lunedì 26 aprile 2021

BELLE AND SEBASTIAN

 

Belle and Sebastian

What to Look for in Summer

(2020, Matador)

File Under: Summer in the city

Più di 25 anni di carriera cominciano ad essere tanti per una band, soprattutto se poi importante come lo sono stati i Belle And Sebastian nella fine degli anni 90, probabilmente il vero punto di passaggio dall’era delle grandi produzioni radiofoniche delle major di quel decennio all’era della indie-music improntata al “less is better” degli anni 2000. 25 anni sono infatti passati dal loro esordio Tigermilk, con qualche piccola pausa di riflessione, e un consenso forse un po’ calato in questo ultimo decennio, anche per via di alcune produzioni occhieggianti al pop più danzereccio che non sono state ben accettate dalla vecchia fanbase. In ogni caso se l’iconica figura di Isobel Campbell aveva abbandonato la barca nel momento di maggiore gloria, sono ben cinque i componenti che non hanno mai smesso di dare vita alla sigla fin dalla fondazione (Stuart Murdoch, Stevie Jackson, Sarah Martin, Chris Geddes e Richard Colburn), il che fa di loro uno dei combo più stabili e duraturi di questi anni duemila. Giusto festeggiare quindi queste nozze d’argento con un disco live, ufficialmente il quarto della loro storia se si considera tale anche le BBC Sessions del 2008. Uscito giusto sul finire del 2020, What To Look For In Summer ha però l’evidente aspetto dell’autocelebrazione di una carriera, con il suo formato doppio e una durata di quasi 100 minuti che serve a rileggere un po’ tutte le fasi della loro discografia attraverso 23 brani. Anzi, Stuart Murdoch si spinge anche più in là, citando Yessongs degli Yes e Live and Dangerous dei Thin Lizzy come modello del disco, denotando una nostalgia di un’era in cui il doppio album live veniva visto come il punto di arrivo di una carriera (e per molti, vedi anche gli esempi di Bob Seger, Kiss, Cheap Trick o Peter Frampton, anche l’occasione di maggiori vendite). Nell’era dello streaming e del ritorno all’egemonia del singolo rispetto all’album. la scelta appare quindi anacronistica quanto una pubblicazione su audiocassetta, ma il contenuto giustifica il giochino. Ci sono i grandi classici come If You're Feeling Sinister o My Wandering Days are Over, c’è una band che dimostra ancora tutta la freschezza del suo suono, e soprattutto una gioiosa interazione col pubblico. I brani provengono da diverse serate registrate nel corso del 2019 in alcuni teatri degli Stati Uniti (Solo Little Lou, Ugly Jack, Prophet John è stata registrata a Barcellona). Così come la grandi band degli ani 70, anche i Belle & Sebastian provano dunque a capitalizzare la propria carriera con un disco che può davvero essere un doveroso punto della situazione per chi come noi li segue da sempre, ma anche il punto di partenza per i più giovani, che magari troveranno in questa versione di oltre sette minuti di The Boy with the Arab Strap quanto di più moderno ancora offre quella che per anni abbiamo chiamato indie-pop.

Nicola Gervasini

lunedì 19 aprile 2021

BEN BEDFORD

 

Ben Bedford

Portraits


(2020, Cavalier Recordings)

File Under: History Lesson




Era il 2009 e tra i dischi di outsiders dagli Usa mi capitò di recensire l’esordio di Ben Bedford, giovane cantautore proveniente da Springfield, disco in verità uscito più di un anno prima, ma recuperato per segnalare un autore che già allora notavo come particolarmente dotato nella scrittura, sebbene musicalmente fedele a ai canoni rigidi della canzone americana. Da allora abbiamo seguito la sua carriera, che nel 2018 con The Hermit’s Spyglass è arrivata a cinque album, tutti molto interessanti, sebbene rimasti comunque un fenomeno da sottobosco della roots music. Ma il segnale che qualche riconoscimento perlomeno in patria gli sia arrivato è la pubblicazione di questo Portraits, prima raccolta della sua carriera che serve anche un po’ a sopperire alla difficile reperibilità dei suoi primi 3 titoli. I dodici brani scelti partono proprio da dove lo avevamo incontrato, dagli 8 minuti di Lincoln’s Man, il suo principale biglietto da visita lirico. The Sangamon, contenuta nel secondo disco Land of the Shadows del 2009, dimostra invece come all’inizio Beford cercava nella lezione di cantautori come Townes Van Zandt o Gordon Lightfoot quel mix di asprezza lirica e dolcezza melodica su cui basare la sua musica. Il suo cantato un po’sgraziato e monotono è stato un po’ il suo tallone d’Achille nei suoi primi anni, ma già What We Lost, tratta dall’omonimo terzo album del 2012, mostra i chiari segni di maturazione da perfomer. Col tempo la sua scrittura si è fatta più asciutta, ha perso forse un po’ della verbosità da professore quale è stato (insegnava storia), in favore di una forma canzone più classica e snella che ha fatto si che i suoi due ultimi album abbiano avuto un po’ più di buoni riscontri, ma questa raccolta già mostra, riassumendo il suo primo periodo quanto in fondo già ci stava lavorando bene. E se le storie tipiche del folk più classico restano la sua prima passione (Amelia), già Land Of The Shadows (For Emmett Till) e John The Baptist o Guinevere Is Sleeping mostrano un amore per la letteratura e le citazioni che quasi me lo farebbero paragonare al nostro Roberto Vecchioni in vena di lezioni liceali. In ogni caso se vi viene voglia di recuperare album più maturi come The Pilot And The Flying Machine ‎del 2016, questo Portraits è davvero un valido riassunto delle puntate precedenti di un autore la cui statura resta di nicchia, ma pur sempre di quella nicchia che per noi non smetterà mai di destare interesse, finché l’America raccontata da questi autori sarà presente prepotentemente nelle nostre vite con le sue storie sospese tra grandezza e follia, nel bene e nel male parte anche del nostro background culturale.

 

Nicola Gervasini

lunedì 12 aprile 2021

AARON FRAZER

 


Aaron Frazer - Introducing...

Dead Oceans, 2021.

Dura la vita dei batteristi, da sempre relegati nelle retrovie della ribalta, e considerati spesso braccio ma non mente di un processo artistico, Le eccezioni nella storia ovviamente si sprecano, ma ogni volta c’è sempre una certa immotivata sorpresa quando si scopre che chi batte le pelli in una band tutto ritmo e soul come ad esempio gli Indications, abituale backing-band di Durand Jones, possa esordire con un proprio disco e dimostrare doti da frontman navigato. È questa la storia deI newyorkese Aaron Frazer e del suo Introducing... che sta riportando in questi primissimi giorni del 2021 il soul di nuovo al centro della discussione musicale. Di fatto il buon Frazer arriva ormai ultimo, e pure parecchio in ritardo, rispetto al revival innescato dalla scena New Soul degli anni zero, eppure ogni volta c’è sempre da meravigliarsi come certe lezioni di grandi nomi come Marvin Gaye o Curtis Mayfield siano davvero dure a morire, dopo che gli anni ottanta e novanta parevano averle messe in crisi e definitivamente archiviate. E per Frazer vale un discorso che torna poi buono per tutti, se cercate ancora l’uomo che possa ancora portare avanti il discorso della black music continuate a rivolgervi altrove, perché il suo retro-sound è puro diletto per vecchi cultori della materia, o, se vogliamo, per giovani che si sono persi molte puntate del passato e magari possono ripartire da qui e andare a ritroso per recuperare tutte le lezioni. E chi meglio di Dan Auerbach dei Black Keys nelle sue vesti di produttore poteva cucirgli addosso un sound fatto di soul levigato e fiati sixties. Con riferimenti ogni volta chiari e precisi, nonostante lui giuri che non era sua intenzione fare un disco ancorato al passato. Ma lo smentiscono una You Don't Wanna Be My Baby che riparte là dove Isaac Hayes aveva finito con la cover di Walk on By, una If I Got It (Your Love Brought It) che è puro Mayfield-pensiero, mentre altrove in affiorano chitarre più bluesy che lo portano in zona primo Lenny Kravitz, e così via. Gli danno manforte i Memphis Boys, riuniti a Nashville da Dan Auerbach, gente che era lì a suonare quando Aretha Franklin si sentiva una donna normale e Dusty Springfield flirtava con il figlio del predicatore, per cui capite già bene lo spirito del disco, che segue poi la linea di alternanza tra ballate come Have Mercy, e momenti più movimentati come Ride with Me o Done Lyin’. Insomma, un bigino sospeso tra Stax e Motown che Frazer dimostra di gestire al meglio quasi fosse un veterano, mettendoci se non altro la passione di chi segue con attenzione insegnamenti altrui. Potrebbe essere magari solo il primo seme di un grande albero, come lo fu il timido ma già significativo esordio del 2012 di Michael Kiwanuka (Home Again), preludio ad uno sviluppo di idee che a questo punto attendiamo con giustificate aspettative alte.

 

VOTO: 7,5

lunedì 5 aprile 2021

FRANZONI ZAMBONI

 Franzoni Zamboni

La signora Marron
[Bluefemme StereoRec 2020]


 File Under: frammenti persi di due carriere

bluefemme.it

di Nicola Gervasini

Marco Franzoni e Manuele Zamboni sono due veterani del rock italiano, già assieme nella band dei Noverose tra il 2002 e il 2007. Ed è proprio in quegli anni che erano nate le prime canzoni e idee di questo La Signor Marron. Manuele Zamboni aveva poi seguito una sua carriera solista (tre album tra il 2006 e il 21012), mentre Marco Franzoni ha sviluppato, oltre a quella di session-man tuttofare, anche una carriera di fonico e produttore, nata facendosi le ossa con Hugo Race tra gli altri, e che lo ha portato a seguire dischi per i Superdownhome e Omar Pedrini. E proprio quest’ultimo è stato uno degli artisti che più ha sponsorizzato la necessità di registrare questo album, dove i due confessano tutto il loro amore per la musica d’autore americana, tirando in ballo Bob Dylan e Townes Van Zandt come numi tutelari. Eppure dal punto di vista della scrittura queste dieci canzoni attingono alla grande anche nella tradizione ormai di lungo termine della scena alternativa italiana, ma con un tocco sonoro che loro stessi vedono molto vicino ai Calexico. Registrato a distanza, in pieno “covid-time”, con l’ausilio del batterista statunitense Jonathan Womble, la suggestiva tromba di Francesco Venturini e tanti altri session-men (tra cui anche Claudia Ferretti alias Claudia Is On The Sofa ai cori) , i brani del disco sono ben arrangiati in puro stile da band roots americana, ma descrivono nei testi in italiano una disillusione sulla situazione di casa nostra. La cover di Vicenzina e La Fabbrica di Enzo Jannacci è dunque un significativo tuffo in una visione pessimista della società che era buono nel 1975 quanto ora, ma anche brani come Non Fa Rumore La Primavera (con un bel gioco di fiati), AridaControluce, con il suo teso finale, e Oltre il cortile sanno di disincantata riflessione di mezz’età.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...