Rootshighway
6/2/2009
VOTO: 6,5
Leggi della produzione di Michael Gira e ti aspetti già un disco fuori dagli schemi, sempre che abbia senso ancora considerare eccentrico e non la norma un bellissimo disco come quel We Are Him prodotto lo scorso anno dai suoi Angels Of Light. Leggi della partecipazione alle sessions dei Fire On Fire e ti aspetti quelle digressioni di psycho-folk che stanno facendo apprezzare molto il loro The Orchard. Ma soprattutto leggi Larkin Grimm e scopri una graziosa ventiseienne di Memphis che sta ammaliando chiunque le capiti a tiro nelle sue scorribande live. Articoli, recensioni, interviste su di quest'artista, giunta con Parplar già al terzo album, concordano tutti nel definirla una "sacerdotessa", nel sottolineare l'elemento favolistico e stregato della sua immagine e della sua musica. Un'impalcatura sonora che poggia sul nuovo freak-folk yankee alle fondamenta, si costruisce con la prosopopea di un Nick Cave, ma si traduce poi in una serie di piccole nenie fanciullesche che intrecciano suoni acustici, stravaganze indie assortite e una passione per la sovrapposizione di diverse parti vocali. Figlia di hippies, esperta di arti sciamaniche, votata a way of life buddhista, la Grimm più che da un fiaba dei fratelli suoi omonimi, sembra essere stata sputata fuori dal mondo del Mago di Oz, oppure inviata dagli Dei dell'Olimpo per dare voce ai cori delle Sirene di Ulisse. Tutto molto suggestivo quello che si sente in Parplar, come il fatto che lei stessa parla di una musica nata dalla "prorompente eruzione dei suoi ormoni", un'orgia di suoni provenienti dai monti Appalachi e quell'arte un po' altezzosa di fare canzoni che non sono mai vere e proprie canzoni, ma spesso bozzetti che si pongono tra l'essenzialità armonica del Nick Drake in volo sulla luna rosa e il canto della Kate Bush più in pace con gli elementi della natura. Più della metà di queste 15 brevi tracce si basano su giravolte vocali accompagnate da un arpeggio, spesso continuo ed ipnotico, di chitarre e altri mille strumenti acustici suonati. Così tra echi di depressione esistenziale e tanta voglia di fuggire dalla realtà e dai suoi rumori, Parplar butta l'ascoltatore in quaranta minuti stordenti, in cui la brevità delle canzoni (molte sotto i due minuti) scatena una caccia per afferrare sensazioni che volano via dalle mani come farfalle. Alla fine titoli come The Dip, Mina Minou o Anger In Your Liver si fanno apprezzare più per la stravaganza che per la sostanza, quando invece il disco si era aperto con una serie di episodi coinvolgenti e ben rifiniti come Ride That Cyclone o Dominican Rum. Non è dunque per snobismo culturale che, nonostante Parplar sia disco che si può solo amare od odiare ala follia, decidiamo di porci nel mezzo. Semplicemente perché le fughe oniriche e extrasensoriali spesso offerte dalla benemerita etichetta Young God sono sempre benvenute, ma se condite anche con brani più memorabili per i terrestri come quelli del suo patron Gira o degli stessi Fire On Fire, finiscono anche per piacerci di più.(Nicola Gervasini)
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