, tra litigi e pause di riflessione, non
hanno più ripetuto l’exploit, pubblicando tre album accolti sempre più o meno freddamente
da critica e pubblico. Non è un caso che Comedown Machine esca subito a
ridosso del precedente Angles , forse
davvero l’episodio più debole della loro storia. Perché fin dalle prime note di
Tap Out si capisce che la band è alla
disperata ricerca di una svolta, il colpo a sorpresa, che poi troppo a sorpresa
non è se è vero che certi suoni anni ottanta, di cui questi brani sono
infarciti a dismisura, sono almeno due-tre anni che ce li stiamo ritrovando un
po’ ovunque. Operazione recupero più che nostalgia, sempre per quella teoria
che gli ottanta saranno stati un decennio spesso musicalmente detestabile in
quanto a soluzioni produttive, ma pur probabilmente sempre uno dei periodo più
vivi, variopinti e creativi della musica. La buona notizia arriva comunque sul
lato scrittura, dove Casablancas pare almeno aver ritrovato il proprio savoir faire in termini di brani
power-pop veloci e immediati, come dimostra l’iniziale Tap Out, Happy Ending o Slow Animals. Ma la voglia di amalgamare il
synth-pop di un tempo con il loro sound porta a qualche esagerazione di troppo che
sa di scivolone nel puro trash come One
Way Trigger, Chances o il
pasticcio ipnotico di 80's Comedown
Machine, manifesto programmatico del nuovo corso. Il classico suono degli
Strokes comunque non è morto, e vive in brani come All The Time, 50 50 o Partners in Crime, ma non basta ad elevare un
disco che tiene aperte tutte le perplessità sulla tenuta in lungo periodo della
band.
Nicola Gervasini
martedì 18 giugno 2013
JOSH KRAJCIK
JOSH
KRAJCIK
BLINDLY,
LONELY, LOVELY
BMG
***
Dobbiamo armarci sempre di buona volontà nel non
avere pregiudizi quando si presenta un artista che negli Stati Uniti è noto soprattutto
come uno dei talentuosi partecipanti dell’edizione 2011 di X Factor. Bisogna
solo realizzare che forse oggi anche Smokey Robinson o Carole King sarebbero
costretti a passare nelle fauci del talent-show per emergere. E va detto che Josh Krajcik aveva già due album
all’attivo prima di diventare uno degli eroi della trasmissione, oltre ad una
lunga gavetta da new-soul singer sui palchi di mezza America. Se vi presentiamo
Blindly, Lonely, Lovely è dunque solo perché vorremmo
evidenziare come anche in questi tempi in cui le vie di mezzo sono rare
(pochissimi dischi prodotti da major generalmente fatti di spazzatura contro
una miriade sconfinata di dischi autoprodotti o di piccole eroiche etichette
che si fa a fatica a starci dietro), si può fare un prodotto di gusto, di
valore…e di alto grado di commerciabilità. Prodotto da un pool di mestieranti
della pop-music, capitanati dal veterano Steve
Kipner, l’uomo che si è inventato Olivia Newton-John più di trent’anni fa
insieme a molti successi della black-music anni settanta (oggi fa parte del
team di Christina Aguilera), Blindly,
Lonely, Lovely fa capire subito dove vuole andare a parare fin dalle
percussioni iniziali di Nothing, che sono le stesse di Inner City Blues
di Marvin Gaye. Ricetta già vista: un blue-eyed soul virato a pop moderno con
grandi secchiate di Philly-sound, una voce profonda ma capace di seguire
perfettamente le armonie per non uscire troppo dal seminato in caso di programmazioni radiofoniche. Ma
per fortuna anche brani con spina dorsale abbastanza solida per reggere il
tempo come Back Where We Belong e una produzione comunque attenta a non
sforare nel pacchiano anche quando si passa alla ballata romantica (No
Better Lovers). soul-ballad classiche (The Remedy) o acustiche (Close
Your Eyes) accompagnano l’ascolto senza scossoni ma con stile (solo Don’t
Make Me Hopeful forse scivola in arrangiamenti poppish un po’ troppo
scontati). Su tutto svetta la sua bella voce, figlia legittima della lezione di
Teddy Pendergrass e Lionel Richie. Non è
certo un disco fondamentale, ma sono pur sempre 35 minuti di buon soul-pop, oltretutto
tutti scritto di suo pugno (e quando sfiora atmosfere alla Terry Callier come
in One Thing She’ll Never Know qualche applauso lo strappa). Fossero
così tutti gli artisti sfoggiati dall’X-Factor nostrano saremmo anche più
felici…
Nicola Gervasini
domenica 16 giugno 2013
JOHNNY DUK & The Dusty Old Band
On
The Other Side
(Johnny Duk/PBR Record, 2013)
File Under: Blue-collar cantonale
Avevamo già incontrato lo svizzero Johnny Duk (al secolo Fabio Ducoli) tre
anni fa in occasione dell’uscita del suo The River Of Dreams, e lo
ritroviamo con piacere con il nuovo On The Other Side, album
partorito con la sua fedele Dusty Old Band. Disco dedicato ai minatori
svizzeri (un po’ come fu il Pica! di Van de Sfroos con quelli
valtellinesi), in particolare quelli italiani morti nel 1908 durante la
costruzione del tunnel ferroviario di Lötschberg, On The Other Side è
album intriso di mitologia da blue-collar rock fin dall’iconica copertina e dai
testi. Rispetto al disco precedente, decisamente improntato su sonorità
acustiche (ma qui non mancano comunque i rimandi, come la conclusiva When I
Was A Child), il nuovo sforzo vira decisamente sull’elettrico fin dal
pesante riff che sostiene Broken Heart o dalle spigolature dell’epica My
Brother e di Friends For A Lifetime. Quello che però si apprezza
maggiormente è la varietà di stili, che toccano la musica irlandese (Irish
On The Rocks), sapori di musica popolare (la divertente Little Country
in a Big World), omaggi folk (la cover di Wayfaring Stranger) fino
alle ariose ballate West Coast-style come Fly Away. Piacciono anche la
pianistica Breath In, Breath Out (duetto con Michela Domenici) e il
roccioso delta-blues alla Lynyrd Skynyrd
di Play My Guitar. Disco ben auto-prodotto e spesso caratterizzato
dal violino e dalla fisarmonica di Claudia Klinzing (completano la band
Maurizio Tedesco al basso e Oreste Pianezzi alla batteria), On The Other
Side mostra un appassionato che, con tutti i limiti del caso, ha ormai ben
imparato tutto il know-how del buon roots-rocker.
(Nicola Gervasini)
sabato 8 giugno 2013
BACKMASKING...un po' di storia
Nicola Gervasini
giovedì 6 giugno 2013
JIMI HENDRIX ...again
Oh No! Un altro album di Jimi
Hendrix! Davvero incredibile quanti dischi possa fare un morto, eppure People,
Hell and Angels (Legacy), nuova raccolta di inediti del chitarrista di
Seattle, pare proprio l’anello mancante della sua breve storia artistica. Il produttore
Eddie Kramer assicura che trattasi delle ultime registrazioni in studio disponibili,
e giura che stavolta non sono stati fatti aggiustamenti e sovraregistrazioni,
il che appare strabiliante vista la perfezione di queste versioni di brani già
comunque noti. Stiamo parlando dell’Hendrix più maturo, quello che tra il 1968
e il 1969 si chiuse a registrare nei Plant Studios di New York con la nuova
sezione ritmica composta da Billy Cox e Buddy Miles. Insomma, a parte qualche
intruso incluso per rimpinguare il piatto (Let
me Love You ad esempio è una registrazione antecedente con il sassofonista
Lonnie Youngblood, Izabella e Easy Blues
sono invece il frutto di sessions con l’estemporanea band con cui si presentò a
Woodstock), People, Hell and Angels è la cosa più vicina a quello
che sarebbe dovuto essere il suo quarto album, se non fosse che tra mille ripensamenti,
stravolgimenti e riscritture, Jimi non lo porterà mai a termine. Un Hendrix colto
nel pieno del passaggio dal blues da power-trio degli Experience a quelle influenze
jazz che probabilmente gli impedirono di essere soddisfatto di queste
registrazioni quanto lo siamo noi.
Nicola Gervasini
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