giovedì 25 luglio 2013

SLAID CLEAVES


Slaid Cleaves 
Still Fighting The War
[
Music Road records
 2013]
www.slaidcleaves.com

 File Under: Hometown USA

di Nicola Gervasini (01/07/2013)
Avete ancora voglia di leggere un disco? E qui magari qualcuno già sorride e si ricorda di quando il prode Frank Zappa ci prendeva in giro dicendo che scrivere di musica è come ballare di architettura. Figuriamoci cosa si sarebbe inventato davanti all'espressione "leggere un disco". Ma se molti dei suoi album si potevano anche pensare come una serie di sketches da cabaret, allora Still Fighting The War di Slaid Cleaves lo possiamo tranquillamente mettere alla voce "libri di racconti". Da sfogliare, ancora più che da ascoltare, alla sera, e magari nel letto e non davanti ad un computer pieno di squallidi mp3 o quel diavolo che vi ritrovate sul desktop. Tra i mille ascolti della nuova era "Spotify per tutti", avete ancora il tempo di chiedervi cosa mai porta un autore a scrivere una certa canzone e a scervellarsi per mettere insieme le rime giuste per arrivare ad un risultato pressoché perfetto? Già, perché le canzoni di Slaid Cleaves perfette lo sono veramente. E lo sono sempre un po' state, fin dal 1990 (penso solo alla straordinaria Hard To Believe sul precedente Everything You Love Will Be Taken Away), ma a questo giro lo sono ancora di più.

Sarà forse perché il produttore Scrappy Jud Newcomb (era la sei corde dei Loose Diamonds, ve li ricordate vero?) ha saputo cucirgli addosso un suono rootsy e elettrico, pulito e senza colpi di testa, molto meglio del suo predecessore Gurf Morlix. O sarà che Still Fighting The War è forse lo strumento migliore per ricordarci la grandezza di un autore che ci dimentichiamo spesso, forse per colpa del suo stile dimesso e di una vocalità che - ahinoi e hailui - stenta sempre un po' a lasciare il segno. Ma stavolta, se lui con i mezzi naturali fa quel che può, ci pensano i brani a dare valore aggiunto, a partire dalla title-track, sorta di versione aggiornata della Sam Stone di John Prine (suo indiscutibile maestro d'arte), con la voce di Jimmy LaFave a sottolineare una storia di reduci di una guerra fantasma come quella che si combatte a Fallujah. E poi le pene d'amore della soul-ballad (con sezione fiati) Without Her, l'impietosa descrizione (ma con lieto fine romantico) dell'ennesima attricetta fallita di Hometown USA, i ricordi dei primi teneri amori di infanzia di Gone (un dodicenne si invaghisce di una vicina di casa di soli nove anni immaginandosi un grande amore), quelli del padre saldatore di Welding Burns ("Mio padre ha costruito il suo mondo su ossa, muscoli, sangue e bruciature da saldatura"). Il tutto sempre con quel tocco un po' cinematografico nel raccontare anche una semplice conversazione telefonica (I Bet She Does) o descrivere la forza di volontà di una donna (Whim Of Iron).

Slaid stavolta riesce a non cadere troppo nel manierismo anche quando si fa produrre da Lloyd Maines lo scherzoso swing alla Lyle Lovett di Texas Love Song o la country-song God's Own Yodeler, o nella cadenzata riflessione religiosa di Go For The Gold. Per il resto c'è solo l'imbarazzo della scelta per trovare i brani migliori, se la tesa In The Rain (con Eliza Gilkyson) o la storia dei due sfasciacarrozze del paese di Rust Belt Fields ("Nessuno ti darà mai un premio per le nocche sanguinanti e le cicatrici, perché nessuno si ricorderà mai il tuo nome solo perché hai lavorato duramente"). Chiudete il libro…ooops…volevo dire spegnete il lettore, solo dopo esservi assicurati un ascolto notturno della conclusiva Voice Of Midnight, e soprattutto dopo aver gustato tutto Still Fighting The War libretto alla mano e non con un fugace ascolto in streaming: solo così capirete perché non è quel solito bolso e risaputo prodotto di cantautorato americano che vi state già aspettando.

  

domenica 21 luglio 2013

LORENZO BERTOCCHINI

Lorenzo Bertocchini Bootcut Shadow[Lorenzo Bertocchini  2013] 

www.lorenzobertocchini.com


 File Under: a cowboy hat and a broken heart


di Nicola Gervasini (10/07/2013)

Il panorama roots italiano è ormai talmente sviluppato che anche la nostra redazione è letteralmente sommersa da proposte nostrane. Ognuno con la propria voglia di dimostrare quanto si è capaci di fare dischi "all'americana", e con risultati che, pur con tutte le contraddizioni del caso e i limiti concettuali e geografici della proposta, possiamo ormai ritenere generalmente più che soddisfacenti. In questo mondo sotterraneo che possiamo definire "scena" anche in considerazione delle continue collaborazioni tra i tanti attori in gioco (qui ad esempio ritroviamo Giulia Millanta e Maria Olivero), Lorenzo Bertocchini può ormai definirsi un veterano. Lui in quel di Varese ha cominciato a scrivere rock americano già nel 1990, quando ancora seguiva i Rocking Chairs di Graziano Romani (indiscussi re della prima ondata) fondandone il fan club ufficiale. Ed è stato anche uno dei primi che ha fatto capire che, laddove sul palco festa, sudore e improvvisazione fanno parte del bagaglio minimo del vero rocker "StonePony-like", in studio serve ben altro per ottenere un prodotto che non sia solo il documento da lasciare agli amici dopo il concerto nella birreria preferita.

Per questo i suoi album hanno sempre beneficiato di un'attenzione ai particolari che ha spesso ben risolto il limite di una voce poco potente e gli inevitabili manierismi di chi segue un genere più per passione che per arte.Bootcut Shadow, la sua nuova fatica che segue il già convincete Uncertain Texas, continua dunque la buona tradizione, pur catapultando Lorenzo verso una pacata e poco pretenziosa maturità. Forse perché oggi il mercato non consente di andare oltre la notorietà acquisita in più di vent'anni di carriera, e forse perché ormai ha già registrato quei pezzi forti che i suoi fedeli fans del varesotto (ma non solo) gli richiedono ai concerti (anche se qui si ripropone la già nota Payphones in nuova versione con la chitarra di Bill Toms), Lorenzo ormai sembra scrivere canzoni solo per il puro gusto di scrivere, sempre legato al suo immaginario da cowboy nostrano ("Walking down Sunset with a cowboy hat and a broken heart" spara subito il primo verso del disco, giusto per chiarire subito l'epica di cui ci nutriremo). Per cui via al più puro Jersey-sound per rivedere il film dell'eroe metropolitano che prende la sua bella a casa (That White Dress) e la porta verso un viaggio fatto di sogni e magari qualche imprevisto (What's Your Grandma Doin' In The Car With You And Me, una sorta di versione aggiornata di Io, Mammeta e Tu di Modugno…).

La grandezza delle canzoni di Bertocchini è tutta in quella punta di ironia che gli impedisce di prendere troppo sul serio i propri personaggi, laddove la bella di turno ci prova anche a prendere la patente per evitare di dover essere sempre accompagnata come vogliono i tempi moderni (con gli esiti tragicomici descritti in Driver License), soprattutto perché capita che anche il nostro eroe metropolitano possa essere indisposto causa influenza (The Flu). Non manca la mistica del loser (con l'omaggio ai suoi santoni tramite le cover di Coffe Break di Willl T Massey o Workin'At The Car Wash Blues di Jim Croce), della vita notturna (4 in the MorningOn a night like this), e i momenti romantici (I Remember More and Less). Bertocchini ci propone il suo mondo senza darsi troppe noie a cercare il colpo di scena, ed è forse questa misurata maturità il limite e insieme il pregio di Bootcut Shadow.

martedì 9 luglio 2013

DR. FEELGOOD

Dr. Feelgood Live In London
[Grand Records/ Audioglobe 2013]
 

www.drfeelgood.org
 File Under: remembering Lee Brilleaux

di Nicola Gervasini (10/06/2013)
Era il 7 aprile del 1994 quando un maledetto linfoma si portò via Lee Brilleaux, sorta di guru del pub-rock e fondatore, con Wilko Johnson, dei Dr Feelgood. Aveva solo 41 anni, ma abbastanza litri di sudore prodotti sui palchi di tutto il mondo da garantirgli un posto d'onore nell'olimpo del rock. Ai tempi la sua morte non fu neanche troppo celebrata (per non dire che fu proprio ignorata dai più): esattamente due giorni prima Kurt Cobain si era tributato una fine ben più rumorosa, e le nuove generazioni che consumavano i dischi dei Nirvana di questi fantomatici Dr Feelgood non avevano mai sentito parlare. D'altronde nel 1994 la loro favola si trascinava ormai stancamente con una formazione inquinata dai troppi avvicendamenti: il quartetto originario infatti si era definitivamente sfaldato già nel 1983, quando la festa del pub-rock inglese era ormai finita, spazzata da un decennio che aveva deciso di andare in direzione contraria al loro blues-rock da friday night.

Dopo una serie di album che non soddisfarono nessuno a causa del tentativo di aggiornare un suono non aggiornabile, nel 1989 Brilleaux e soci avevano deciso di chiudere baracca con un tour d'addio. Il nuovo combo allora vedeva in azione Phil Mitchell e Kevin Morris, che erano arrivati nel 1983 a riscostruire la band, e il chitarrista Steve Walwyn, una assoluta new entry reclutata appositamente per l'occasione. Live In London, uscito nel 1990, doveva essere dunque l'ultimo capitolo della saga, se non fosse che proprio la malattia di Brilleax convinse tutti a continuare fino alla fine, registrando ancora altri due dischi (Primo e The Feelgood Factor) che davvero non aggiunsero nulla a quanto già ampiamente detto fin dal 1971. Giusto per la cronaca, va poi detto che la sigla è sopravvissuta fino ad oggi con questa line-up, ovviamente con un nuovo cantante (Robert Kane), ma qui si entra nel campo del puro feticismo da revival. Ci pensa comunque la Grand Records a ristampare il concerto, in verità non l'ultimo in assoluto di Brilleaux, che verrà salutato nel 1994 con la pubblicazione di Down At The Doctors, testimonianza della sua ultima esibizione prima della dipartita.

Ventuno brani, settantuno minuti tirati al massimo e con divagazioni sul tema concesse solo nei sette minuti e passa di Shotgun Blues. Steve Walwyn se la cava egregiamente per essere un acquisto dell'ultima ora, non eccede mai in inutili tecnicismi e sta abbastanza attento a essere al servizio della canzone, anche se forse manca di personalità, schiacciato com'era dall'imponente presenza di Lee Brilleaux. Il quale canta e ci mette l'anima proprio come se si trattasse dell'ultima performance della vita, dimostrando come nel 1990 ancora davvero credeva nella forza dei classici della prima ora della band come RoxetteShe Does It Right Back In The Night. Non era comunque serata da grandi sorprese, la band si prodigò in un perfetto greatest hits dal vivo, non dimenticando alcune classiche rivisitazioni come il medley Boney Maronie/Tequila o l'immancabile Route 66 che il pubblico non si stancava mai di richiedere anche dopo più di quindici anni di rodaggio. Certo, il paragone con il loro classic-live Stupidity del 1976 potrebbe apparire impietoso, non tanto per la capacità (questi Dr Feelgood suonavano decisamente meglio), quanto per la mancanza di quella veemenza (al limite dello spirito punk) che caratterizzò i loro "golden days".

Come dire che se nel 1976 si suonava per la storia, qui si suona semplicemente per divertimento, e non è detto che questo debba essere necessariamente un male.


:: La scaletta (w/ 5 bonus tracks)
1. Best In The World // 2. Hog For You Baby // 3. King For A Day // 4. You Upset Me Baby // 5. As Long As The Price Is Right // 6. Roxette // 7. Homework // 8. She Does It Right // 9. Baby Jane // 10. Quit While You're Behind // 11. Back In The Night // 12. Milk & Alcohol // 13. Shotgun Blues // 14. Mad Man Blues // 15. See Ya Later Alligator // 16. Band Intros // 17. Down At The Doctors // 18. Route 66 // 19. Goin' Back Home // 20. Boney Maronie/Tequila // 21. Lee Thanks // 22. Let's Have A Party


 

giovedì 4 luglio 2013

WILLIE NILE


 Willie Nile American Ride
[Blue Rose  
2013]
www.willienile.com


 File Under: loud & proud

di Nicola Gervasini (18/06/2013)
Massì…dai…perché no? E facciamoci un nuovo giro americano con Willie Nile. "Non hai bisogno del biglietto, non hai niente da dichiarare" ci rassicura lui dalle note di This Is Our Time. Più che un brano, una sorta di manifesto di appartenenza ad una tribù, compreso il richiamo a collaborare tutti alla realizzazione di American Ride, album nato grazie al generoso crowdfunding del sito PledgeMusic. E opera che già circola con due copertine (e ordine di tracklist) diverse: la prima è la release indipendente nata dalla colletta (con foto decisamente artigianale), la seconda è invece la pubblicazione ufficiale della Loud & Proud (Blue Rose in Europa), forte di una cover graficamente più accattivante. E chissà che questo trip americano non porti qualche adepto in più a quello che già negli anni ottanta ci insegnavano a considerare come il loser per eccellenza.

Lui nel frattempo, dopo aver dimostrato con album di altissimo livello come Beautiful Wreck of the World e Streets of New York che tanti anni di inattività discografica sono davvero stati un peccato, ha intrapreso un lungo tour de force di concerti ad alto tasso di adrenalina. Tanto sudore e soprattutto una musica che si è fatta via via sempre più urbana e meno autoriale. E se il precedente (e a conti fatti deludente) The Innocent Ones pareva un disco di american-punk fatto da Willie Nile, American Ride invece suona subito come un disco di Willie Nile influenzato dal punk americano, e la differenza è sostanziale. I Ramones, che lui va proponendo ormai da alcuni anni anche dal vivo, si sentono ancora, ma intanto lo si sente riabbracciare certo blue-collar rock di un tempo (evidente nella title-track) con rinnovata convinzione. Stavolta quindi il viaggio è ben bilanciato tra momenti romantici (She's Got My Heart), strimpellate tra amici (There's no Place Like Home), giri rubati alla storia (Holy War sembra una cover di All Along The Watchtower e non si vergogna a mostrarlo) e tanti e continui omaggi ad una mitologia di New York che Nile sembra voler tenere viva e vegeta (Sunrise in New York CityLife On Bleeker Street).

La band (l'inseparabile bassista Johnny Pisano, il sanguigno chitarrista Matt Hogan e il batterista Alex Alexander) lo asseconda alla grande, gli ospiti ci sono ma non invadono (il nuovo chitarrista degli Eagles Steuart Smith, le voci diJames Maddock e della folksinger Leslie Mendelson), le canzoni si nutrono di ispirazione ancora un po' altalenante (si passa da brani convincenti come If I Ever See The Light a divertissement senza troppo spessore come Say Hey), ma l'insieme soddisfa. Certo, il viaggio ha un sapore decisamente nostalgico, appartiene a quel mondo cantato dal Jim Carroll di People Who Died, cover che Nile ripropone sempre da qualche anno nei suoi live-sets e che qui trova degna consacrazione in studio, posta al centro di tutto per ricordare che di rock un tempo si moriva, oggi a malapena ci si campa.


      

martedì 2 luglio 2013

TRIXIA WHITLEY


 Trixie Whitley Fourth Corner
[
Unday Records/ Audioglobe 
2013]
www.trixiewhitley.com

 File Under: art's daughters

di Nicola Gervasini (14/06/2013)
Ha solo ventisei anni, ma ha una carriera già di tutto rispetto Trixie Whitley. Suo padre è proprio quel Chris Whitley che nel 1991 fece il botto con un disco memorabile come Living With The Law ma condusse una carriera non sempre all'altezza del suo formidabile talento, prima di scomparire prematuramente nel 2005, ma lei, oltre a coltivare le passioni paterne seguendolo in tour fino all'ultimo, è anche pittrice, scultrice, ballerina, Dj, batterista, chitarrista e tastierista innamorata di elettronica. A condurla su questo ultimo terreno poi è stato un vecchio amico di papà, quel Daniel Lanois che l'ha coinvolta come voce del suo gruppo Black Dub nel 2010 (album forse irrisolto, ma da riscoprire).Fourth Corner è il suo primo vero album, dopo ben tre EP registrati negli ultimi 5 anni (il primo è prodotto da Meshell Ndegeocello) che avevano acceso la curiosità degli addetti ai lavori. La prima impressione è quella di un talento vero, capace di scrivere ottime canzoni e particolarmente attenta agli aspetti produttivi, anche se ancora troppo legata ai suoi padri artistici. Impossibile non sentire il padre in un brano come Never Enough (lei lo imita anche nel cantato per l'occasione) ad esempio, la Ndegeocello nei vocalizzi di Pieces, Lanois nella scelta dei suoni sempre alla ricerca del tono caldo di una tastiera.

In qualche modo Fourth Corner è un disco legato agli anni della sua formazione musicale, quei novanta dove l'arrangiamento di Need Your Love o Hotel No Name, sospese tra elettronica e chitarre distorte (sembrano uno dei brani incompiuti dell'ultimo Jeff Buckley) avrebbero trovato molta più eco. La produzione è stata affidata a Thomas Bartlett, pianista prima ancora che produttore (spesso con il nickname di Doveman), sentito come session-man per i National, Antony & The Johnsons e Grizzly Bear (nomi che già danno un'indicazione precisa del tipo di album che vi ritroverete a sentire), e a Pat Dilett, da giovane tecnico del suono per le produzioni di Nile Rodgers degli Chic, oggi uomo dietro le recenti sortite di David Byrne, Glen Hansard e Donald Fagen.

Tanto basta per capire il livello altissimo della realizzazione del disco, forse fin troppo ben definito e rifinito a discapito di un minimo di improvvisazione d'artista. Album non facile al primo ascolto, Fourth Corner ha tutti i pregi e difetti delle opere prime dalla lunga gestazione, con una linea stilistica non sempre ben chiara e omogenea (anche nel modo di cantare), ma parecchi motivi per scommettere su un futuro ancora migliore (Breathe You In My Dreams, brano davvero notevole, potrebbe essere il punto da cui ripartire). Consigliabile la versione con quattro bonus tracks, anche se i 64 minuti totali possono risultare faticosi, ma il brano Strong Blood merita di essere ascoltato.

   

BILL RYDER-JONES

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