lunedì 28 febbraio 2011

Gianluca Salvadori & Friends - Due Passanti


Visto che su queste pagine parliamo spesso e volentieri di un ex pilota di elicotteri militari (Kris Kristofferson), perché non volgere lo sguardo anche sulla musica nostrana e scoprire così le canzoni di Gianluca Salvadori, un vecchio pilota di aerei di caccia del nostro esercito. Fiorentino, classe 1948, Salvadori è uno strano caso di pensionato che invece di passare gli anni di riposo imbesuendosi davanti alla tv, ha deciso di dare corpo ad una mai sopita (e mai sviluppata) passione musicale. Se Musica e Sudore del 2009 era un timido approccio al mondo discografico, Due Passanti, prova a buttarsi nella mischia con più convinzione e una buona produzione che unisce in un mix affascinante musicisti di estrazione jazz e folk. I riferimenti sono quelli da Premio Tenco, con una Quei Famosi Cinque Ottavi che sembra un brano del primissimo Capossela, qualche ritmo sudamericano che non manca mai in queste occasioni (Una Notte Surreale, quasi in zona Fabio Concato), ma soprattutto una decisa influenza della scuola genovese di Fossati (Tempo di Passaggio) e De Andrè (Sogno Clandestino). Salvadori si destreggia bene con i versi, ha una vocalità da cantautore classico che usa in maniera ligia ai dettami del genere, e quando affronta il tema del volo a lui caro (La Musica dell'Aeroplano, impreziosita da un bell'arrangiamento d'archi) finisce anche per diventare originale. Nell'economia del cd manca forse qualche stacco ritmato che movimenti lo scorrere dei testi, nonostante Tre Parole abbia i toni della commedia non solo nel testo (la storia: un impiegato di banca si scatena in un tango con una sudamericana in una magica notte latina, ma rovina il tutto con un sonoro peto sul più bello…), e Notte Turca ironizza molto su una avventura erotica sul Bosforo. Due Passanti è un disco fatto di poesia, delicatezza e ironia, e naturalmente qual vago tocco jazz che rappresenta da sempre il bollino D.O.C. del cantautorato nostrano. ( 6.5)
(Nicola Gervasini)

www.gianlucasalvadori.it

sabato 26 febbraio 2011

Luciano Federighi - On The Streets Of Lonelyville


In un suo libro del 1996 intitolato Cielo di terremoto (edito da Pacini, editore anche della collana Fanclub sponsorizzata da Rootshighway) Luciano Federighi (storica firma della rivista Musica Jazz) inscenava una sorta di road story per gli Stati Uniti a base di jazz e blues, dove la storia finiva quasi per essere un pretesto per raccontare una terra dove società e musica finiscono sempre per coincidere. Lui d'altronde al blues e al jazz ha dedicato molti saggi e anche alcuni dischi, (15 Minutes & 30 years è passato anche sulle nostre pagine), il primo dei quali (In A Blizzard Of Blue ) fu edito nel 1989 dalla mitica etichetta varesotta Splasc'h. E proprio la storica casa di tanti grandi dischi del jazz italiano si è recentemente sdoppiata in una co-marca chiamata Pus(H)in Records, dedita a sperimentare territori al di fuori del jazz. On The Streets Of Lonelyville infatti è l'ultima opera di Federighi, un disco nato per essere blues, ma che finisce per impantanarsi presto nel fango del Mississippi, garantendogli a questo punto il titolo di Dr. John italiano vista la somiglianza della voce. Ma Lonelyville è quasi un luogo della mente, dove s'incontrano tutte le culture musicali americane, citato indifferentemente da Frank Sinatra, Porter Wagoner o Georgie Jones come si apprende dal retro-copertina, ma è anche il luogo di queste 14 canzoni autografe (a parte la jazzata From 12:30 To Forever), che tra blues (Too Much Of A Good Thing), New Orleans funky (la frizzante Unlock The Door To Baltimore) e tanto del Dr John più innamorato del jazz, ci porta in un viaggio lungo (55 minuti) nella musica d'oltreoceano, attraverso la lezione di un professore in materia e di uno stuolo di ottimi musicisti italiani. Didattico, ma con passione. ( 7)
(Nicola Gervasini)

www.pushin-records.com

mercoledì 23 febbraio 2011

FEIST - LOOK AT WHAT THE LIGHT DID NOW - the dvd
















Le prime immagini sono come te le aspetti: sfocate, oniriche, e già le note del brano Look At What The Light Did Now fanno presagire il lisergico viaggio musical-cinematografico che potrebbe fare un David Lynch intento a fare un documentario sul nuovo folk canadese. Poi ad un tratto la protagonista viene catturata e presentata nientemeno che da Kermitt, la famosa rana dei Muppet Show, e allora si comincia a capire che il film Look At What The Light Did Now (uscito oggi in DVD dopo due anni di presentazioni in mostre d’arte e concerti) riserverà delle sorprese. Leslie Feist, o chiamatela solo col cognome in occasione delle sue sortite soliste, ha voluto fortemente realizzare questo film per documentare la lavorazione di The Reminder, acclamato (e vendutissimo) album del 2007, prima di dedicarsi all’atteso successore. Il momento artistico che coglie la bella canadese è sicuramente speciale, e il regista Anthony Seck (tanto teatro e cortometraggi nel suo curriculum) sembra coglierlo con la dovuta delicatezza, senza invadere troppo l’atmosfera magica, neppure negli inevitabili momenti di parole e interviste dei collaboratori più stretti. Il processo creativo è descritto minuziosamente, e non solo dalla stessa Feist, ma anche dalle creatrici dell’artwork e del set fotografico, anche se il premio per il miglior attore non protagonista va al produttore Chilly Gonzales, spesso impegnato in suggestivi solo al piano nei momenti di studio dell’arrangiamento giusto, che finiscono per essere la vera colonna sonora del film. 77 minuti solo per fans ovviamente o magari per chi ancora deve riscoprire la delizia di brani come So Sorry, My Moon My Man e tanti altri, anche se il vero fine è poi invogliare a rimettere The Reminder nel lettore. Un plauso comunque a Seck per essere riuscito a mantenere alta l’attenzione per tutta la durata del lungometraggio, impresa non facile in questo tipo di operazioni. Le sorprese vengono semmai dai contenuti speciali, con due cortometraggi sperimentali che vedono coinvolta Feist in prima persona, con un The Water fatto di sguardi e silenzi, tra poesia e malinconia, e un Departures che si trasforma in un bel video musicale all’interno di un aeroporto, con lei impegnata in un balletto con hostess e stewards (i due protagonisti finiscono di fatto nel set per il video di My Moon My Man). Ci sono anche i video musicali veri e propri naturalmente (lo scoppiettante I Feel It All, il quasi-musical di Broadway di 1234, e la bellissima storia di pupazzi inscenata per la tragica Honey Honey). All’appello dei contenuti extra rispondono anche varie live-performances (impossibile non rimanere stregati dall’incontro tra arte e musica dello show tenuto al Living Lantern di Toronto, mentre il set tratto dal Reminder Tour pecca un po’ sotto il profilo delle riprese per dare precedenza ai film proiettati alle spalle (come usavano fare i Velvet Underground che furono). Se il tutto serviva per ribadire l’approccio fortemente visivo degli show e della musica di Feist, il risultato è quello giusto.

Nicola Gervasini

lunedì 21 febbraio 2011

THE MOLENES - Good Times Comin


Piano piano, ma forse ce la fanno anche i Molenes a diventare grandi. Band della East Coast con all’attivo già alcune produzioni minori (da notare l’album Songs of Sin and Redemption, cd del 2008 prodotto dall’ex Say Zu Zu Jon Nolan), il quartetto capitanato dal chitarrista Dave Hunter (voce, autore di tutti i brani e pure produttore dell’opera) sta cominciando con questo Good Times Comin’ a macinare roots-music con una certa personalità. Nulla di nuovo per carità, questi 11 brani sciorinano déjà vù chitarristici country a non finire (Hot Damn potrebbe essere una outtake di un qualsiasi disco di Dwight Yoakam) e temi già noti, ma ad un ascolto attento comincia ad affiorare in alcuni episodi un know-how di un certo rock della provincia che ha antichi sapori. Potrebbe essere solo un caso se a mixare i brani sia un certo Paul Kolderie, un uomo che negli anni 90 ha dato supporto tecnico agli Uncle Tupelo (ma anche ai Buffalo Tom, Dinosaur Jr., Pixies, Throwing Muses, Morphine), quindi un simbolo di un irripetibile decennio dove musica alternativa e tradizionale si sono felicemente incontrate. Hunter è conscio di non poter dire nulla di più di questi maestri, ma ugualmente ne segue fedelmente le tracce, anche se giustamente la mette sull’energia da bevuta al bar (Rockin’ Monophonic, Penny In The Sun) per non dover sfigurare troppo. In ogni caso a lungo andare ci si rende conto che gli oscuri presagi sonori di Good Luck Charm o il lungo racconto di Four Feet Under sono men che meno che dei divertissement da pub fuori città. La certezza arriva quando la ballatona stile “invita la pupa in pista e stringila forte” (Miracle Cure) la mette anche sul tragico, ma è solo un attimo prima di chiudere saltellando con Ten Pound Hammer o omaggiando i riff alla Lynyrd Skynyrd in Straight Ahead. Il riferimento più diretto sono comunque i Bottle Rockets, con brani come la stessa Blood And Bone che apre le danze che davvero potrebbero essere uscite dalla fabbrica di Brian Henneman. La via per un lavoro da consigliare ai quattro venti è ancora ardua, ma se volete farvi una bevuta non del tutto spensierata, Good Times Comin’ è proprio il disco giusto.
Nicola Gervasini

giovedì 17 febbraio 2011

ELLIOTT MURPHY - Elliott Murphy


Da Elliott Murphy mi sono sempre fatto fregare volentieri. Sono più di vent'anni che mi capita di incappare in uno dei suoi tanti concerti tenuti in Italia, sono più di vent'anni che gli sento raccontare sempre le solite storielle sul rock (quella della confusione tra Jim e Van Morrison, raccontata per introdurre Party Girls & Broken Poets, gliela avrò sentita dire almeno 4 volte), sono più di vent'anni che le ascolto sempre volentieri. Murphy per noi è stato il simbolo del losers, il rocker talentuoso sottostimato e sottopagato che tutti abbiamo sventolato come bandiera di una resistenza rock fatta di canzoni intelligenti e dischi che toccavano il cuore. Oggi purtroppo sappiamo anche che seguire Murphy in questi anni 2000 è significato digerire una lunga serie di album comunque minori, che da troppo tempo non uscivano dal tran-tran collaborativo col pur bravo chitarrista Olivier Durand. E con le ultime uscite, al di là dei suoi atavici problemi produttivi, è anche affiorata una drammatica verità: se dal punto di vista delle storie Elliott resta una dei migliori imbonitori sulla piazza, sotto il profilo strutturale le sue canzoni soffrono ormai di una totale mancanza di idee.

Elliott Murphy ci viene presentato come il disco della svolta, ed è per questo che manca di titolo come spesso accade alle opere prime, perché ci sarebbe un nuovo suono, una nuova band e un nuovo produttore. E soprattutto torna ad essere un album registrato principalmente a New York. Poi leggi bene e scopri che l'uomo della svolta è nientemeno che suo figlio Gaspard Murphy, leggi bene che Olivier Durand è sempre della partita, leggi bene che la nuova fantasmagorica band è composta da vecchi amici e residuati del rock della Big Apple degli anni settanta (l'ex Mink DeVille Kenny Margolis per dirne uno). E senti bene che il piccolo Gaspard ha effettivamente dato una rinfrescata e una rimpinguata al sound, ma non ha avuto abbastanza coraggio da staccare la spina dell'acustica di papà, che in studio fa da sempre più danni che altro. Ma soprattutto nulla ha potuto contro il fatto che in sé il disco è effettivamente uno dei migliori sotto il profilo della realizzazione (tanto che qualcuno potrebbe anche essere indotto ad acclamare il nuovo Murph The Surf), dal punto di vista delle canzoni il lotto conferma la perdita del magic touch di Elliott.

Non che non ci siano spunti interessanti qui, come al solito riscontrabili nel citazionismo dell'iniziale Poise n' Grace, o nella splendida accoppiata Rain Rain Rain/Train Kept A Rolling che chiude più che degnamente il disco. Ma per arrivarci bisogna passare attraverso materiale di serie B come l'imbarazzante Rock'n Roll 'n Rock 'n Roll o giri da prima lezione di scrittura rock come The Day After You (impreziosita - si fa per dire - da pessimi riverberi di voce). L'equa divisione tra episodi comunque notevoli (Gone, Gone, Gone o anche la quasi pop-dance With This Ring) e altri dimenticabili, ci permette di concedere ad Elliott Murphy la palma di suo disco migliore per lo meno da Strings Of The Storm in qua, ma la sensazione che ci abbia fregato un'altra volta resta forte.
(Nicola Gervasini)

CANTAUTORI A SANREMO

C’è un certo gusto del perverso nel far gareggiare Franco Battiato e Roberto Vecchioni contro Emma e i Modà e Anna Tatangelo, e probabilmente solo la finta ingenuità del nostro ragazzone nazionale Gianni Morandi poteva un simile scherzo. Il prossimo Festival di Sanremo è già stato presentato inconsciamente come quello dei buoni contro i cattivi (“i cantautori, eletta schiera” - per dirla alla Guccini - contro i nuovi idoli usciti dalle trasmissioni televisive), ma questo ovviamente interesserà solo i “criticoni” (per dirla alla Pippo Baudo), perché poi alla fine il tutto si risolverà in una consolatoria cantata corale per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Di sicuro Sanremo sta già tenendo fede alla propria bizzarra abitudine di fare discussioni sulle canzoni ancora prima di averle sentite, quando invece la speranza è che la presenza di artisti di spessore possa davvero rilanciare l’analisi su argomenti di un certo interesse, come ad esempio la collaborazione tra Battiato e Luca Madonia per il brano L’Alieno, che sulla carta rappresenta un bel confronto maestro-allievo sul terreno della canzone siciliana. Battiato dal canto suo, con la sua proverbiale capacità di far passare per alta cultura anche la vera spazzatura pop, assicura con distacco che lui partecipa solo per fare un piacere ad un amico, mentre Vecchioni si pavoneggia già perché il testo della sua Chiamami Sempre Amore dovrebbe risvegliare le anime dei giovani dal torpore culturale e si scaglia “contro quelli che stanno uccidendo il pensiero”. Non è detto che sia l’occasione giusta, ma almeno qualcuno ci prova ancora.

mercoledì 16 febbraio 2011

LE SINDROMI DEL MUSICOFILO


E’ ormai noto che il Musicofilo, definito dal Robbins come “Colui che non si accontenta di Ascoltare, ma deve anche Avere”, è affetto da alcune patologie ben definite, che sono state così catalogate:









Sindrome del Domopak (o Morbo di Hatù)


E’la malattia causata al musicofilo dalla plastica che copre tutti i cd nuovi del globo, che è stata inventata apposta per essere a prova di bomba e prendersi gioco di lui. E’ durissima, non si spacca con le unghie, sui lati ha delle linguette che se le apri vengono via le linguette, ma la confezione resta intatta. Alcune hanno il filetto rosso da tirare tipo pacchetto di sigarette, viene via con facilità tutta una bella strisciolina che divide in due la plastica, ma continua ad essere impossibile togliere tutto il resto. Alla fine esasperati si usa o un coltello da cucina (dalla cui pratica si fa risalire l’invenzione dei “forati” venduti come Nice Price), o, esasperati, si frantumano i due fragili lembi di plastica che tengono insieme la custodia del cd, rendendone impossibile una corretta e duratura chiusura. Inoltre è matematico che i vari tentativi di rompere la plastica hanno anche portato alla rottura dei dentini interni che tengono il cd, che ora scivola via dalla confezione con estrema facilità, cadendo per terra dal lato registrato seguendo le ferree leggi della “tartina imburrata”. Ovviamente cade sull’unico sassolino sfuggito alle pulizie di primavera di casa, che ovviamente graffia il cd, ovviamente nell’esatto punto in cui il vostro chitarrista preferito inizia il più bell’assolo della sua carriera. La plastica che copre i cd è al momento studiata dalla comunità scientifica internazionale perché, se sostituita al comune preservativo, risolverebbe in un sol colpo i problemi di AIDS e sovrappopolazione. Resta da risolvere la questione di come toglierla finito l’atto sessuale senza rompere nulla anche in quel caso.


Sindrome del Cartonato (o Primo Morbo di Pearl Springsteen)



I progressi della medicina avevano risolto brillantemente l’annoso problema delle copertine di cartone dei vinili, antiecologici e facilmente usurabili, sostituendoli con i box in plastica dei cd, antiecologici e facilmente frantumabili. Ma come al solito i giapponesi hanno voluto dire la loro. E hanno inventato le serie Japan Paper Sleeve, perfette riproduzioni in miniatura (o Bonsai) delle confezioni in vinile, con track-list e credits facilmente leggibili solo con un telescopio nucleare o con lente d’ingrandimento rinforzata, giusto il necessario per rendervi conto che state tentando di leggere il lato scritto in giapponese. I medici occidentali hanno riso di questa strana usanza, dichiarando l’impossibilità che il morbo potesse arrivare in Occidente. Ma a questo punto i Pearl Jam nel 1994 pubblicano Vitalogy, con una copertina di cartone a libretto completamente fuori misura standard che manda a puttane anni di progetti dei mobilieri e falegnami fai da te, con conseguente piccolo meno in bilancio per l’IKEA e piccolo più per la Leroy Merlin. Il morbo è propagato, e nel giro di dieci anni ne viene contagiato il povero musicofilo springsteeniano, che si ritrova tra le mani una serie di copertine di cartone, di nuovo a misura cd, questo sì, ma con il cd sbattuto nella fessura senza alcuna copertura, con grandissima facilità di rompere la copertina (e quella la si sostituisce solo ricomprando il cd) e con altissime probabilità che il cd sfugga dalla confezione, per cui come sopra….ovviamente….tartina imburrata….sassolino….riga su assolo…anzi no…non ci sono assoli degni di questo nome nei dischi di Springsteen…riga e basta.


Sindrome della Sfumatura (Morbo del Coitum Interruptum)


E’ un morbo che si è diffuso fin dai tempi di Elvis Presley per ragioni di programmazione radiofoniche, ma che qualche strano perverso meccanismo della scienza ha fatto sì che sopravvivvesse anche in dischi/canzoni che in radio non ci finiranno mai. I musicofili springsteeniani sono stati tutti segnati in massa da questo morbo nel 1984, e l’escalation orgasmica è ancora studiata dalla comunità scientifica. Ecco uno stralcio di questo studio: Gli Springsteeniani comprano in massa Born In The USA, ascoltano la title-track e rimangono inizialmente freddi e inebetiti davanti a quella tastieraccia, quella batteria a bomba…e poi lui perchè cazzo urla così?... ma dov’è il Bruce sfigato alla The River, quello dimesso di Nebraska?…però…dai…bel testo…e poi qui a metà la canzone comincia ad avere un bel tiro…si vai così…ecco che comincia a pompare la E Street Band…senti come urla di rabbia Bruce..si…si…dai …così…vai Max…senti come rulla Max Weinberg…eccoli…ci sono…adesso li riconosciamo….dai….ecco, coooosssìììì….Max non lo ferma più nessuno!...vai…ora ripartono…e… …e qui la canzone sfuma e finisce. Pare da studi approfonditi che essere interrotti sul più bello durante un’orgia con l’intero numero di maggio di Playboy provochi meno dolore. La sindrome della sfumatura coglie il musicofilo in ogni finale sfumato, con quel bellissimo assolo che si dissolve nel nulla e non saprete mai come va a finire, oppure quando sentite il cantante che urla “One more time!!” e il resto ve lo farete raccontare dal produttore del disco mentre lo torturate a sangue se non tira fuori il resto delle sessions.


La sindrome da ghost track (o Morbo del comecazzosintitola?)



La track list indica dieci canzoni, ma il cd magicamente ve ne fa venir fuori un’undicesima e voi godete felici dell’inatteso regalo. Ma sul libretto di quella canzone non c’è traccia, non c’è titolo, non c’è il testo, potrebbe essere una cover di un brano misconosciuto del 1937 o un brano nuovo di zecca. Il morbo subentra virulento quando vi rendete conto che il brano è il migliore del disco, e le crisi di isteria aumentano quando vi ritrovare al concerto a urlare “Dai, fammi l’ultima!...ma non l’ultima del cd, la 10…cioè, intendo la 11, quella che non c’è….cioè…quella che….a proposito…come si chiama?…si fammi quella….hai capito no?….quella che parla di quella ragazza che… e poi…. non ho capito bene cosa succede dopo perché non c’è il testo e …appunto…cosa cazzo dici alla quarta strofa ? ….”. I medici stanno studiando metodi alternativi al TSO per trattare queste sindromi Il Virus che causa questo morbo è poi stato reso più virulento dall’era grunge (sempre loro), dove la ghost track arrivava spesso dopo circa 20 minuti di silente e paziente attesa, ed era poi qualche cosa di imperdibile come una distorsione, un rutto, una chiacchierata tra amici, un ubriaco che ride, ecc…ecc….La comunità scientifica internazionale benedice che quelli del grunge siano finiti tutti più o meno male (Cornell è dato come irrecuperabile ormai) per questi enormi danni causati alla popolazione dei musicofili. La barbara usanza di mettere la ghost track alla traccia zero, prima ancora che inizi l’intero cd, è stata inventata a Guantanamo, e pare che sia stata più efficace durante le torture di un intero set di dischi di Mino Reitano.


La sindrome da Bonus Track.(o Morbo dell’Allocco)



Morbo pesantissimo e indebellabile, la “bonus track” nasce con l’avvento del cd, come carota per gli asini inventata dall’industria discografica per convincere tutti ad abbandonare il vinile. Compri il vinile? Hai 10 canzoni. Compri il cd? Ne hai 11. L’undicesima era quasi sempre una schifezza…ma averla era importante. Era come essere ammessi ad un club esclusivo, una sorta di tessera VIP. Poi però l’industria è cambiata, e quello che era un morbo tipico delle classi più abbienti, si è trasformato in una piaga sociale. La tragedia è nata intorno a metà anni 90, quando ormai tutti si erano ricomprati tutte le prime ristampe in cd dei classici, e le case discografiche s’inventarono le bonus tracks per invogliare a riacquistare nuovamente lo stesso titolo, e questo fu più o meno l’iter: - ristampa con 3 bonus tracks prese tra outtakes e b-sides, spesso perle nascoste o interessanti brani misconosciuti, oppure singoli altrimenti non ritrovabili su cd. Qui la comunità scientifica lanciò un plauso all’operazione - nuova ristampa con gli stessi tre brani, ma con diabolico inserimento delle “alternate takes”, vale a dire 18 versioni dello stesso brano che si differenziano per uno starnuto al minuto 2 invece che al minuto 3 o perché venne provato un assolo di cornamusa poi tolto dal missaggio finale. Qui la comunità scientifica cominciò a storcere il naso…. - Ulteriore nuova ristampa con versione STEREO e versione MONO dello stesso disco. Il Dottor House per provare gli effetti devastanti che questo provoca, ha ascoltato uno di questi cd in macchina, dove la sindrome diventa virulenta quando ci si rende conto che non vi è differenza alcuna, se non che nella prima versione il chitarrista ti sorpassa sulla destra assieme ad un tir sloveno, nella seconda invece te lo senti lampeggiare dietro come quel Porsche che da mezz’ora ti fa notare che ti devi togliere dalle palle, che lui del Tutor se ne frega, tanto è amico del Tenente dei Carabinieri. La comunità Scientifica qui denuncia l’irreversibilità di un morbo che spinge ad ascoltare lo stesso disco due volte di fila senza ragione alcuna. Sembra che nelle forme più acute gli scienziati abbiano trovato esemplari di musicofili che hanno nella loro vita comprato anche 10 volte lo stesso titolo, pagando 10 volte un copyright che teoricamente bastava pagare una volta sola. A Guantanamo hanno sventato parecchi attentati dell’IRA promettendo cd con nuove Bonus Tracks di Van Morrison ai terroristi.



Sindrome da Deluxe Edition (o Morbo di Springsteen)


Oltre la bonus track, c’è la Deluxe Edition, l’Anniversary Edition, fino alle forme più virulente del morbo causate dal Cofanetto/Box. Raschiato il fondo del barile delle tracce aggiunte, le case discografiche s’inventano edizioni fighette con in regalo un cd aggiunto con concerti che il bootleggaro sotto casa vi aveva passato già da 18 anni, e pure registrati decisamente meglio, oppure DVD con il vostro beniamino che racconta la rava e la fava di quello che ha pensato mentre registrava (si calcola con sommaria precisione che un musicofilo visiona tali DVD 0,56 volte nella sua vita). In questo delirio di spese inutili, è subentrato il Morbo di Springsteen, che fa si che i musicofili a lui dediti abbiano visto “cose che voi umani” come cd usciti in versioni con brani in più a distanza di pochi mesi, orrendi Greatest Hits resi comunque irrinunciabili per via degli inediti, mega cofanetti di inediti da cui…ooops…se ne erano dimenticati 3 (ah che sbadati questi discografici!), guarda caso recuperati in un cd riassuntivo da comprare a parte (e non è che i tre brani sono porcate come Part Man, Part Monkey o Happy, no, si erano dimenticati The Promise, il grimaldello per capire tutta la poetica springsteeniana…). Il musicofilo che segue e compra tutto ciò inerte e senza protestare è sotto osservazione da parte delle comunità scientifica perché potrebbe essere l’unico prototipo d’uomo in grado di sopportare anche la vita su Giove e di affrontare una deflagrazione atomica senza bisogno di rifugio.


Vecchie Sindromi debellate


Sindrome del TOK! (o Morbo Vintage)

Causa la crisi di nervi del musicofilo che scopre che il suo vinile preferito salta, o semplicemente presenta un “TOK” continuo. Non serve pulire bene il vinile, il granello che causa il TOK è sempre invisibile e annidato tra i solchi. Il male fu debellato nel 1990 con la fine del vinili e l’avvento del cd, che evita il TOK e salta più allegramente dal minuto 2.15 al minuto 3.47 in caso di polvere. Oggi però esistono musicofili ancora portatori sani di questo morbo, che ancora si ostinano a comprare vinili e ancora asseriscono che si sentano meglio dei cd. I medici hanno effettivamente confermato: il TOK! si sente decisamente meglio con il vinile.

Sindrome del Buco (o Morbo del REC)


Questo morbo è definitivamente scomparso. Colpiva i possessori di musicassette che inavvertitamente schiacciavano il tasto REC al posto del tasto PLAY nel mangianastri, lasciando un buco di silenzio di 1 secondo proprio a metà della loro canzone preferita. Per identificare gli affetti dal morbo bastava notare quali musicofili passavano le giornate a togliere le linguette dalla cassette per impedire la sovra registrazione.

Nuove Sindromi

Sindrome del Download (o Morbo dello scarico otturato)


In principio fu Napster, poi venne il Mulo, oggi se non avete un blog dove far scaricare cd siete dei disadattati. Questa nuova sindrome ha colto i musicofili dotati di un computer e una rete. Bastano un paio di click per poter avere l’intera discografia di tutti gli artisti di cui non ve n’è mai fregato una cippa di nulla. Secondo uno studio del Professor Bittan un giovane di 24 anni ha mediamente sul suo hard-disk ascolti sufficienti a sentir sempre nuova musica fino ai 127 anni, a patto di non smettere la notte s’intende. E’ stato anche sperimentato che se chiedete a questi individui di canticchiare l’ultima canzone che ricordano o che hanno ascoltato, riescono al massimo a ricordare un paio di battute del Ballo del Qua Qua, unico brano ascoltato ben tre volte ai tempi dell’asilo. A Guantanamo obbligavano i terroristi a ricordarsi perfettamente tutti i titoli delle canzoni inserite nel computer di Bill Clinton, pena un week-end con Monica Lewinski.

giovedì 10 febbraio 2011

MOJO MONKEYS - Blessing and Curses


"Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei" dice un vecchio detto, e se vi dicessimo che questi tre vecchi disperati hanno frequentato Keith Richards, Lucinda Williams, Bonnie Raitt e soprattutto Mike Ness dei Social Distortion, che tipo di musica vi immaginate possa uscire dalle tracce di Blessings & Curses? Risposta esatta: blues-rock rauco, riff sporchi affiancati a semi-country paludosi, esattamente quello che ti aspetti da un combo che decidendo di chiamarsi Mojo Monkeys ha marchiato la propria musica prima ancora di suonarla. Già licenziatari di una prima dimenticata opera nel lontano 2000 (Hang, la si trova ancora su CD Baby in ogni caso), Bill Watts (chitarre, dobro e mandolini), Taras Prodaniuk (basso) e il leader David Raven (che le note di copertina segnalano come voce, ma anche suonatore di una "pessima chitarra acustica") vengono da Los Angeles, figli del punk californiano e del blues della zona (tra le loro collaborazioni non a caso anche i Fabulous Thunderbirds e i Black Flag). Raven è personaggio noto in città, attivo fin dal 1980 come batterista al servizio di tantissimi artisti e talmente pittoresco a vedersi, da essere spesso stato usato come caratterista (nella migliore interpretazione di sé stesso) in molte fiction televisive.

Realizzato con l'aiuto di altri validi session-men dell'area (Phil Parlapiano, Marvin Etzioni, Doug Pettibone, Terry Wilson, tutti nomi di casa dalle nostre parti), Blessings & Curses è un album lungo ma mai stancante, pieno di swamp-music caratterizzata dalla voce roca di Raven, Keith-riffs rocciosi (Bodacious), voci filtrate dal microfono dell'armonica e tante mefistofeliche soluzioni produttive che ricordano molto il Tom Waits del periodo Mule Variations. Tra le note che rendono bene l'idea del clima generale, il fatto che ogni brano ha una speciale dedica, la maggior parte destinata ad un immaginario femminile tutto blues fatto di "Kickass Girls", "Red Blooded American Girls", "Bad Girls", "Gigsville Girls" e così via. Tra blues tutto sommato già sentiti ma sempre efficaci (California Alabama, Monkey Thumb) affiora anche qualche brano in grado di innalzarsi dalla media (ottima l'accoppiata Can't Say No e Girl Might Do) o ariose ballate che stemperano un po' i toni da rito voodoo del disco (She'll Be Alright).

In ogni caso sorprese non ce ne sono, o perlomeno nulla che non possa essere già stato fatto o da un Dave Alvin quando era in forma o da John Campbell quando era vivo, e non cambia la storia neppure l'aggiunta di qualche New Orleans-funky (Dirty Money) che dalle parti dei Neville Brothers sono il pane quotidiano. Ma i Mojo Monkeys hanno dalla loro l'energia, la freschezza, e forse anche il fatto che dischi come questo stanno diventando rari, per cui averne per le mani uno buono ogni tanto fa più che piacere. Se siete avvezzi al genere, non perdetelo.
(Nicola Gervasini)

www.medikullrecords.com
www.myspace.com/mojomonkeys77

lunedì 7 febbraio 2011

FERN KNIGHT - Castings


File under: “musica per streghe e alchimisti”. Connettetevi al loro sito e sarete subito avvertiti: con i Fern Knight si entra nell’immaginario fantastico delle tradizioni nord-europee, un mondo fatto di folk celtico tradizionale e nuove culture del fantasy degli anni 2000. Siete avvertiti anche perché le scritte in gotico della copertina non lasciano dubbi, e ne avrete la certezza dopo le prime note di From The 0 to 00, titolo che già in sé sciorina simbolismi che necessitano approfondimenti che vanno ben al di là del passaggio di un cd in uno stereo. Castings, quarta opera di questo quartetto che già da qualche anno fa parlare di sé nel mondo della musica indipendente, si presenta con una chiara intenzione di estremizzare ancor di più l’elemento storico di tutta la proposta musicale, come sempre partorita dalla vivida mente di Margaret Ayre, sorta di alter ego per puristi di Joanna Newsom, voce angelica (fino ad un certo punto, in alcuni casi più che celestiale pare inquietante, come se l’angelo potesse improvvisamente trasformarsi in un orrida arpia) e violoncello magico sempre pronto. La band è completata dal polistrumentista Jesse Sparhawk (basso, batteria, chitarra elettrica, arpa, dalle sue mani passa di tutto), Jim Ayre alla chitarra e percussioni varie (e produttore del disco) e dall’omnipresente violino di James Wolf. Loro fanno parte di quell’ondata di nuovi fanatici del mondo folk britannico esploso negli stati Uniti (sono di Philadelphia), un movimento che ha negli Espers e nei Vetiver i nomi forse più importanti e più digeribili anche dai palati meno avvezzi al genere. Castings invece estremizza molto l’aspetto medievale della loro musica, con innesti di progressive inglese evidenti in molti brani (Pentacles, Cups+Wands), fino al culmine rappresentato da una versione della celeberrima (e pur sempre meravigliosa) Epitaph dei King Crimson, capolavoro che la Ayre s’impegna a rendere irriconoscibile, pur non destrutturandone la bellissima melodia di base. E’ forse l’esempio più chiaro per capire un disco che potrebbe suonare come un album dei Black Mountain depurato degli elementi metal della band di Vancouver e immerso in un mare di vinili del Canterbury Sound. Il risultato affascina e stordisce al tempo stesso, addentrarsi nelle spire di questi nove brani è impresa che solo i cavalieri del suono britannico allenati e di grande esperienza possono fare, ma se riuscirete nell’impresa, la ricompensa, come nelle migliore saghe medievali, c’è sempre per tutti.

Nicola Gervasini

venerdì 4 febbraio 2011

KID ROCK - Born Free


Trovare l’ultimo disco di Kid Rock recensito su tutte le riviste specializzate (e per giunta con giudizi positivi) è uno shock paragonabile a quello che ha provato la mia generazione quando nel 1995 ha visto un ex presentatore di Deejay Television salire sul palco del Premio Tenco. Kid Rock era il nemico fino a qualche tempo fa, un rapper bianco che si permetteva di scimmiottare le vere rockstar nei loro atteggiamenti più ridicoli, campionare Sweet Home Alabama dandola in pasto al pubblico sbagliato, insomma esattamente quel tipo che vende 11 milioni di copie di un disco pieno di triti clichès e fa incazzare perché qualcuno migliore di lui campa a stento vendendone solo 5000. E’ per gente così che schiere di intenditori hanno per anni riempito pagine di riviste, forum e blog per spiegare al mondo che quello, appunto, non è “vero rock” e neppure “vero rap”, esattamente come quello di Zucchero non è “vero soul”. Di tutto ciò Kid se ne è sempre fregato (la nostra Italia insegna, se hai donne, soldi e successo, perché curarsi delle critiche?), fino al giorno in cui ha invece deciso che era ora di sdoganarsi. E così ha bussato talmente tante volte alla porta del vicino di casa Bob Seger, che questi, pur di toglierselo dalle palle, lo ha invitato a duettare in un suo album, e ora si presta pure a fargli da session-man. Eppure Born Free (Atlantic), con tutti i suoi ospiti d’alto rango (Rick Rubin in regia, David Hidalgo, Sheryl Crow, Zac Brown,…), è proprio quel disco che all’imbolsito Seger non riesce ormai da anni: energico, solare, sognatore, epico, talmente ovvio e semplice da chiedersi se sia davvero nuovo. I grandi artisti e i grandi dischi continuano ad essere altri, ma che a venirci insegnare come si fa un vero blue-collar record sia una mezza calzetta con la fortuna di avere una gran voce ci riempie di speranza, come se fosse davvero possibile svegliarsi un prossimo Natale e scoprire che il cinepanettone di turno sia pure un bel film e Neri Parenti un regista.

(Nicola Gervasini)

martedì 1 febbraio 2011

FRANCESCO LUCARELLI - Find The Light


La prima pietra è stata la partecipazione al progetto I Like It Better Here - Music from Home, (in cui Francesco Lucarelli si faceva accompagnare nientemeno che da Graham Nash all'armonica in Mr Sunshine), la casa invece si chiama Find The Light, il suo primo album. Romano, appassionato di fotografia e rock (sua la fanzine Wooden Nickel e una biografia in 3 volumi su Crosby, Stills, Nash & Young, scritta a due mani con il qui presente Stefano Frollano), Lucarelli è un veterano ormai come musicista, ma solo ora sta muovendo i primi passi discografici, e per farlo ha inseguito il lungo sogno della West Coast anni 70, probabilmente la scena straniera più amata dagli italiani di un tempo dopo il progressive inglese. Vedere il nome di Nash nei crediti di un nostro artista indipendente resta pur sempre una bella soddisfazione, così come poter vantare il mixaggio di Stephen Barncard (nei 70 stava dietro le consolle dei Grateful Dead, Van Morrison, Jefferson Airplane, Doobie Brothers, Joe Cocker, Creedence Clearwater Revival…..).

Find The Light (prodotto dallo stesso Lucarelli con l'aiuto di Ermanno Labianca) nasce quindi innanzitutto come atto d'amore verso un mondo musicale che ha marchiato una generazione, non è necessariamente uno scimmiottamento da fan di provincia, semplicemente una raccolta di brani che nascono in quell'humus e non hanno potuto prescinderne neanche in fase di produzione. Registrato nell'arco di dieci anni con musicisti americani di gran livello (spiccano i contributi di Jason Raymond e Jeff Pevar, fidi compagni di David Crosby nell'avventura CPR), e con una folta e nutrita schiera di validi session men di casa nostra (non possiamo citarli tutti), il disco vien ben definito dalle note di copertina scritte da Dave Zimmer (autore della biografia ufficiale di Crosby Stills e Nash), che evidenzia come la parentela con il passato del disco non sia solo stilistica, ma anche per il fatto che il cd ha una sua unitarietà che stona molto nell'era dei singoli mp3 scaricati a 0,99 centesimi. Un'impressione che confermiamo, perché i nove brani scritti da Francesco riescono a ricreare un mondo come neanche più i dischi più recenti di Jackson Browne hanno la forza di rievocare.

Prima di arrivare alla già nota Mr Sunshine (sono ipotizzabili riferimenti a qualche personaggio politico nostrano in questo "Signor Solare che non potrà mai convincerci"?), riproposta come pezzo forte anche in questo disco, si passa da una Fat City che apre le danze in modo forse fin troppo scolastico (ma le chiuderà bene con una buona versione acustica a due voci con Luisa Capuani), ma anche da una splendida If Trees Could Talk che rispolvera le ballate vocali tanto care a Crosby nel migliore dei modi. Sempre in zona CPR si muove anche l'ariosa Pictures On The Wall, con grandi cori e slides alla David Lindley (qui fornite da Pevar) in evidenza, mentre Stranger In This Land è l'unico brano non autografo, un duetto con l'autore Sonny Mone, che qualcuno ricorderà come membro dei Crazy Horse nei periodi di libera uscita dai programmi di Neil Young (era una delle menti pensanti dell'album Left For Dead del 1989, disco per nulla memorabile a dir la verità). Convince di più l'acustica Good Day, brano semplice dove Lucarelli sembra trovarsi più a suo agio, mentre è evidente in After The Twilight il tentativo di cercare la profonda vocalità di Crosby (il risultato, forse per l'arrangiamento molto affettato caratterizzato dall'oboe di Michele Piersanti, sembra più vicino al Van Morrison recente).

Si chiude con un'energica The Cage un album ben fatto e convinto, forse ancora penalizzato dalla vocalità non sempre incisiva di Francesco (bene quando va su tonalità malinconiche alla Jackson Browne, un po' meno quando ci sarebbe da alzare i toni) e da una scrittura che ancora resta nel recinto dell'omaggio/imitazione. Ma Find The Light voleva appunto essere questo probabilmente, un semplice tributo, per qualcosa di più personale attendiamo magari di sentire le sue composizioni in italiano.
(Nicola Gervasini)

www.francescolucarelli.com
www.route61music.com


BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...