domenica 24 novembre 2013

RAINDOGS


 Raindogs
Lost Souls 
[ATCO/ Atlantic 1973]
TRACKLIST: 1. I'm Not Scared // 2. May Your Heart Keep Beating// 3. Phantom Flame // 4. The Higher Road // 5. Too Many Stars // 6. Nobody's Getting Out // 7. Cry for Mercy// 8. Adventure// 9. This Is the Place // 10. Under the Rainbow // 11. I Believe // 12. Something Wouldn't Be the Same
 File Under: roots rock
di Nicola Gervasini
"Troppe stelle e non abbastanza cielo": The Raindogs Story

Raccontata oggi la vicenda dei Raindogs fa solo rabbia. Perché nel 2013 probabilmente la band di Mark Cutler sarebbe una delle tante che ci allietano le giornate con dischi autoprodotti con mezzi sufficienti a renderli più che ascoltabili, garantendosi così una lunga e ininterrotta discografia a uso e consumo di pochi appassionati. Ma un disco come Lost Souls, produzione di serie A sia per livello tecnico che di contenuti, oggi non lo avrebbero potuto fare, questo è certo. Ma andiamo con ordine e partiamo dall'inizio. I Raindogs nascono nel 1989 su spinta di una casa discografica, la Atco. Non un etichetta qualsiasi, ma la più importante sottomarca della Atlantic, quella per cui pubblicarono gruppi come Cream, Who, Bee Gees e Buffalo Springfield negli anni sessanta, e responsabile della scoperta degli AC/DC negli anni settanta. Una label però moribonda a fine anni ottanta, con evidenti difficoltà a ridefinire l'identità del proprio catalogo nell'era del pop sintetizzato. E' in questo scenario di decadenza che arriva la decisione a tavolino di creare una band che riassumesse tutti gli umori più vendibili del nuovo roots-rock americano, risvegliato dalle ottime vendite di John Mellencamp e Tom Petty. Non era un atto isolato in fondo: l'operazione di cercare di rendere moderna e commerciabile una scena che per anni aveva raccolto complimenti ma vendite irrisorie era già stata applicata ai Del Fuegos del radio-friendly Stand Up, ai Rave-ups ripuliti e levigati di The Book of Your Regrets, ai Beat Farmers di The Pursuit of Happiness, e forse, a ben guardare, anche ai Green On Red di This Time Around. Così la Atco assoldò un vecchio produttore di grido, Peter Henderson (il suo vertiginoso curriculum partiva dai King Crimson del 1974 e arrivava fino al Paul McCartney di Flowers in The Dirt) e gli diede il compito di far diventare una band di successo un'accolita di avanzi del rock urbano degli anni ottanta.

Mark Cutler in verità non era poi così un parvenu: i suoi Schemers erano stati la next big thing di Boston per lungo tempo (suonarono come backing band per Sam & Dave e aprirono tour per Talking Heads e Throwing Muses), ma il loro bottino dopo sei anni di attività ammontava ad un misero 45 giri. E Cutler era in fondo quello con il curriculum più povero (insieme al chitarrista Emerson Torrey, anche lui proveniente dagli Schemers), perché il quintetto poteva con un po' di buona volontà essere definito un "supergruppo". Il batterista Jim Reilly aveva militato negli Stiff Little Fingers dal 1979 al 1981, e poi aveva raggiunto il bassista Darren Hill nei mitici Red Rockers, band oggi forse dimenticata, ma in verità tra le poche realtà Blasters-like ad avere venduto qualcosa con i loro tre album pubblicati tra il 1981 e il 1984, ma la star della band era il violinista Johnny Cunningham, coraggioso innesto proveniente dal brit-folk di marca scozzese e musicista già titolare di una lunga discografia con i Silly Wizard e da solista. Con questa formazione, denominata Raindogs in omaggio al capolavoro di Tom Waits, Henderson si inventa un suono che riusciva a citare Dexys Midnight Runners (soprattutto nell'utilizzo dei fiati e in un certo uso di toni soul), Del Fuegos e il John Mellencamp rurale di The Lonesome Jubilee in un colpo solo. In più il tocco celtico di Cunnigham e il cantato dylaniano e dilaniato di Cutler creavano un insieme unico, sebbene assemblato con mattoni rubati ad altre case.

I dodici brani confezionati per Lost Souls funzionavano alla grande, unendo appeal melodico (Too Many StarsOver The Rainbow) e attitudine al rock stradaiolo (The Higher RoadMay Your Heart Keep Beating). Probabilmente il tocco folk, che molti critici scambiarono per country-rock, giocò a loro sfavore: Lost Souls quando uscì nel 1990 ottenne solo una serie di inascoltate critiche positive sulle riviste specializzate, ma, complice anche la debolezza sul mercato della Atco, finì presto a ingrossare i magazzini dei "forati", nonostante una certa buona rotation su MTV del video di I'm Not Scared. La storia dei Raindogs a questo punto si colora poi di toni grotteschi: per qualche imperscrutabile via del pensiero marketing la Atco decise che sulla band si poteva puntare ancora qualche soldo, ma con logiche produttive differenti. Un gesto disperato e fuori tempo, e perpetrato con quel disastro (commerciale e artistico) che sarà il secondo album Border Drive-in Theatre. A produrre viene chiamato l'esperto e costoso Don Gehman, proprio il deus ex machina del John Mellencamp "era Cougar" della prima metà degli anni ottanta, ma la sua scelta, volta verso un suono FM e arena-rock, inutilmente sovraprodotto e malamente pompato, fornisce esiti anche imbarazzanti. Nel disco viene coinvolto in un talking anche Iggy Pop, ma se glielo chiedete oggi può darsi che neanche lui se ne ricordi. Anche perché, esattamente pochi giorni dopo l'uscita del disco, la Atco viene fusa con la East-West Records, inutile passaggio societario che non eviterà nel 1994 all'etichetta di fallire definitivamente (il marchio sarà riesumato solo nel 2006). La fusione eliminò però il management che aveva creduto nei Raindogs, e così i cinque si ritrovarono senza staff organizzativo proprio nel momento di fare promozione e tour per il disco. In altre parole, erano a piedi. E come tutti i gruppi nati negli uffici di una casa discografica, si dissolsero in pochi giorni.

Negli anni successivi i membri della band hanno lasciato poche tracce: Mark Cutler tentò la via solista, ma i suoi album (tre ufficiali, ma pare molti di più a livello amatoriale) sono passati inosservati. Negli anni duemila riformerà gli Schemers e suonerà nei Dino Club, ma ormai senza più uscire allo scoperto. Darren Hill invece è passato a fare il manager musicale per New York Dolls e Paul Westerberg mentre il bravo Johnny Cunnigham tornò in Scozia e proseguì la sua ragguardevole carriera nel mondo folk fino alla morte nel 2003. Una storia emblematica, fatta di logiche oggi impensabili, e una delle tante vicende rock che lascia aperto un dubbio: a lasciarli produrre liberamente i Raindogs sarebbero stati un grande gruppo, oppure Lost Souls è solo un piccolo miracolo nato proprio grazie al sapiente know-how di mestieranti del rock? Un quesito che vale per tantissime realtà rock di un tempo, e che rimarrà probabilmente senza risposta. Intanto a noi resta ancora oggi il piacere di riascoltare Lost Souls: lo trovate anche nei nostri cento dischi da "strade blu" degli anni novanta, e non lo toglieremmo mai.


giovedì 21 novembre 2013

ISRAEL NASH GRIPKA

 
 Israel Nash GripkaIsrael Nash's Rain Plans
[Loose/ CRS 
2013]
www.israelnash.com


 File Under: forever Young

di Nicola Gervasini (03/10/2013)
Bisogna arrendersi all'idea che il rock (perdonatemi l'uso generalista e omnicomprensivo del termine) non sia più un'epopea comune da poter raccontare con lo stesso piglio letterario con cui si ricordano i suoi pionieri. Non è questione di fare tante filosofie sul fatto che "il rock ha già detto tutto" e che "i giovani non valgono i vecchi". Il rock, e Israel Nash Gripka ce lo conferma, è sempre lo stesso di un tempo, e continua a rispondere alle esigenze del pubblico con le stesse armi: metti l'accento sulla melodia, sul ritmo, sul suono, sulla rabbia, sulla libera espressione, sulle storie da raccontare o anche sulla bellezza del nulla ben cantato come il mondo X Factor e compagnia bella. Quale sia il rock di cui avete bisogno, gli schemi, le canzoni e i metodi restano gli stessi di sempre. E' cambiato il pubblico però. E' più ampio, anche quello di nicchia, e fagocita musica a chili grazie alle nuove piattaforme d'ascolto. Per cui il nostro ruolo va ripensato in base al fatto che chi arriva ad un autore come Isarel Nash Gripka ha già operato la sua scelta a monte. Cerca l'"autore", e soprattutto cerca i suoni a lui cari, che gli diano l'impressione che "il rock di oggi sia come quello di quarant'anni fa".

In questo senso Israel Nash's Rain Plains è un disco perfetto, "un capolavoro" si sparerà a vanvera nei commenti social, perché mette sul piatto quello che molto del pubblico "di nicchia" (perdonatemi se insistito con l'insulto) che segue anche le nostre pagine alla fin fine cerca: il nuovo Neil Young. C'è poco da fare discussioni qui dentro, se non notare lo spostamento del baricentro d'ispirazione dal Ryan Adams simulato in New York Town del 2009 e i Rolling Stones echeggiati qua e là in Barn Doors and Concrete Floors del 2011 alla musica del canadese rock per eccellenza, che qui affiora prepotente ovunque, fino ad arrivare al quasi-plagio di Rain Plans, brano che riesce in un solo colpo ad imitare tutto On The Beach usando un ritornello che ricorda Cowgirl In The Sand e una lunga coda strumentale che piacerebbe tanto al giovane Jonathan Wilson. Gripka ha pure cambiato il modo di cantare per questa operazione, usa più i falsetti e non sforza quasi mai il tono rauco della sua ugola. E imbastisce uno show tutto "acustiche West Coast" + "elettriche da cavallo pazzo" a uso e consumo dei suoi (di Gripka) e di quell'altro (Young) fans.

Poi le citazioni non finiscono lì: chissà quanti si saranno messi a canticchiare Whish You Were Here dei Pink Floyd non appena parte Iron Of The Mountain, e infine giocateci voi a scoprire quelle che non abbiamo colto. L'impressione è che Gripka ci abbia voluto coinvolgere in una sfida al "senti come sono bravo ad essere come quelli là" da cui ne esce quasi vincitore, perché alla fine la sostanza c'è, vedi brani come Woman At The WellJust Like Water Mansions che probabilmente vorremmo sempre sentirgli cantare nei prossimi concerti. Ma ha anche prodotto la sua opera meno personale, più al servizio del pubblico. Non è detto che sia un male, Israel Nash's Rain Plains conferma che non ci siamo sbagliati a vedere in lui un autore superiore alla massa ormai incontrollabile di questi ultimi anni, ma speriamo che per il prossimo passo si ricordi di ribadire con fierezza di essere Gripka, non Young.



 

martedì 19 novembre 2013

STAR ANNA


  
 Star Anna Go to Hell
[
Spark & Shine Records 
2013]
www.sparkandshine.com

 File Under: bad girl rock

di Nicola Gervasini (11/10/2013)
Il suo secondo album The Only Things That Matters è stato anche un nostro disco del mese nel 2009, e con egual forza avevamo segnalato anche il successivo Alone In This Together (2011), eppure il nome di Star Anna sta faticando a farsi notare sia tra i nostri lettori che in patria, dove resta comunque un fenomeno tutto sommato di nicchia. Forse le manca solo che David Letterman si accorga di lei e le dia la passerella che in questi anni ha garantito a gran parte del mondo rock americano, anche ad artiste molto meno meritevoli di lei. Perché invece ci piace pensare che la ragazza possa diventare un nome importante, anche alla luce di questo Go To Hell, nonostante non sia opera che ci convince quanto le due precedenti. Perché la sua musica è quanto di più intelligentemente reazionario esista al momento: è rock, spesso duro, sporco, vintage, derivativo, essenziale, ma è anche un qualcosa che è pensato per l'oggi. Potrebbe essere la musica che suonerebbero nel 2013 Janis Joplin se fosse ancora viva (la title track ne è un chiaro omaggio) o Joan Jett se avesse voglia di non accontentarsi del suo fedele pubblico raccolto con I Love Rock And Roll.

Ma stavolta Star Anna prova ad ampliare il raggio, magari invadendo con più forza terreni più rootsy alla Lucinda Williams (la strascicata Electric Lights con la sua slide alla David Lindley suonata dall'interessante chitarrista Jeff Fielder, o anche Younger Than) e acquisendo velleità da cantautrice roots (l'iniziale For Anyone, la dolce Mean Kind Of Love o la piano-song Everything You Know). C'è forse meno rock diretto (ma nel finale la veemente e quasi-punkSmoke Signals riporta tutto a casa), qualche giro blues in più (Let Me BePower of my Love), un aria meno da bar-band in favore di arrangiamenti più studiati. Non voglio dire annacquati perché comunque si sente che si è stati attenti a non disperdere l'energia della ragazza in troppi suoni non riproducibili su un palco, ma un cambio di rotta sembra comunque evidente.

Che Go To Hell sia forse anche il tentativo di cogliere un nuovo pubblico lo dimostra persino la copertina, che sottolinea il suo look e atteggiamento da bad girl in stile Pink, oltre l'aver abbandonato i fedeli Laughing Dogs in favore del più professionale co-produttore Tye Baille e di una band di scafati session men. Così Go To Hell risponde meglio alle esigenze del nuovo mercato discografico americano (sempre che ne esista ancora uno degno di questo nome), compresa anche la durata ridottissima (34 minuti) e l'ormai irrinunciabile utilizzo della cover d'autore per far parlare di se (una Come On Up To The House di Tom Waits in versione da taverna). Aggiungete una cartella stampa che enfatizza i complimenti ricevuti dal Pearl Jam Mike McReady e dall'ex Guns N'Roses Duff McKagan e capite quanto si stia imboccando la strada di quello che un tempo chiamavamo mainstream e che oggi forse non è più distinguibile dalle strade alternative. Considerato quanto sia stata deludente l'epopea artistica di Grace Potter, di spazio da conquistare ce n'è…


sabato 16 novembre 2013

BARRENCE WHITFIELD


 Barrence Whitfield and The SavagesDig Thy Savage Soul [Bloodshot  2013]
www.barrencewhitfield.com


 File Under: savage soul

di Nicola Gervasini (23/09/2013)
L'ironia della sorte è che il suo vero nome sarebbe il ben più noto Barry White, ma quando nel 1984 riuscì finalmente ad esordire, il suo battesimo apparteneva già ad un leone della disco music in piena decadenza. Scelse allora quello forse meno altisonante ma molto più autorevole di Whitfield, lo stesso del Norman che per anni ha scritto e prodotto i capolavori dei Temptations. Barrence Whitfield con i suoi Savages è stato per un decennio (a cavallo tra gli anni ottanta e novanta) un misconosciuto e forse fuori tempo antesignano di una black music imbastardita di garage rock e umori bianchi.

Attento ad ascoltare musica rurale bianca molto prima del suo maestro Solomon Burke (ricordiamo anche i due dischi a quattro mani con Tom Russell del 1993, Cowboy Mambo e Hillbilly Voodoo), padre non riconosciuto in quanto irriconoscibile di quello stile che oggi Black Joe Lewis riesce a vendere (bene) come una novità, Whitfield dopo più di quindici anni di silenzio e sudate su palchi di provincia, ha da qualche tempo "riunito la band", e già nel 2011 ci aveva fatto muovere non poco il fondoschiena con lo scoppiettante Savage KingsDig Thy Savage Soul si spinge oltre e tiene fede al titolo: la chitarra del fedele compare Peter Greenberg spadroneggia fin dalle sventagliate punk dell'iniziale The Corner Man, più o meno quello che avrebbero combinato i Replacements visitando gli studi della Stax. Ma già la successiva My Baby Didn't Come Home rivela quale sarà il gioco: Barrence urla, sbraita, gorgheggia brani di scrittura elementare che spaziano da giri blues risaputi (Hangman's TokenTurn Your Dumper Down) a rockabilly catapultati in quest'era da una macchina del tempo tarata su cinquant'anni orsono (Hey Little GirlBlackjack). Il trucco però è proprio quello: far passare per rivoluzionario il reazionario, citando magari i dischi incendiari del R.L.Burnside di quindici anni fa, ma andando molto meno sul sottile nella scelta del repertorio e dei temi.

In questo senso sia un brano rock (Oscar LevantBread) o una ballata soul (I'm Sad About ItShow Me baby), il tutto serve solo per liberare l'incredibile energia del padrone di casa ed esaltare la voluta gran confusione della sezione ritmica di Phil Lenker e Andy Jody. Condisce il tutto il sax di Tom Quartulli, che più che il sound della Motown sembra quasi giocare a citare lo Steve MacKay che devastò Funhouse degli Stooges, vera opera di riferimento dei Savages. Il risultato gli dà comunque ragione: forse non c'è la stessa sostanza dell'ultimo Black Joe Lewis, ma in una gara a colpi di decibel il vecchio Barrence saprebbe ancora dargli filo da torcere. Dig Thy Savage Soul vi aprirà l'anima a colpi di sberle. Il blues pare serva anche a questo.


     

giovedì 14 novembre 2013

ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND


 Robert Randolph & The Family Band Lickety Split [Blue Note  2013]
www.robertrandolph.net


 File Under: Funky Music for guitar players

di Nicola Gervasini (22/10/2013)
In un'annata in cui la black music sta continuando a fornire molti motivi di interesse, è forse giunta l'ora anche per le nostre pagine di occuparci di Robert Randolph. Innanzitutto perché questo chitarrista del New Jersey è un raro caso di specialista della pedal steel guitar dedito non al country o al blues in senso stretto (anche se Buddy Guy lo chiama spesso e volentieri nei suoi dischi), ma ad una funky-music a tutto tondo che abbraccia davvero tante (e forse a volte troppe) sfere. La sua attività di session-man e ospite d'onore è molto intensa (tra i più recenti, Robbie Robertson, North Mississippi Star, Los Lobos, Elton John & Leon Russell e tanti altri) e negli Stati Uniti è divenuto una sorta di star grazie alla sigla di apertura del programma dedicato alla NBA dell'ABC.

Stimato dai colleghi e dalla stampa (Rolling Stone lo ha messo fra i 100 chitarristi migliori della storia!), la sua discografia, da sempre portata avanti con la fedele Family Band (in cui ci sono davvero dei parenti come il batterista Marcus Randolph e la brava vocalist Lenesha Randolph) è uno scoppiettante caleidoscopio di stili e umori, che da Sly Stone si spingono fino a Santana (con il quale collabora spesso), ma forse più in generale ricorda l'approccio delle jam-band bianche. Immaginate un Derek Trucks in session con JJ Grey & Mofro o un Dave Matthews quando si crede Stevie Wonder, oppure semplicemente pensate ad una versione più blues-southern-roots-oriented dei Funkadelic e non ci andate molto lontano. Randolph ama mischiare (New Orleans pare un brano dei Wet Willie virato a rap), citare (la somiglianza di Born Again con Love the One You're With di Stephen Stills non può essere solo un caso), spesso e volentieri ostentare (Amped Up) e anche un po' "sbrodolare" con la sua chitarra (in Brand New Wayo lo fa in coppia con l'amico Carlos Santana) o con la sua pedal-steel (Get Ready).

Lickety Split è forse il suo disco più pimpante e spensierato, un party-record che non disdegna i momenti di commozione (la ballatona Blacky Joe, anche questa con il contributo di Carlos Santana, o la lunga Welcome Home), ma che spesso spinge sull'acceleratore grazie a brani nati solo per far muovere il culo come la title track o le significative cover di Love Rollercoaster degli Ohio Players (ma il brano è forse oggi più noto nella versione dei Red Hot Chili Peppers) e il finale affidato all'immortale Good Lovin' degli Young Rascals. Un bel meltin pot di varie influenze, che non disdegna riff hard rock per sostenere testi di stampo politico (All American) o spensierate svisate nella funky-music (Take The Party, con il contributo di Trombone Shorty). Il difetto sta nel troppo di tutto e nel troppo poco di sostanza, perché Randolph ama più dare spettacolo e spesso e volentieri cede a qualche virtuosismo da circo, ma Lickety Split appare forse come il suo lavoro più equilibrato in questo senso. Dategli un ascolto quando siete dell'umore giusto, non c'è un brano che non si faccia fischiettare al primo colpo qui dentro…e non è davvero poco.


  

domenica 10 novembre 2013

DAVID BROMBERG BAND

 
 David Bromberg BandOnly Slightly Mad 
[Appleseed/ IRD 
2013]
www.davidbromberg.net


 File Under: "We're Gettin the Band Back Together" 

di Nicola Gervasini (29/10/2013)
C'è stato un tempo in cui David Bromberg, session-man di lusso della sei corde roots in tutte le sue declinazioni (chitarra, dobro, mandolino, ne sa qualcosa chi ha comprato l'ultimo volume delle bootleg series di Dylan), diede vita ad un colorato e divertente carrozzone rock che contribuì a scaldare palchi e gli stereo degli anni Settanta. In circa dieci anni di attività la David Bromberg Band produsse una serie di dischi spesso dimenticati nelle classifiche di quelli fondamentali per l'epoca, vuoi perché vendettero comunque poco (a parte forse Midnight On The Water del 1975), vuoi perché erano collezioni di canzoni talmente eterogenee e stilisticamente schizofreniche che non riuscivano ad accontentare nessuno. Titoli come Wanted Dead Or Alive o il doppio How Late'll Ya Play 'Til? restano invece obbligati per una qualsiasi collezione rock base, ma non avevano il rigore di un Ry Cooder, la perfezione dei Little Feat, e soprattutto Bromberg pensava più spesso a sviluppare spettacolo tramite l'arma dell'ironia, dimenticandosi magari di concentrarsi sulla scrittura.

Only Slightly Mad è il primo album della David Bromberg Band dai tempi dell'ignorato commiato di You Should See the Rest of the Band del 1980, ed è un chiaro tentativo di recuperare lo spirito del tempo che fu. Bromberg è stato lontano dalle scene per più di un ventennio, e anche il suo ritorno alla ribalta è stato fatto con il consueto tono timido e dimesso che lo contraddistingue, prima con una interessante raccolta di brani acustici (Try Me One More Time del 2007), poi con un interlocutorio e non del tutto riuscito album full-band (Use Me del 2011). Ma in questo caso il recupero del carattere giocoso e a volte caricaturale della sua musica ha finalmente prodotto i risultati giusti. La partenza di Only Slightly Mad è fulminante: Nobody's Fault but Mine di Blind Willie Johnson sarà pure un bano stra-sentito e stra-rifatto da tutti, ma la versione è di quelle da ricordare, Keep On Drinkin di Big Bill Broonzy viene riarrangiata alla grande con l'aiuto di John Sebastian, e il classico Driving Wheel di David Wiffen diventa una maestosa soul-ballad tutto fiati e cori in cui si esalta il sax di John Firmin.

Dopo gli otto minuti e passa del puro Chicago-blues di I'll Take You Back (un brano dei Little Charlie & the Nightcats) il disco si addentra nel più classico menu completo di tutto della band, con l'immancabile medley tra un suo brano intonato a cappella (The Strongest Man Alive) con alcuni tradizionali irlandesi. In seguito si ricambia completamente versante geografico, tornando nell'America del country con la ballatona tutta steel guitar (la suona il fidato chitarrista di Dylan Larry Campbell, anche produttore dell'album) Last date (un successo per Conway Twitty), e via con i soliti numeri blues (Nobody Knows the Way I Feel This Mornin), bluegrass (un altro medley di tradizionali e un brano di Bill Monroe) e country (The Fields Have Turned Brown). Chiudono gli unici tre brani interamente firmati da Bromberg, che sorprende con la bella ballata west-coast di I'll Rise Again, il soul di World of Fools e la country-ballad You've Got to Mean It Too. Tutto fatto benissimo, tutto già sentito, e soprattutto la solita volontà di fare tutto di tutto: i dischi di Bromberg sono così, offrono innanzitutto varietà, quasi avesse paura di sembrare monotono concentrandosi solo su uno stile. Un po' come quando al ristorante vi portano un tris di primi piatti e due secondi di pesce e carne: difficile che vi piaccia sempre tutto allo stesso modo, ma sicuramente ne uscirete sazi e soddisfatti.



 

BILL RYDER-JONES

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