giovedì 27 gennaio 2011

SOLOMON BURKE & De Dijk - Hold On Tight


Proviamo a valutare l'accaduto dal punto di vista dei De Dijk: che Solomon Burke, probabilmente il più grande soul-singer in vita, fino a poche settimane fa, decida di fare un disco di cover inglesizzate di una sconosciuta soul-band olandese, abituata tra l'altro a pubblicare dischi nella inesportabile lingua madre, suona più o meno come se Bob Dylan pubblicasse un disco dei migliori brani dei Mandolin Brothers o Bruce Springsteen producesse un bel "The Cheap Wine Sessions". Per cui potete ben immaginare quale fibrillazione provasse Huub Van Der Lubbe, leader di una band che in patria pubblica dischi colorati di black music fin dal 1982, mentre attendeva l'arrivo di Burke in quel fatidico 10 ottobre scorso. C'era un grande concerto da fare insieme, la consacrazione di una oscura carriera da outsider europei, coronata da un così enorme (in tutti sensi) sponsor. Ma la Nera Signora, si sa, ama gli scherzi di cattivo gusto, e così ha deciso che era ora richiamare il nostro Solomon ai suoi doveri di anima eterna e gli ha fatto cedere il cuore (che tante ne ha viste e passate, da non essersi poi tanto ribellato all'idea di un po' di riposo) proprio nell'aeroporto di Amsterdam.

Per cui noi piangiamo la dipartita di una voce fantasmagorica, che in questo decennio che volge alla fine ci ha regalato perlomeno tre grandi dischi da ricordare vita natural durante, ma il buon Van Der Lubbe e compari piangono la fine di un sogno proprio sul più bello. Fortuna loro che la Nera Signora ama evidentemente la soul-music di prima qualità, perché ci piace pensare che abbia ritardato l'appuntamento a Samarcanda di Burke solo per permettergli di conoscere casualmente nel corso di un festival i De Dijk, e con loro registrare questo Hold On Tight. Che è il disco più genuinamente soul e "marchiato Solomon Burke" di tutta la sua tarda carriera, perché non confezionato con l'ausilio di un grande produttore (Joe Henry e Don Was furono i registi della rinascita di questi anni 2000), e nemmeno con l'utilizzo di brani sovra-firmati (non più cover di Dylan, Van Morrison o Rolling Stones dunque) o di tradizioni musicali già pre-confezionate (quella country, rivisitata nell'ottimo Nashville, ad esempio). Qui ci sono solo brani a noi sconosciuti (impervio sarebbe il tentativo di recuperare gli originali in olandese), che suonano tutti come se fossero degli imprescindibili classici, e realizzati come se non importasse molto doversi accorgere che siamo nel 2010 e non nel 1964, ma nemmeno senza scimmiottare troppo il sound arcaico del Burke più giovane e spavaldo.

E' semplicemente la soul-music di oggi: fiati caldi, organi hammond, chitarre discrete e tante influenze extra-genere. E poi quella voce, quel trasporto nel cantare, quell' emozione che solo Solomon, uomo fisicamente immobile e inespressivo, riesce a trasmettere da sempre in maniera unica e inimitabile. Punto in più poi per la varietà d'idee offerta dai De Dijk, che non si sono limitati solo a fornire soul-music da manuale (la title-track che apre è già un evergreen), ma hanno portato Burke anche sui territori della folk-ballad (la splendida My Rose Saved From The Street, un brano che sarebbe piaciuto molto a Willy DeVille, guarda caso richiamato nel piano di Good For Nothing) o del cajun acustico alla JJ Cale di More Beauty. Per il resto è pura festa soul al 100% (Text Me, unico brano a firma Burke), piena di energia (What A Woman o l'irresistibile I Gotta Be With You), o ballatone strappalacrime in pura tradizione (No One). In ogni caso tutto fila via alla perfezione (ma quanto è bella e tesa The Bend?), come anche la Perfect Song che chiude in stile da tragedia raminga il miglior epitaffio che un artista potesse desiderare. Un addio da piangere davvero, so long Solomon.
(Nicola Gervasini)

lunedì 24 gennaio 2011

THE FAMOUS - Come Home to Me


Mentre ascoltavo Come Home to Me dei Famous lo sguardo mi è caduto sulla bacheca dei cd, nella zona "roots anni 80" (sono del partito a favore dell'archiviazione tematica e non alfabetica dei cd), più o meno su titoli tipo Tales Of The New West dei Beat Farmers o una esauriente raccolta dei Jason & The Scorchers, e mi sono reso conto che 25 anni fa un disco del genere ci avrebbe fatto uscire di testa proprio come quelli di quei bravi fuorilegge del rock. Ma il 2010 è un anno ben poco adatto per ripresentarsi come la prima band di "Post-Punk Americana" (sic), per giunta sputata fuori da una San Francisco che in materia ultimamente sembrava divenuta più provincia della vera provincia americana. In questi dieci brani (più uno strumentale finale intitolato Under The Stars che, assieme a Happy, piacerebbe molto a Quentin Tarantino per un bel remake di uno spaghetti western) scorre quel mix di country classico, punk californiano e quella estroversa baldanza che solo i dischi degli anni '80 riuscivano ad avere. Insomma si ritorna al cow-punk, al roots-rock e a tutto quel mondo underground di allora che sta culturalmente alla base della nostra testata.

In mezzo poi c'è stata l'"Americana" che loro stessi aggiungono all'auto-definizione, vale a dire quella tendenza a cercare anche il tocco d'autore, a non aver paura di sembrare tradizionalisti finendo per essere rivoluzionari, insomma lo spirito che anima i momenti più ragionati di questo disco come Moving On o Cold Tonight. Ma è evidente che il leader Laurence Scott (voce, chitarra, penna) e i suoi ragazzi (il chitarrista e produttore Victor Barclay e la sessione ritmica formata da Chris Fruhauf e G.D.Hensley) cercano anche in studio (anzi, nei ben 6 diversi studi utilizzati per le registrazioni) quello che evidentemente offrono dal vivo con gran soddisfazione di tutti: energia, divertimento, il suono del mito americano unito a quello della rabbia giovanile come solo nella West Coast la sanno cucinare da anni, l'ironia di una Off My Mind o la cavalcata verso l'orizzonte di una Without You.

Ecco, Come Home To Me oggi non ci sorprende più, e probabilmente nasce senza volerlo fare, è il classico disco di una band che ha esordito nel 2005 con un primo cd (Light, Sweet Crude) venduto praticamente solo ai concerti, e che si sarebbe accontentata anche solo di quello se qualcuno non gli avesse probabilmente fatto notare che era ora di farne un secondo, giusto perché la gente dopo il concerto non debba spendere i propri soldi esclusivamente in birre, facendo felici i gestori dei locali, ma un po' meno le tasche dei musicisti. Nulla toglie che in questi 49 minuti ci si diverta eccome, che la title-track (un jug-band country?) e una poppeggiante Perspicacious inducono ad una sana pressione del tasto repeat, che qualcosa magari non convince (Mano Negra, un vero pasticcio),ecc, ecc. Ruspanti e di sostanza, come si conviene a dei veri cow-punks del 2000.
(Nicola Gervasini)

www.thefamous.net
www.cdbaby.com/cd/TheFamous2


sabato 22 gennaio 2011

My Ugly Boy - video degli SKUNK ANANSIE

Skin è la Grace Jones del nostro tempo, una vocalist dalla presenza fisica aggressiva che meriterebbe una consacrazione cinematografica per quanto buca lo schermo. Nell’attesa del copione giusto, lei fa le prove nel videoclip di My Ugly Boy, nuovo singolo dei riformati e rinvigoriti Skunk Anansie. Lo ha girato il regista Paul Street, uno che ha vinto premi nel mondo degli advertising per aver resuscitato Steve McQueen in un celebre spot della Ford Puma, e che qui sublima il suo evidente amore per la macchine coinvolgendola in un’orgia di incidenti e sesso. Skin fa a brandelli sia un gran brano rock, sia una vecchia BMW sbattuta di muro in muro in un garage, con il suo corpo che si confonde con quello di una modella avvinghiata nel sedile posteriore al conturbante attore bosniaco Bojan Dimitrijevic (interprete della versione teatrale di Trainspotting). Orgasmi ed impatti multipli che lasciamo giudicare a David Cronenberg se sono da considerarsi omaggio o materia per cause sul copyright.

http://www.youtube.com/watch?v=IP4EKhcuBCg

martedì 18 gennaio 2011

JASON SIMON - Jason Simon


L’episodio non è nuovo: il leader di una rumorosa e possente hard-band decide di provare a staccarsi dal gruppo per intraprendere una carriera da soffuso e funereo cantautore, un passaggio azzardato che ha portato fortuna a qualcuno (Mark Lanegan ad esempio). Questa volta a provare l’azzardo è Jason Simon, dodici anni di onorata (e tutto sommato celebrata) carriera con i Dead Meadows, gruppo dedito ad un tardo stoner-rock con molte influenze prog e psycho anni 60, non certo dei padroni di casa su queste pagine, ma un combo che ha sicuramente detto cose importanti negli anni 2000. Probabilmente folgorato sulla via dei tanti freak-folker di questi anni, Jason ha deciso di provarci con un disco che sa di Bonnie Prince Billy, Bon Iver, Iron & Wine, e mi fermo qui perché la lista sarebbe lunga. Un passo fatto con attenzione ai particolari, tanto è vero che per mixare il tutto si è affidato a Dave Schiffman, tecnico del suono già per Johnny Cash e Jayhawks (ma il curriculum è vario e chilometrico). Il tutto corredato con una copertina che lo ritrae solitario in quello che sembra essere, a tutti gli effetti, uno chalet di montagna, quasi un richiamo al recente mito indie di Bon Iver, capace di uscire da una simile solitaria clausura con un disco che ormai possiamo anche ritenere seminale nel genere. Il risultato è sicuramente intrigante, Jason dimostra che, spogliate dal muro del suono della band, le sue canzoni stanno in piedi da sole, anche magari quando eccede in autoindulgenza dilatando i tempi oltre il consentito, considerando anche il “non-ritmo” generale (l’accoppiata Good Hope Road e The Dust Does Blow è da sei minuti e passa al pezzo, una richiesta di attenzione severa quanto eccessiva). Non ci sono grandi variazioni sul tema, i 45 minuti passano in compagnia dei suoi testi intimisti, della sua bella voce, e di intrecci di chitarre sospese tra folk e blues. Da notare le belle I Let It Go e A House Up On The Hill, brani che probabilmente faranno fatica a risaltare perché immersi in un insieme fin troppo rilassato, e soprattutto la riuscita cover di As I Went Out One Morning di Bob Dylan, quasi un pegno da pagare al mondo del folk prima di esserne ammesso. Sottolineare l’eccessiva paludosità di queste canzoni non vuole essere una bocciatura, probabile anzi che questo disco sia l’inizio di una nuova vera carriera da folker, visto che di buona carne sul fuoco ce n’è, ma a questo punto provi ad osare di più in termini di ricchezza degli arrangiamenti, magari emulando meno modelli pre-esistenti, e otterrà risultati più importanti.
Nicola Gervasini

sabato 15 gennaio 2011

WOOLDRIDGE BROTHERS - Days Went Around


Scott and Brian Wooldridge sono due veri veterani della roots-music, eppure la sigla Wooldridge Brothers resta sconosciuta ai più. Colpa della mancanza nella loro discografia del disco giusto al momento giusto, e colpa del fatto che i due non si sono mai dannati l'anima a pubblicare dischi con regolarità. Eppure avevano tutto: uno stile vocale molto simile a quello dei Jayhawks (zona Tomorrow The Green Grass), una vena pop in grado di sfornare negli anni 90 una serie di singoli pop-rock per qualche serie TV e un album (Star Of Desire del 1995) che rivaleggiava ai tempi con molti altri roots-duo come Billy Pilgrim o i Jackopierce prodotti da T-Bone Burnett. Aggiungeteci quel nome suggestivo che negli States ricorda a tutti una delle più famose e famigerate società minerarie dell'800, e avrete un quadro completo di un gruppo ingiustamente dimenticato. Noi ne avevamo già parlato nel 2003 in occasione dell'uscita dell'antologico The Unreel Hits, un buon modo per riscoprire il loro sound originale a base di heartland-rock e jingle-guitars alla REM.

Esattamente la stessa formula ritrovata in questo Days Went Around, uscito in sordina già lo scorso anno, ma ora distribuito anche in Europa, e qui ci scappa un "meno male", visto che pur se lontano dall'essere il disco che li consacra ad una storia a cui non apparterranno mai, questa manciata di canzoni riscopre un gusto easy di fare musica americana che sembra ormai perso (i Bodeans, maestri del genere, un disco così non lo fanno da almeno 15 anni…). Prendete ad esempio Thumbs, un'apertura di cd decisa e che vi sembrerà di aver già sentito da qualche parte tanto è capace di imprimersi nella mente fin dal primo ascolto (non a caso alle tastiere c'è un signor Peter Holsapple, ex DB'S e membro aggiunto dei REM negli anni 90, probabilmente il loro nume tutelare più evidente), prendete la gioia che passa nelle note di Coffee Spoons e This Rain, o magari il triste grigiore di Connecting To Aphrodite, esempi di un rock perduto negli anni, quando le chitarre acide e sixties di Does She Love Me Loud o una acoustic-ballad leggera e scanzonata come Mashup Dreams convivevano felici nei college americani dei primi anni 80.

Days Went Around non è solo un nostalgico tuffo nel passato, ma anche una prova di due vecchi stroytellers ancora in grado di sfornare una bella romanza americana come Caledonia Creek, una di quelle epopee che solleticano la nostra più fervida fantasia letteraria fatta di libri di Corman McCarthy, per non parlare dell'orgia di percussioni e fisarmoniche di Your Habit, brano che ricorda tanto i mai dimenticati (da noi perlomeno) Havalinas. Nomi vecchi, nomi che agli under 35 potrebbero dire veramente poco, e forse troveranno pochi spunti di interesse anche negli arpeggi di Desiree, roba che Peter Buck macinava già quando era poco più di uno studente (il riff assomiglia a quello di The One I Love per intenderci). Manca il genio, manca lo spessore storico e l'irrinunciabilità delle canzoni, eppure questa musica ci piace ancora….riuscite a perdonarci per questo?
(Nicola Gervasini)

www.wooldridgebrothers.com
www.myspace.com/wooldridgebrothers

mercoledì 12 gennaio 2011

RON WOOD - I Feel Like Playing


"Ho da fare il mio album solista" diceva Ron Wood nel 1974, e quel titolo del primo album sembrava quasi una triste resa piuttosto che un fiero urlo di battaglia. I Faces erano finiti, Jeff Beck era ormai su altre rotte musicali e lui per la prima volta si trovava da solo. Nonostante il successivo Now Look abbia venduto pure bene, oggi probabilmente non saremmo qui a parlare di lui se non avesse avuto il tocco giusto per intersecarsi con Keith Richards, l'aria meno da sfigato di Mick Taylor, e soprattutto nessuna voglia di togliere spazio sul palco a Mick Jagger. Non ha mai smesso di fare i suoi album, ora va al ritmo esatto di uno ogni 9 anni, e saremmo qui a copiare le parole spese per Slide On This del 1992 o Not For Beginners del 2001 (classe, grandi ospiti, ma mancano voce e canzoni) se non fosse che I Feel Like Playing racconta, per la prima volta, una storia diversa. C'è il know-how da veterano, ci sono i suoni giusti, ci sono i grandi musicisti (vecchi amici in genere, ma anche qualche nuovo compagno come Flea o uno Slash che sguazza felice nel suo brodo), ma soprattutto stavolta c'è una convinzione nei propri mezzi che non gli conoscevamo.

Vero che le cose migliori nascono da collaborazioni, come la Why You Wanna Go and Do a Thing Like That For, che apre il disco, una splendida outlaw-ballad scritta con Kris Kristofferson che già fa capire che forse i vari Wandering Spirit di Mick o Main Offender di Keith non resteranno gli unici episodi extra-Stones da consigliare anche ai fans meno accaniti. Ma piacciono anche la Lucky Man in cui ci ha messo la penna persino Eddie Vedder, o lo spettacolare duello di chitarre con Billy Gibbons degli ZZTop in Thing About You, funzionano alla grande i brani rock come I Don't Think So, la jam psichedelica di 100%, la bluesata Fancy Pants, tutti riff semplici come offre da sempre la casa (più Faces che Stones in questo caso), ma di quelli che fanno venir voglia di alzare il volume a palla e si fottano i vicini alla prossima riunione di condominio.

Dove forse il disco non decolla del tutto è quando tenta toni caraibici che non gli sono consoni, o perlomeno un reggae come Sweatness My Weakness l'amico Keith lo farebbe a pezzettini con più cattiveria, e altre cose come Tell Me Something o Catch You da sole non alimenterebbero il nostro entusiasmo. Il buon vecchio Ronnie non sarà forse un mostro di stile nella vita (negli ultimi tre anni tra matrimoni alla deriva e pestaggi di fidanzate ha rubato la scena del gossip persino al vecchio amico Rod Stewart), ma è capace di rifarti una usatissima Spoonful di Willie Dixon mettendoci pure del suo e del nuovo. Chiude il disco una splendida soul-ballad come Forever, in cui lascia volentieri il microfono all'amico Bobby Womack per riesumare un brano scritto 35 anni fa proprio per quel suo primo disco. Pare che ai tempi l'avesse reputata talmente bella da non volerla sprecare per il suo progetto senza troppo futuro, ma poi al momento di registrare Black And Blue (dove ci sarebbe stata benissimo tra l'altro), se la sia dimenticata, e questo la dice lunga su tutto.
(Nicola Gervasini)

www.ronniewood.com

martedì 11 gennaio 2011

UN PO' DI MUSICA SENZA PAROLE....


JESSE HARRIS

Cosmo

DAKOTA SUITE, DAVID DARLING, QUENTIN SIRJACQ

Vallisa

Ogni tanto capita di inorridire quando si vedono in vendita certi cd di pseudo-new age che hanno un'unica funzione rilassante, come se la musica potesse essere un medicinale. Lo è per molti di noi in verità, ma non certo perché è stata prodotta esclusivamente con quel fine. Visto che in un disco del genere si è cimentato pure Lou Reed un paio di anni fa (con risultati assolutamente ignorabili), allora perché non cercare una via più sostanziosa alla musica strumentale (badate bene, non “ambientale”, perché comprare i cd per fare da sottofondo a qualcosa è come acquistare libri per pareggiare tavoli traballanti). Se volete rilassarvi con due cd interessanti provate ad esempio con Cosmo di Jesse Harris, l’ex Once Blue noto al grande pubblico come uno dei chitarristi della prima Norah Jones, già cantautore di suo per alcuni album di pregevole fattura, ma qui impegnato in un disco di soli brani strumentali. Sono della partita Kenny Wollesen (batteria), Rob Burger (tastiere), Eivind Opsvik(basso) e CJ Camerieri (tromba), ed una serie di belle composizioni che trasudano la musica dei club di New York e riescono a non sembrare mai stucchevoli, come se nonostante la mancanza di un testo, riuscissero comunque a raccontare le storie di una città. Produce e pilota il tutto nientemeno che John Zorn, quasi un marchio di garanzia per un disco che non va catalogato comunque come jazz (nonostante ne senta pesantemente l’influenza), ma più che altro come “folk da camera”.


Più spostato invece verso la musica classica è il cd Vallisa, coraggiosamente proposto dalla Glitterhouse, etichetta che ormai si sta spingendo sempre più spesso in territori musicali arditi (Dirtmusic, Lilium), con risultati davvero sorprendenti. Titolari dell’album sono Dakota Suite, nome d’arte del pianista (e all’occorrenza chitarrista) Chris Hoonson, uno che da anni produce dischi definiti spesso come “sadcore”, una sorta di indie-folk (il più delle volte cantato, ma già The End Of Trying dell’anno scorso era quasi tutto strumentale) sempre più pesantemente rivolto a sonorità classiche. Lo accompagnano in questo caso il nervoso e struggente violoncello di David Darling (un veterano del genere) e il piano di Quentin Sirjacq, per un disco registrato dal vivo al Vallisa Auditorium della nostrana Bari con grandissima resa sui suoni, veramente da brividi in alcuni passaggi. Vallisa è un disco notturno e da ascoltare in occasione di pensieri importanti: è triste, ma non compiaciuto. Provatelo tra un disco rock e l’altro, potrebbe far bene anche alla salute.

Nicola Gervasini

domenica 9 gennaio 2011

CHEAP WINE - Stay Alive!


Negli anni settanta il doppio album live era una cosa seria, un appuntamento cruciale per tutti, grandi e piccoli artisti. Era la piena realizzazione di un'idea (Allman Brothers Band), il canto del cigno (Led Zeppelin, Lynyrd Skynyrd, Little Feat), per alcuni lo zenith di un periodo creativo inimitabile (Van Morrison, The Band), per altri invece l'occasione per farsi notare dopo tanti album di poco successo (Bob Seger). Il doppio album live era generalmente inteso come il greatest hits definitivo di un artista, e di fatto per molti poteva tranquillamente sostituire tutta la discografia in studio (si pensi agli Outlaws o alla J Geils Band). Oggi ormai, dopo l'era delle jam-band, degli instant-live e del bootleg come prodotto discografico riconosciuto, il live stesso è diventato un semplice documento e non più uno strumento marketing da studiare a fondo e con attenzione. Eppure esiste qualcuno che ancora ha pensato un doppio album come il punto di arrivo di un viaggio, il prodotto che potrebbe anche annullare tutti i precedenti. E ci fa piacere che a pensare ancora in vecchio stile siano proprio i marchigiani Cheap Wine, band che abbiamo seguito fin dalla nascita di questo sito (il nostro archivio segnala ben 12 articoli su di loro in 10 anni, tra recensioni, resoconti live e interviste), e la cui continua maturazione artistica è culminata con l'ultimo Spirits. Stay Alive! è un doppio cd pensato come i vecchi doppi vinili di una volta, ha una divisione in 4 facciate ben riconoscibile, e soprattutto è pensato come IL live dei Cheap Wine, e non UN semplice live della band.

I brani da richiedergli nei concerti ci sono tutti, il "lato A" è quasi tutto dedicato a ribadire la bontà del repertorio recente, quanto ad esaltare la bravura alla chitarra acustica di Michele Diamantini. Considerato che la voce del fratello Marco sembra non poter dare di più se non essere comunque profonda e molto credibile per interpretazione, è proprio la esponenziale crescita della sua chitarra che finisce a farla da padrone, soprattutto quando - come succedeva sempre nei doppi live che si rispettino - nella terza e quarta facciata i tempi si dilatano e arrivano le lunghe cavalcate (la sequenza Snakes - Loom And Vanish abbatte ogni frontiera tra lui e un vero guitar-hero), ci si lascia andare al blues (Leave Me A Drain) e al rock barricadero (Move Along). Ma alla fine quello che rende Stay Alive! il loro disco definitivo è il fatto che spazia in tutta la loro discografia, recuperando perfino Among The Stones dal primo album A Better Place del 1998, ma ricordandosi di quanto era devastante Reckless (era su Crime Stories del 2002) o esaltando la vena cantautoriale di Freak Show dando via libera al piano di Alessio Raffaelli in Nothing Left To Say. In ogni caso 19 brani su 21 vengono dal loro repertorio, e davvero non si nota nessuna differenza qualitativa tra vecchi e nuovi, a testimonianza di un corpus di canzoni che si è mantenuto sempre di primissimo livello, indipendentemente dalla loro crescita di musicisti (anche la sezione ritmica di Alan Giannini e Alessandro Grazioli ormai può dirsi tra le più affidabili del nostro paese). Le cover sono dunque solo due, Bruce Springsteen (Youngstown) e Neil Young (Rockin' In The Free World) e servono solo a ribadire la propria appartenenza di campo, ma se si fossero staccati dal seno di mamma evitandole, non ci avrebbero tolto nulla.

Bene, bravi e….no, niente bis stavolta. Stay Alive! è un live di quelli seri, per cui chiude, cementa e definisce la fine di un'era, e non necessita di repliche. Di solito a questo punto negli anni 70 succedeva che le band o si scioglievano in mille progetti solisti, o provavano svolte artistiche tra l'astruso e l'azzardato, o semplicemente intraprendevano un nuovo emozionante percorso. Se sarà così, noi saremo sempre lì dove andranno i Cheap Wine, ma prima lasciateci riprendere da questa festa.
(Nicola Gervasini)

www.cheapwine.net
www.myspace.com/cheapwinenet


sabato 1 gennaio 2011

NEIL YOUNG - Le Noise
















Le Noise, Daniel Lanois, Neil Young. A leggerli di seguito, titolo, produttore e artista, vien fuori uno scioglilingua, voluto e cercato da un autore che a 65 anni ha deciso di rimescolare le sue carte, dopo una serie di dischi retti su un gioco ormai stantio. L’azzardo qui non è il rumore, che nei dischi di Neil Young non è mai stato trattato come tale, quanto l’aver affrontato “sua sonorità” Lanois, personalità invasiva, soverchiante e non certo malleabile (leggete le Chronicles di Bob Dylan per capire cosa vuol dire lavorare con lui). Una collaborazione del tutto eccezionale per un rocker solitamente fedele al suo giro di amici nel casting per le sale di registrazione, e che ha sempre fatto passare in secondo piano l’aspetto tecnico rispetto all’immediatezza del “buona la prima”, suo storico marchio di fabbrica. Le Noise è un esperimento estremo, 38 minuti per sola voce e chitarra, più una serie di rumori ed effetti elettronici che stanno facendo la gioia degli audiofili, che già gongolano per un cd concepito per impianti ad alta fedeltà e non certo per gli mp3. Il risultato è strabiliante e stordente al tempo stesso, e sta dividendo i fans come solo le opere veramente importanti sanno fare, anche se ci vorrà tempo per capire se poi sia davvero riuscito. E’innegabile che la raccolta vede finalmente alcuni brani di scrittura recente (su tutte Peaceful Valley Boulevard e Sign Of Love) al livello dell’immancabile “scarto” dimenticato in qualche cassetto negli anni d’oro (Hitchhiker risale alla metà degli anni 70). Le perplessità s’insinuano invece quando ci si rende conto che le emozioni arrivano soprattutto dai due brani acustici (spicca Love and War), quasi che certi episodi elettrici, se spogliati della sontuosa veste sonora, non riescano ancora a reggere sulle proprie gambe. “E’ meglio bruciare in fretta che svanire lentamente” cantava Neil nel 1979, e con Le Noise ha sicuramente riacceso una fiamma che si stava affievolendo. Lasciamo che bruci, ci scalderà ancora. (Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...