sabato 28 febbraio 2009

LIZ DURRETT - Outside Our Gates


13/02/2009
Rootshighway

voto: 6,5


Nell'elenco dei "raccomandati" senza ancora nulla di veramente dimostrato, Liz Durrett vanta una ragguardevole posizione. L'introversa nipotina di Vic Chesnutt, curiosamente nata nella Roma posticcia della Georgia, bazzica le scene da parecchio tempo, con trascorsi da precoce songwriter adolescente per tutti gli anni '90. La produzione della prima parte della carriera è stata registrata e prodotta dallo zio Vic nel disco Husk (che ha visto la luce solo nel 2005), mentre l'esordio vero e proprio è arrivato con il misconosciuto seguito del 2006 (Mezzanine). Outside Our Gates, il suo terzo disco, nasce ad Athens, sotto l'ala esperta di un mago della musica indipendente come Eric Bachmann (Crooked Fingers, Archers of Loaf) e la supervisione di Chesnutt, che partecipa con chitarra e voce. Un team certamente prestigioso, che ha confezionato per la ragazza un sound tetro e autunnale quanto pieno e maturo, grazie soprattutto al genio eclettico di Bachmann (fin troppo eclettico a volte, a giudicare anche dall'ultima confusionaria uscita dei Crooked Fingers), che in questa occasione suona veramente di tutto, fiati compresi.

La Durrett non corre più da sola quindi, ma si lascia trascinare in un vortice di chitarre pigre, archi e tastiere avvolgenti, fiati stridenti e tante percussioni. Un suono sinistro quanto i testi di Liz, che nel singolo Wild As Them sogna di cercare le ossa della persona cara in un bosco, o basterebbero anche solo i versi di Wake To Believe che aprono il cd ("l'orologio gira e gira, e il mio panico suona come un tick tock..") per capire dove si vuole andare a parare. Musica onirica e nebbiosa come le foto offuscate del booklet (l'artwork è stato curato da lei stessa), una ricetta certamente non nuova, che abbandona il minimalismo dei suoi primi dischi (che la faceva assomigliare molto alla Cat Power degli esordi), e si avvicina di più a quello stile moderno condiviso da cantautrici come Kris Delmhorst e Alela Diane. Al di là di decidere se lasciarsi suggestionare da qualche buon trucchetto da sala di incisione, va sicuramente rilevato come la scrittura della Durrett sia in qualche caso cresciuta positivamente, non tanto quando segue l'ermetismo di quelle che, più che canzoni fatte e finite, sembrano essere bozzetti d'artista (i testi di We Build Bridges e Lost Hiker si esauriscono in poche e stringate immagini), quanto dove la vena creativa trova la forza di espandersi in un testo compiuto come Not Running, splendido brano che potrebbe davvero rappresentare il punto di partenza per ulteriori sviluppi.

Sebbene trovi finalmente la quadratura tra suoni e vocalizzi, il disco difetta di varietà, e se l'esperimento corale di The Sea A Dream chiude in maniera più che originale il tutto, alcuni passaggi centrali come Note For A Girl o In The Eaves più che essere eterei, risultano semplicemente impalpabili. Zio Vic scelga: o ci lavora sopra ancora qualche anno, oppure la lasci camminare sulle proprie gambe per vedere se sta in piedi anche da sola.
(Nicola Gervasini)

sabato 21 febbraio 2009

OLLABELLE - Before This Time


28/01/2009
Rootshighway

VOTO: 7,5



Il vero fan di un artista è quello che non si fa mai sorprendere dal nuovo disco del proprio beniamino perché ne ha seguito passo a passo le scorribande live, vivendone così in diretta i progressi e i cambi di direzione. Sarà dunque l'impossibilità di concedere tanta attenzione a tutti la ragione per cui l'ascolto di Before This Time degli Ollabelle ci coglie leggermente impreparati, colpa del comprensibile pregiudizio verso un disco live uscito dopo solo due dischi in studio, un'operazione che sa inevitabilmente di band che tergiversa in attesa di tempi creativi migliori. Invece Before This Time è uno di quei dischi live che fa storia a sé, o se preferite, è già di per sé il vero e proprio terzo album degli Ollabelle. Non tanto perché la scaletta offra qualcosa di particolarmente nuovo: quattro brani (Before This Time, John The Revelator, Elijah Rock e Soul Of A Man) vengono dal primo disco del 2004, mentre due (Troubles Of The World e See Line Woman) dall'acclamato Riverside Battle Songs del 2006, e più che altro la band continua a basare il proprio repertorio principalmente su rivisitazioni di traditionals o brani altrui.

Ma Before This Time porta nei nostri stereo una jam che amalgama a perfezione folk, blues, gospel, bluegrass e persino un tocco di jazz, con una tendenza a destrutturare, ad improvvisare, a lasciare liberi di movimento gli straordinari musicisti che compongono il gruppo (le belle voci e chitarre di Fiona McBain e Amy Helm, il bassista Byron Isaacs, il batterista Tony Leone e soprattutto le splendide tastiere di Glenn Patscha). C'è pure la chitarra di Larry Campbell (già produttore del loro secondo disco) in alcuni brani, e c'è anche una serie di ospiti mai di contorno ai fiati. I brani già in repertorio di questo combo newyorkese vivono dunque una nuova vita, trovano un ritmo insolito che va a piazzarsi tra una jam mattutina con i JJ Grey & Mofro, un tè delle cinque preso con i Cowboy Junkies e una nottata passata sui dischi dei Grateful Dead. E proprio quest'ultimi rivivono in una Brokedown Palace pienamente votata al gospel, mentre la dolce Amy non nasconde le proprie origini trascinando la band nel coro di Ain't No More Caine, brano che papà Levon masticava nelle cantine di Big Pink quando lei non era ancora nata.

Il loro grandissimo merito è quello di strabiliare con materiale scontatamente orecchiabile ai più come Saints, che altro non è che When The Saints Go Marchin'In infarcita di mille altre citazioni, o di pescare brani poco noti come Looked Down The Line di Sister Rosetta Thorpe e farli volare in alto. Il limite resta invece quell'impressione che abbiano molto da dare e poco da dire. Poco male, di band capaci di creare opere a sé stanti su un palco ne sono rimaste davvero poche, a scrivere belle canzoni ci pensino pure i mille songwriters che invadono le strade americane, noi teniamoci intanto ben stretti musicisti di tal livello e sensibilità, fintanto che se ne fanno ancora.
(Nicola Gervasini)

mercoledì 18 febbraio 2009

KELLI ALI - Rocking Horse


09/02/2009
Rootshighway


VOTO: 6
Quello di abbandonare il mondo del pop e dell'elettronica per trasformarsi in artista folk o country sembra essere diventata una nuova moda. Dopo la mossa azzardata dal francese Solal dei Gotan Project con le sue Moonshine Sessions (riuscita in fondo), ci prova anche Kelli Ali a rivestirsi (o a vestirsi proprio, visto che nella copertina del suo primo album solista appariva in provocante topless…) da fatina brit-folk, sfruttando la sua voce eterea e delicata. Protagonista della stagione d'oro del trip-hop di Birmingham negli anni '90 con gli Sneaker Pimps (si chiamava Kelli Dayton ai tempi), la Ali aveva tentato neanche tanto nascostamente un approdo al mondo del pop mainstream con l'album Tigermouth del 2003 (che vedeva la curiosa collaborazione del batterista dei Doors John Densmore) e con un tour come spalla dei Garbage, non prima di aver duettato in un singolo di funky-rap con l'ex bassista dei Parlamient e Funkadelic Bootsy Collins, e partecipato al disco di remix in chiave hip hop/trip hop dei Limp Bizkit. Mondi lontani, anzi lontanissimi da questo Rocking Horse, un terzo album dove la Ali si butta in una terra fatta di nenie acustiche, violini suadenti, flauti e glockenspiel a perdere. Potremmo tirare in ballo la Mezzanine dei Massive Attack, eventualmente rifatta con base tradizionale e senza ombra di elettronica, per dare un idea sulla carta del contenuto di questo disco, e sarebbe anche un paragone del tutto prestigioso, se non fosse che non tutti i brani qui contenuti possono competere a quei livelli. La Ali, va detto, sorprende positivamente, sia perché dimostra di avere nel sangue il suono tradizionale della sua terra, sia perché tira fuori dal cilindro anche delle canzoni di buon spessore. Nel complesso il disco pecca di eccessi di romanticismo e vezzi barocchi, e di una formalità manieristica fin troppo rigida, rischiando spesso di deragliare verso le leziosità new age alla Enya (ma non raggiungendole mai, per nostra e sua fortuna). Non convincono appieno i brani più riflessivi, come la piano-song Urique o la faticosa September Sky, ma ad esempio proprio tra questi due momenti deboli si trova la splendida title-track, brano teso e strutturalmente complesso, con un coinvolgente tappeto di distorsioni e archi minacciosi degno del Nick Cave più ispirato. Momenti dunque, non facilissimi da riconoscere perché il disco è lungo e tende nel suo insieme ad appiattire il tutto in un'unica ninna nanna. Le canzoni sono nate durante un lungo viaggio fatto da Ali tra la California e il Messico, luoghi ideali per ritrovare sé stessa, e l'idea della fuga e del viaggio è infatti il motivo portante anche di molti testi. Credibile e tutto sommato piacevole questa svolta drastica della sua carriera, anche se ora la ragazza cammina su terreni dove la concorrenza è ben più agguerrita e autorevole, e per avere anche il nostro plauso ci vuole molto di più. (Nicola Gervasini)

sabato 14 febbraio 2009

LARKIN GRIMM - Parplar


Rootshighway
6/2/2009
VOTO: 6,5
Leggi della produzione di Michael Gira e ti aspetti già un disco fuori dagli schemi, sempre che abbia senso ancora considerare eccentrico e non la norma un bellissimo disco come quel We Are Him prodotto lo scorso anno dai suoi Angels Of Light. Leggi della partecipazione alle sessions dei Fire On Fire e ti aspetti quelle digressioni di psycho-folk che stanno facendo apprezzare molto il loro The Orchard. Ma soprattutto leggi Larkin Grimm e scopri una graziosa ventiseienne di Memphis che sta ammaliando chiunque le capiti a tiro nelle sue scorribande live. Articoli, recensioni, interviste su di quest'artista, giunta con Parplar già al terzo album, concordano tutti nel definirla una "sacerdotessa", nel sottolineare l'elemento favolistico e stregato della sua immagine e della sua musica. Un'impalcatura sonora che poggia sul nuovo freak-folk yankee alle fondamenta, si costruisce con la prosopopea di un Nick Cave, ma si traduce poi in una serie di piccole nenie fanciullesche che intrecciano suoni acustici, stravaganze indie assortite e una passione per la sovrapposizione di diverse parti vocali. Figlia di hippies, esperta di arti sciamaniche, votata a way of life buddhista, la Grimm più che da un fiaba dei fratelli suoi omonimi, sembra essere stata sputata fuori dal mondo del Mago di Oz, oppure inviata dagli Dei dell'Olimpo per dare voce ai cori delle Sirene di Ulisse. Tutto molto suggestivo quello che si sente in Parplar, come il fatto che lei stessa parla di una musica nata dalla "prorompente eruzione dei suoi ormoni", un'orgia di suoni provenienti dai monti Appalachi e quell'arte un po' altezzosa di fare canzoni che non sono mai vere e proprie canzoni, ma spesso bozzetti che si pongono tra l'essenzialità armonica del Nick Drake in volo sulla luna rosa e il canto della Kate Bush più in pace con gli elementi della natura. Più della metà di queste 15 brevi tracce si basano su giravolte vocali accompagnate da un arpeggio, spesso continuo ed ipnotico, di chitarre e altri mille strumenti acustici suonati. Così tra echi di depressione esistenziale e tanta voglia di fuggire dalla realtà e dai suoi rumori, Parplar butta l'ascoltatore in quaranta minuti stordenti, in cui la brevità delle canzoni (molte sotto i due minuti) scatena una caccia per afferrare sensazioni che volano via dalle mani come farfalle. Alla fine titoli come The Dip, Mina Minou o Anger In Your Liver si fanno apprezzare più per la stravaganza che per la sostanza, quando invece il disco si era aperto con una serie di episodi coinvolgenti e ben rifiniti come Ride That Cyclone o Dominican Rum. Non è dunque per snobismo culturale che, nonostante Parplar sia disco che si può solo amare od odiare ala follia, decidiamo di porci nel mezzo. Semplicemente perché le fughe oniriche e extrasensoriali spesso offerte dalla benemerita etichetta Young God sono sempre benvenute, ma se condite anche con brani più memorabili per i terrestri come quelli del suo patron Gira o degli stessi Fire On Fire, finiscono anche per piacerci di più.(Nicola Gervasini)

mercoledì 11 febbraio 2009

BON IVER - Blood Bank


Buscadero
Febbraio 2009
VOTO: 5,5
Sono anni di frammentazione e chiusura in nicchie ben definite quelli che stiamo vivendo a livello di produzioni discografiche, e le classifiche di fine anno delle diverse riviste specializzate o webzines musicali ce lo hanno appena confermato, proponendo una tale varietà e quantità di titoli “importanti”, che sfidiamo chiunque a non rimanerne pienamente disorientato. In questo mare magnum di top-records dell’anno, due dischi in particolare si sono contraddistinti per aver presenziato in quasi tutte le liste del 2008, indipendentemente dall’indirizzo di genere della testata: il primo è sicuramente il sorprendente esordio dei Fleet Foxes, piazzatosi tra i primi dieci anche per la nostra rivista, mentre il secondo nome spesso ricorrente è stato quello di Bon Iver, alias Justin Vernon, che ha convinto molti con il suo For Emma, Forever Ago. Impresa in fondo meno scontata la sua, perché se per i Fleet Foxes si può forse scomodare il termine “novità” per definire il loro strano impasto di suoni e voci, Bon Iver invece è l’ultimo di una ormai lunghissima schiera di strampalati autori introspettivi e malinconici, e perdersi nella folla era rischio altissimo. Pieno merito dunque all’essere riuscito ad elevarsi da una massa con confini non più a vista, e ovviamente fucili puntati per il secondo passo. Per ingannare l’attesa, (che non dovrebbe essere poi tanto lunga, visto che le registrazioni del suo primo disco risalgono al 2006), la sua etichetta prova a raschiare fin da subito la sua cassetta dei pezzi di ricambio, pubblicando Blood Bank, un piccolo ep di quattro brani che il ragazzo aveva stampato esclusivamente in vinile in tiratura limitata, e che usava vendere durante i suoi concerti. Registrazioni anche qui del periodo 2006-2008, ed è facile riconoscere nella bellissima title-track che apre le danze quella più recente. Blood Bank è una storia d’amore, nata tra le provette di una banca del sangue con una ragazza che nasconde un segreto inconfessabile che Iver preferisce lasciare nel mondo delle ambiguità, una piccola fotografia di emozioni di una vicenda di giovani freaks moderni davvero intrigante. Brano teso e romantico al tempo stesso, Blood Bank è senza dubbio l’anello che mancava alla suadente catena del suo disco d’esordio. Peccato poi che il resto dell’ep contenga tre brani che sono più che altro tre piccoli esperimenti di un artista che ama registrare in totale solitudine (solo in Babys si registra un intervento di chitarra di Mark Poulson). E così Beach Baby porta la tormentata vicenda amorosa dal freddo della copertina al caldo di una spiaggia, azzardando un incontro tra una acustica suonata su toni bassi e il falsetto un po’ sopra le righe della sua voce. Forse più convincente l’ipnotica Babys, che parte già addormentata su un'unica nota di pianoforte, ma conosce un buon crescendo che la rende più che interessante. Difficile invece digerire Woods, dove Bon Iver gioca con una serie di registrazioni a cappella di un brevissimo testo, modulando toni e filtrando voci, con un risultato decisamente “progressive”, ma un po’ fine a sé stesso. Prodotto “only for fans” dunque questo Blood Bank, opera da evitare se volete capire come mai tanto entusiasmo per il personaggio, obbligatoria invece per intuire cosa gli sta frullando in testa per il futuro. (Nicola Gervasini)

sabato 7 febbraio 2009

THE YOUNGERS - Heritage


Rootshighway
23/01/2009
VOTO: 7
Robert Earl Keen nel 1989 diceva che la strada continua per sempre e la festa non finisce mai, e così Todd Bartolo, cantante degli Youngers, vent'anni dopo conferma e ribadisce: le highways americane vanno sempre avanti, ma come recita un verso della sua Highway 9, "qualcuno dice che ci sono strade asfaltate con l'oro, ma io non ne ho mai incontrate". Strade polverose quindi quelle cantate in questo Heritage, quelle dove viaggia l'America proletaria che non ce la fa più ad arrivare alla fine del mese, per dirla con una espressione tutta italiana . Se l'anno scorso i Drive By Truckers di Brighter Than Ceation's Dark hanno cantato la perdita dell'anima di una nazione, questo quartetto della Pennsylvania scende di livello e nel loro secondo album (prodotto da John Carter Cash, proprio il figlio del grande Johnny) parlano solo di perdita di soldi e di dignità sociale.Non ascoltavamo da tempo un disco così meritevole dell'etichetta "blue-collar", sia perché stilisticamente gli Youngers offrono una sorta di perfetto riassunto del rock americano degli ultimi 20 anni (senza peraltro aggiungervi alcunché), sia perché la maggior parte di queste canzoni parla di disperati nelle mani delle banche, con piani pensione che impediscono di vivere il presente, mutui soffocanti, e con ben quattro brani che hanno per protagonista un uomo che ha perso il lavoro. La title-track resta in questo senso perfettamente programmatica, storia di un reduce del Vietnam che non riesce a sbarcare il lunario con la propria attività di truck-driver, film già visto mille volte ormai, ma il brano si conclude con un elenco dei disperati che necessiterebbero di un sussidio, una lista che è poi la più completa galleria di protagonisti del rock stradaiolo yankee del secolo scorso: railroad men, farming men, steel mill men, truck driving men e più genericamente working men. Questa è la gente che popola Heritage, vale a dire la vera cartina al tornasole dello stato di salute dell'economia americana, non categorie penalizzate da questioni razziali o storiche, ma semplicemente la classe lavoratrice bianca che da sempre traina l'american dream. E che secondo Bartolo ormai non è in grado neppure di trascinare sé stessa, persa ormai nel viaggio senza fine di Highway 9 e Truck Driving Man, nelle storie d'amore senza senso di Heartbreaker, nella fuga senza ritorno di The Ride, nella delinquenza di The Wild Ones o nell'alcolismo pieno di rimpianti di Right All The Wrongs. Il "party" arriva solo nel testo finale di Downtown, ma ormai è troppo tardi, il brano si trascina per più di sei minuti in una infinita tristezza, dopo che il disco aveva già chiuso ogni speranza in un viaggio fatto di jingle-jangle rock (Seat 24), alt-country di grana grossa (Our Little Secret), echi springsteeniani con il sax alla Clemmons di Middle Of The Night. L'american-pie infornata dagli Youngers segue una vecchia ricetta senza sgarrare di un grammo sulle quantità, ma è pur sempre un prodotto genuino di una nazione che ha bisogno di rigenerarsi dalle fondamenta.(Nicola Gervasini)

martedì 3 febbraio 2009

WADE LASHLEY - Someone Take The Wheel


19/01/2009
Rootshighway


VOTO: 7


Non manca nulla: c'è la strada, c'è una macchina sgangherata che si dirige verso l'orizzonte, c'è il mito americano in ogni verso dei suoi testi, ci sono quei suoni impastati di Mississippi che piacevano al John Hiatt che fu, c'è un vocione baritonale che dialoga con le tastiere (solo piano e organo hammond, i puristi non pensino subito male…), c'è quella sensazione che coglie fin dal primo ascolto di essere di nuovo a casa sotto la propria vecchia rassicurante coperta. Occhi puntati dunque su Wade Lashley, l'ultimo arrivato di una tradizione di cantautori americani che vivono sospesi tra folk e rock sudista, e sul suo Someone Take The Wheel. Nel 2005 questo non più giovanissimo artista dell'Arizona aveva pubblicato un cd in solitudine (In From The Wilderness), risultato di un'attività amatoriale che dura fin dai primi anni 90, ed ora confeziona il suo disco della maturità, album che tranquillamente consigliamo mettendo ben in chiaro però che trattasi di prodotto da usare dopo aver ben letto le avvertenze e le modalità d'uso.

E' infatti anche molto probabile che il personaggio abbia già detto in questo cd tutto quanto ha da dire, brani come Turn Around South Bound (con il suo organo alla Al Kooper) o Coffee Tea And Whiskey, ad esempio, rinverdiscono con qualità una buona tradizione senza spostare alcunché, e anche laddove sembra toccato da una musa ispiratrice in piena forma, la sensazione è sempre quella di una giornata felice di una penna ordinaria. Non è davvero facile oggigiorno fare dischi di genere senza scadere nel puro manierismo e nella ripetizione, se si dovesse usare il metro di giudizio dell'originalità qui dovremmo sparare ad altezza uomo, ed è per questo che oggi forse siamo più volti alla ricerca della personalità, elemento di cui Lashley non difetta, pur non strabiliando. Giusto quindi che questo Someone Take The Wheel non passi inosservato tra i tanti, la produzione è ottima (fa tutto Jeff Lusby, di professione tecnico del suono, e si sente) e il disco non conosce momenti di stanca, se non forse l'eccessiva ripetitività di Drift Away.

Per contro brani come Fall o la stessa Someone Take The Wheel fanno parte di quella razza superiore di canzoni in grado di reggere bene il confronto con altri concorrenti in una vostra ipotetica compilation da strada, perché è sull'asfalto che queste canzoni trovano il loro humus ideale per crescere rigogliose. Per il resto i titoli fanno già immaginare il contenuto: Tonight è la ballatona romantica che non deve mai mancare in queste opere, River Song la classica cavalcata di rock rurale alla texana come potrebbe inventarsela un Joe Ely qualsiasi, Waiting On The Rain è un folk di brevettata fattura simile al Graham Parker più americanizzato, Rootless Wanderer l'immancabile inno agli hobo senza radici che chiude con toni epici il disco. E Someone Take The Wheel è il disco che già avete, ma che vorreste ritrovare ancora.
(Nicola Gervasini)




VERSIONE RIDOTTA IN INGLESE


There’s a road, there’s a car going towards the horizon, there’s the American Myth in every line of his songs, there are those sounds covered with Mississippi mud that John Hiatt used to love, there’s a big baritone voice talking with keyboards (only piano and hammond organ, don’t worry about synthesizers), there is that sensation, that catch you since the first time you hear that record, to be at home again under your reassuring covers. Eyes fixed on Wade Lashley, the last of an American songwriters tradition that lives between folk and southern rock, and upon his Someone Take The Wheel. In 2005 this not-so-young Arizona artist had published a solo record (In From The Wilderness), the result of an activity that last since the 90’s, and now he has done his maturity record. Probably Lashley have anything more to say than what Turn Around South Bound (with his Al Kooper-like organ) or Coffee Tea And Whiskey have already said, and it’s to take on a new life a good tradition without moving anything, and also in the better moments, he seems to have an ordinary pen caught in a right moment. It’s not easy today to make roots-records without falling in repetition and mannerism, but if there’s no much originality here, Lashley has enough personality to manage things in the right way. So it’s fair if we choose Someone Take The Wheel between many others similar records, there is a perfect production (Jeff Lusby, a sound engineer) and there’s no lack moments, except probably some repetitiveness in Drift Away. But songs like Fall or Someone Take The Wheel are part of this superior race of songs that you can put on a car-compilation with your best track-list of the moment, because these are tunes that only ask to be heard on the road. Tonight is the irremissible romantic ballad, River Song the classic texan rural ride as Joe Ely used to do, Waiting On The Rain is a patented folk registered by the americanized Graham Parker, Rootless Wanderer the inevitabile hymn to the hobos that close the record with some epic mood. And Someone Take The Wheel is the record that you already have in your cd’s collection, but you still need again. (Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...