lunedì 19 febbraio 2024

BILL RYDER-JONES

 

Bill Ryder-Jones

Lechyd Da

(Domino 2024)

File Under:  Welsh Sound

I Coral sono da più di vent’anni  una di quelle band che tutti in qualche modo apprezzano, anche se poi, chissà perché, non scatenano mai gli entusiasmi che meriterebbero, nonostante il recente Sea of Mirrors, ma soprattutto il corposo Coral Island del 2021, siano tra i dischi più interessanti usciti in questi anni Venti. Qualche vecchio fan però sostiene che qualcosa si era irrimediabilmente rotto nel 2008, quando il chitarrista Bill Ryder-Jones abbandonò il gruppo, che lui stesso aveva fondato, dopo solo 5 album. La storia dice che la sua carriera solista poi non ha avuto gli stessi onori di quella della band, che ha continuato senza di lui come nulla fosse, anche se A Bad Wind Blows in My Heart del 2013 andrebbe recuperato, ma forse una piccola svolta potrebbe arrivare da questo Iechyd Da. Che è un’opera che si distingue più che altro perché in un era di home-record e facili scappatoie nell’elettronica per ovviare all’impossibilità di una antica ma costosa session in uno studio di registrazione, il disco si presenta invece come una sontuosa operazione produttiva, dove non ci si fa mancare nulla tra fiati, archi, cori, e chi più ne ha, ne metta.

Lui stesso ha presentato l’album sottolineando quanto sia fiero degli arrangiamenti, il che potrebbe lasciare le canzoni in secondo piano, ma ovviamente non è così. Partiamo dal presupposto che Ryde-Jones (ma anche i Coral in fondo) non ha paura di essere accusato di “retromania”, anzi, ci sguazza con gran piacere fin dal primo brano I Know That It's Like This (Baby) che non ha timore di mischiare l’incedere e i cori da Velvet Undeground e un sample di Baby di Cateano Veloso (la voce di Gal Costa si riconosce subito comunque). Oppure di iniziare If Tomorrow Starts Without Me con lo stesso giro di archi di Street Hassle di Lou Reed, anche se poi il brano viaggia per altri lidi stilistici nel proseguo. E se in alcuni casi lavora anche per sottrazione (l’indie-folk alla Belle And Sebastian di I Hold Something In My Hand o la piano-song A Bad Wind Blows in My Heart Pt. 3), il resto si fa notare per i muri di suono, in cui persino il coro di fanciulli della Bidston Avenue School Choir che affiora in We Don't Need Them e in altri episodi, concorre al buon risultato senza ingolfare il meccanismo.

La sua vocalità bassa e laconica, e la sua ossessione per gli arrangiamenti, me lo fa avvicinare al Lee Hazlewood più coraggioso, anche se il suo sangue britannico si sente parecchio in alcuni episodi come una This Can’t Go On che sarebbe piaciuta ai Pulp. C’è tanta materia da analizzare e discutere qui, dai crescendo orchestrali che caratterizzano molti brani come How Beautiful I Am o Thankfully For Anthony, a qualche breve intermezzo utile a stemperare una tensione degna del migliore Bill Fay come …And the Sea... o Nos Da (piccola lezione di gallese, Nos Da vuol dire “Buonanotte”, Iechyd Da “Buona Salute”). C’è però da notare che sotto tanti suoni si celano delle belle canzoni, scritte con l’amore per quel cantautorato oscuro e sotterraneo dei primi anni settanta. Non è nuovo nella sostanza, ma lo è nella realizzazione questo album, e potrebbe aprire una nuova fase di ritrovato gusto per la costruzione di una registrazione, la stessa che lui aveva già dimostrato producendo lo splendido Dear Scott di Michael Head ad esempio. O, perlomeno, prendiamolo come un disperato tentativo di far sopravvivere l’arte sempre più sorpassata della produzione.

 

Nicola Gervasini

domenica 18 febbraio 2024

SABRINA NAPOLEONE

 

Sabrina Napoleone – Cristalli Sognanti

2024, Lilith Associazione Culturale

 

Scrivo queste righe nei giorni del Festival di Sanremo, e mi rendo conto di quanto quello che esce dal mio stereo e quello che sta tenendo impegnata mezza Italia in un grande unico mix di discussioni/applausi/ironia/sfottò, siano davvero mondi lontanissimi. E non per una questione per forza qualitativa, ma proprio perché la musica italiana “mainstream”, ormai un mix tra tradizione canora nostrana, pop radiofonico e varie forme di moderno rap edulcorato, non ha nulla del coraggio e della libertà di espressione che la musica nostrana sviluppa a livello più carbonaro.

Ascolto ad esempio Cristalli Sognanti, il nuovo album di Sabrina Napoleone, artista genovese sulla scena fin dal 1995 quando esordiva con gli Aut-Aut (Il dizionario Cantautori e Cantautrici del Nuovo Millennio di Michele Neri identifica in quegli anni uno sfortunato  “sliding doors” per una sponsorizzazione da parte di Roberto Vecchioni che non portò però allo sperato contratto discografico con una major), animatrice tra l’altro del Lilith, Festival della musica d’autrice, kermesse tutta al femminile creata con le colleghe Cristina Nico e Valentina Amandolese.

Se dalla televisione mi arriva un unico suono piatto e stereotipato, qui  vengo raggiunto da una variopinta tavolozza di suoni e strumenti, svariati ritmi, testi liberi, polemici e poetici al tempo stesso. Insomma, in uno stile che ovviamente non può che far venire in mente la Nada degli anni 2000  (vuoi anche per quel vago scostamento tra testo e melodia che caratterizza le canzoni di entrambe) o la scrittura di Cristina Donà, la Napoleone, giunta al terzo album solista dopo i già molto interessanti  La Parte Migliore (2014) e Nodir Min (2017), ci regala un bell’esempio di che senso dare all’espressione “musica italiana di qualità”.

Nato per essere un album registrato in solitaria, basato tutto su un synth e programmazione di drum-machines, il progetto si è colorato con alcune determinanti collaborazioni, come quelle con gli amici di vecchia data Cristina Nico e Giulio Gaietto, o con le voci di Stefano Luna, Hilja Russo e Simone Meneghelli. Ma gli interventi forse più determinante sono quelli del violino di Alice Nappi e della viola di Osvaldo Loi, con un suono spesso più minaccioso che suadente che fa da contraltare alle programmazioni curate della stessa Napoleone. E poi, a parte il lungo finale quasi “ambient” di Mevidda, ci sono le canzoni, con i loro testi graffianti (Come 7/4), ironici (Stupidi Disperati). che parlano di solitudine (Gardur), indugiano in riferimenti classici (Critone), in ricordi di lockdown (Malattia Invettiva) o alluvioni vere o simboliche (Chimera).

Da dire poi della complessa personale rilettura della Genesi di La Visione dell’Occhio di Dio, caratterizzata dalle programmazioni di Salvatore Papotto. La Napoleone ci tiene a dire che la versione su CD è diversa da quella che troverete in streaming, perché “questo è un album, non una semplice playlist”. A qualcuno potrà sembrare una puntualizzazione anacronistica, ma forse è proprio nello spirito battagliero e innamorato della cultura come ancora di salvezza che anima queste canzoni (e che non ritroviamo più in ciò che passa la radio e la tv), che possiamo ancora sperare che la canzone italiana possa trovare una propria via alternativa all’omologazione odierna, e arrivare, non dico sempre, ma almeno ogni tanto, a qualche grande palco.

Nicola Gervasini

VOTO: 7,5

RYAN ADAMS

 

Ryan Adams

Heatwave

Sword & Stone

1985

Star Sign

Prisoner (Live)

2024, Ryan Adams

 

Quest’anno Ryan Adams compirà 50 anni, età ormai da veterano nel mondo rock, ma che, visto l’andazzo odierno per cui gli ottantenni bazzicano ancora i palchi con immutata verve, vuol dire che potremmo anche ipotizzare più di trent’anni di carriera ancora da consumare per questo artista di Jacksonville. Altro discorso è immaginarsi come li spenderà, perché la sua attuale condizione lo vede da una parte relegato ad un esilio dal grande giro per note cause che non hanno a che fare con la sua musica, dall’altra, dopo un autoimposto stop tra il 2017 e il 2020, il nostro si sta ostinando non solo a fare più concerti  che può (con fatica, ma qualche tour senza troppe polemiche a contorno riesce ancora imbastirlo), ma a pubblicare tutto ciò che registra nel suo sofferto esilio. E così, come regalo di inizio 2024, eccolo licenziare online ben 5 album contemporaneamente, con un effetto immaginabile di stanchezza anche nei fans più fedeli per una produzione che già si concedeva qualche episodio di troppo ai tempi d’oro quando aveva una etichetta che lo seguiva, figuriamoci oggi che agisce da battitore libero. Ed ecco quindi la follia di ben 17 pubblicazioni dalla fine del 2020 ad oggi.

Peccato, soprattutto perché si rischia di far passare sotto silenzio il fatto che album come Wednesdays o il nuovissimo Star Sign continuano a dare i frutti sperati, grazie al suo inconfondibile stile a metà tra cantautorato country-roots e brit-pop smithsiano, e soprattutto perché lui resta una penna davvero felice quando butta fuori tutta la sua rabbia e la sua frustrazione. E quindi il consiglio, se non siete dei completisti, e di dirigersi subito su Star Sign, disco non sensazionale, ma degno di essere il nuovo capitolo di una bella carriera. Al massimo, se proprio ne avete ancora voglia, la seconda scelta è Heatwave, album in cui Adams alza il volume delle chitarre elettriche consegnando anche qualche brano più che godibile, senza però impressionare troppo. Se siete invece tra quelli che difesero le piccole tonalità di punk-rock di Rock and Roll del 2003, potete scegliere tra l’estremo 1985 (29 canzoni di puro rauco garage-rock alla Hüsker Dü o Bad Religion della durata media di un minuto), o il più indeciso Sword & Stone, forse il meno interessante del lotto proprio perché si ferma in mezzo al guado tra un rock classico e un punkettino da adolescenti con rabbia e brufoli da combattere. Se poi ancora volete ricordarvi quanto Adams resti un grande performer, passate pure a Prisoner (Live), disco forse non necessario a questo punto, ma sicuramente non indegno del suo buon nome.

Non ci chiediamo più dei perché quando si tratta di Ryan Adams, prendetelo così perché il “ragazzo” (50 anni si, ma il look resta quello dei vent’anni) sembra che non abbia nessuna intenzione di mollare,  e noi che lo seguiamo  siamo costretti a tenere duro perché fra trent’anni, quando la mole della sua discografia farà invidia anche a quella di Frank Zappa,ci vorrà molto di più di una bussola o di una guida per aggirarsi nel suo mondo. Che resta sempre comunque pregno di grandi emozioni quando la canzone e il sound sono quelli giusti.

VOTI

Heatwave   6,5

Sword & Stone  5

1985   5,5

Star Sign   7

Prisoner (Live) 6

 

Nicola Gervasini

 

SWANZ THE LONELY CAT

 

Swanz The Lonely Cat

Swanz The Lonely Cat's Macbeth

(Oten Schwan / EEEE)

File Under: “La vita non è che un’ombra vagante”

 

Probabilmente se Swanz The Lonely Cat non fosse stato già un artista seguito dalle nostre pagine non saremmo mai arrivati  a parlarvi di questo Swanz The Lonely Cat's Macbeth.  Di lui, al secolo Luca Andriolo, vi avevamo già parlato due volte con i bei dischi pubblicati con il suo gruppo Dead Cat in a Bag (Sad Dolls and Furious Flowers del 2018 e We've Been Through del 2022), dischi intrisi di una roots-music gotica che ci riportava sempre a citare David Eugene Edwards come riferimento più evidente, e quindi decisamente in linea con l’indirizzo artistico scelto dalla nostra testata. Ma  stavolta si presenta con il suo nickname da solitario felino per un album dove non troverete canzoni, ma due lunghe suite che fanno da colonna sonora ad un cortometraggio (intitolato “All is but Toys”)  in puro stile gotic-horror, realizzato dal duo di creatori di immagini Plastikwombat (Silvia Vaulà e Paolo Grinza), per cui prendetelo un po’ come i fans di Neil Young hanno accolto la colonna sonora di Dead Man di Jim Jarmusch, come una occasione per Swanz di dare sfogo alle sue visioni musicali, unendo quindi il suo background di musica americana con l’elettronica e suggestioni a metà tra kraut-rock di altri tempi e musica industriale. Un viaggio sonoro negli inferi shakespeariani  che mi azzardo a descrivere un po’ scherzosamente come il disco che avrebbero fatto i Tangerine Dream se fossero nati ad Austin.

Non ci sono quindi canzoni da commentare,  le suite sono divise in varie fasi in cui Swanz a volte gioca anche con la recitazione del classico della letteratura britannica The Tragedy of Macbeth, suonando tutti gli strumenti per gettarsi a capofitto nelle atmosfere che l’orrore della sete di potere del protagonista creano negli immortali versi scritti da William Shakespeare. Quello che mi porta a proporre comunque il disco a dei lettori magari più abituati a cercare qui la forma canzone che la tradizione del songwriting americano (di cui Swanz è intriso, come dimostrava anche nel suo disco d’esordio Covers On My Bed, Stones In My Pillow del 2017 dove si destreggiava tra riletture di Hank Williams e Kris Kristofferson), è una riflessione su quanto negli ultimi anni stiamo assistendo ad un sempre più consueto uso di atmosfere derivanti da altri mondi (come prog, dark/new wave e musica elettronica) anche nel mondo della musica di ispirazione “roots”, e non è un caso che l’anno scorso vi presentammo  We've Been Through in abbinamento ad un album di Nero Kane, altro artista nostrano che crea mondi sonori suggestivi per cercare di andare oltre la tradizione, senza però perderla nella costruzione delle canzoni.

Qui ovviamente siamo in un caso più estremo, ma al di là del fatto che il disco sicuramente attirerà l’attenzione di ascoltatori che di certo non hanno familiarità con la musica solitamente proposta da Swanz, questo Macbeth con il suo vortice di suoni  potrebbe davvero diventare un punto di confronto anche per altre opere di cui vi parleremo , significativamente sempre più spesso create da artisti italiani. E non mi meraviglierei che già il prossimo disco dei Dead Cat in the Bag riparta da qui.

Nicola Gervasini

Link video: https://www.youtube.com/watch?v=4OdHOqb_L3E

GHOST WOMAN

 

Ghost Woman - Hindsight is 50​/​50

2023, Full Time Hobby

Il culto sotterraneo per i Ghost Woman è abbastanza atipico per i nostri tempi, in cui tutto viene strillato e bruciato in poco tempo, perché di loro si parla ancora molto poco rispetto al seguito che in patria sono già riusciti a costruirsi (ma anche a Londra, dove infatti hanno trovato casa come etichetta discografica). Se vi fate un giro nel web è persin difficile trovare informazioni su questo combo canadese che fa capo all’artista Evan Uschenko, e anche il loro sito ufficiale pubblica esclusivamente le date dell’imminente tour, ma nessuna biografia o discografia utile, nonostante Hindsight is 50​/​50 sia già il loro quarto album.

Partiti nel 2016, la band ha avuto qualche sotterraneo riconoscimento con gli album Anne, If del 2000 e l’omonimo del 2022, cambiando formazioni e svelando, con questo nuovo sforzo, quanto poi davvero il progetto sia completamente in mano a Uschenko. Lui, infatti, qui fa tutto tranne le parti di batteria, affidate alla percussionista Ille Van Dessel, strumentista evidentemente cresciuta alla scuola Meg White, mentre ad esempio l’album del 2000 era stato registrato da una formazione di 5 elementi. Il risultato è che lo psych-rock figlio dei sixties o dei Dream Syndicate di qualche anno fa ha sempre più lasciato spazio a ritmi più lenti e rarefatti.

Hindsight is 50/50 gioca subito l’unica carta rauca in apertura con Bonehead, un fuzz-blues sospeso tra i Jon Spencer Blues Explosion o i White Stripes più garage, ma è un caso unico, perché poi a partire da Alright Alright entriamo in un lungo percorso ipnotico e lisergico fatto di chitarre acide e atmosfere dark. Con ingredienti che potete anche immaginare, come le dosi massicce di Velvet Underground sparse in Yoko (no, qui Lennon non c’entra, ma avrebbe comunque apprezzato il brano), il finale maestosamente shoegaze di Joan, l’assalto di suoni effettati dello strumentale Wormfeast o l’alternative-rock da primi anni 90 della finale Buick (potei tirare in ballo gli Spaceman 3 ma poi ci perdiamo in discussioni su chi trova un riferimento ancora più preciso). Insomma, siamo davanti ad un disco che mette a proprio agio chiunque abbia sondato i bassifondi dell’industria discografia degli ultimi decenni, il che ci dice quanto Uschenko sia prima di tutto un fan e appassionato, ma forse meno che nei dischi precedenti si ha la sensazione che abbia trovato una sua via stilistica definita.

Per questo non troverete nulla che non vada in brani di forte presa come Highly Unlikely o Ottessa (probabilmente anche il Billy Corgan dei tempi d’oro degli Smashing Pumpkins li avrebbe apprezzati), se non che manca forse quello sforzo in più per emergere dal sottobosco, per rendersi più che riconoscibile, e soprattutto manca anche quella varietà di stili e ritmi che rendeva i dischi precedenti più stuzzicanti. L’album però piacerà forse a chi ancora cerca eroicamente di rimanere fedele al lato più oscuro e ostico di questo vecchio rock, e che sicuramente immagina di poter trovare nella camera di Uschenko gli stessi vinili che abbiamo consumato per anni sognando che questa musica potesse diventare un giorno il nuovo mainstream.

Nicola Gervasini

VOTO: 6,5

HARP

 

Harp

Albion

(Bella Union, 2024)

File Under: Dream-Indie

La storia è di quelle che si sono raccontate mille volte nelle riviste che si occupano di gruppi musicali, una band parte per amicizia fin dai banchi di scuola, arriva a farsi conoscere, ma proprio quando il momento pare quello d’oro, qualcosa si incrina, per poi rompersi in uno scioglimento o un abbandono pesante che interrompe la favola. In pochi scommettevano sul futuro dei Midlake nel 2012 quando il cantante e tastierista Tim Smith (e soprattutto praticamente unico autore dei brani fino a quel momento, da non confondere con il da poco scomparso vocalist dei Cardiacs) ha lasciato il gruppo a registrazioni del quarto album già iniziate. Eppure i suoi compagni hanno comunque portato a termine il lavoro (facendo uscire il più che dignitoso Antiphon nel 2013), e, soprattutto, nel 2022 sono tornati con il disco For the Sake of Bethel Woods, dimostrando che, dopo averci pensato un po’, hanno deciso che la sigla non merita di morire così presto. Smith aveva lasciato la barca proprio quando stava andando fortissima, con due album giustamente osannati dalla critica (The Trials of Van Occupanther e The Courage of Others), e soprattutto il contributo decisivo dato al fortunatissimo Queen of Denmark di John Grant. E lo ha fatto dando poche spiegazioni, e soprattutto quasi scomparendo dalla circolazione. Per questo possiamo ben dire che questo Albion, suo primo album mezzo-solista pubblicato con il moniker Harp che comprende anche la moglie e collaboratrice Kathi Zung, è un disco che in molti hanno atteso, con grandi aspettative che francamente non so quanto siano state rispettate. La voce è ancora quella celestiale che ricordavamo, e la mano felice a scrivere melodie sognanti e perfettamente costruite non sembra affatto arrugginita, come dimostrano bellissime canzoni come I Am The Seed o Silver Wings. Ma qualche perplessità la esprimiamo sulla parte di produzione e arrangiamenti, tutti basati su una tastiera che insegue gli anni ’80 a metà tra il dream pop dei Cocteau Twins nel migliore dei casi (che sono davvero la prima band a cui pensi ascoltando il disco), e certo pop di atmosfera di quegli anni. Gli fa da contraltare una chitarra che insiste in un arpeggio ipnotico, impantanandosi anche un po’ nella ripetitività, il che rende l’impianto sonoro del disco un po’ monocorde, e alla fine in certi momenti, tra piccoli strumentali quasi new age e suoni molto cristallini, più che ai Cocteau Twins pensi quasi ai levigatissimi Clannad degli anni 80. Peccato perché dal punto di vista della scrittura Smith ha ampliato la gamma espressiva includendo anche un tono vagamente acid-folk  alla Roy Harper, e i testi sono anche più elaborati della media nel sondare le fragilità umane, ma la sensazione è che nell’inevitabile confronto con i suoi vecchi compagni di strada, ad averci perso nel divorzio al momento pare proprio lui. Il suo vantaggio è che però lui ha appena iniziato, e ha davanti una strada ancora lunga.

Nicola Gervasini

 

LONG HAIR IN THREE STAGES

 

Long Hair In Three Stages - The Oak Within the Acorn

2023 Noisewave/ Long Hair In Three Stages

Diciamo pure che viviamo in un’era in cui parlare di logiche di mercato per il 99% dei prodotti musicali che affollano il web non ha più senso, rispetto a 30 anni fa escono parecchi più titoli e se ne vendono parecchi meno, per cui è logico che ogni artista indipendente (ma anche questa distinzione non so se ha davvero più senso) ragiona secondo un suo tornaconto del tutto personale. Certo, pecunia non olet dicevano i nostri antenati, ma è certo che la lussuosa confezione a libro (che vagamente mi ricorda le elaborate copertine a libro dei Pearl Jam, ad esempio Vitalogy) che i Long Hair In Three Stages hanno pensato per dare un contorno al loro album The Oak Within the Acorn, non è certo frutto di un ragionato e calcolato bilancio tra spese di produzione e vendite previste. Ma facciamo un passo indietro, perché gli anni scorrono e forse non tutti si ricordano dei  Long Hair In Three Stages, nome che quattro catanesi (Giuseppe Lacobaci, Santi Zappalà, Giovanni Piccinini e Fabio Corsaro) presero probabilmente in prestito dal primo album del  1995 della noise-band U.S.Maple per dare vita ad un progetto che unisce la nostalgia per la scena sperimentale degli anni  80-90 alla voglia di tenere viva la fiamma creativa del lato oscuro del rock odierno, sempre se si possa ancora chiamare così. La band ha pubblicato due dischi tra il 2012 e il 2014, e ora arriva questo terzo con quasi 9 anni di studi e ripensamenti alle spalle. Non è un album per tutti The Oak Within the Acorn, anche se dietro il suo sound da garage di altri tempi si nascondono anche brani più che accattivanti come Tired, e sebbene le 72 pagine del libro che lo accompagna tra fotografie, bellissimi disegni  di Yako Batchee e testi invogliano ad un tranquillo ascolto serale in poltrona, l’iniziale Dunning-Kruger-Voight-Kampff regala subito inquietudine sonora e oscuri presagi dietro un testo parecchio polemico sul tragico livello di discussione odierno su molti temi fondamentali . Il seguito è una sorta di quasi-concept, in cui un ipotetico trattato sulla natura di altri tempi diventa una impietosa e per nulla ottimistica fotografia sulla realtà. Non si salva nulla, dall’ecologismo che perde di vista il suo senso finale di The Cult Of Nature, alle storie sui migranti (The Blue Frontier), alla difficoltà di distinguere tra mondo reale e pornografia (Pornest Song Ever) alle lotte perse contro le discriminazioni (Mysogynocyde), tutto viene letto con l’occhio di capisce che, seppur vorrebbe, non può chiamarsi fuori da questo macello generale. Compreso quando si tocca la storia siciliana, raccontata in dialetto di Bronte, in Nunzio Frajunco (si parla dei Mille).  D’altronde il sottotitolo del disco è “Punk Songs After The End Of The World”, e brani come How Charming The Beauty Of An Impending Extinction sono lì a gettare quel ponte tra ironica provocazione e sconsolata rabbia che caratterizzava la filosofia underground di un tempo. Sospesi a metà tra la voglia di essere i nuovi figli degli Husker Du (si ascolti 1991), l’amore per i giri di basso e le complesse trame chitarristiche dei Fall, e qualche frenata velleità avanguardistica alla Einstürzende Neubauten, i Long Hair In Three Stages raccontano da Catania quella Sicilia invisibile, lontana ma per nulla distaccata da una sofferente visione del mondo, che abbiamo conosciuto dai dischi del messinese Humpty Dumpty ad esempio.  

Nicola Gervasini

VOTO: 7

 

CAT POWER

 

Cat Power

Cat Power Sings Dylan: The 1966 Royal Albert Hall Concert

(2023, Domino)

File Under:  Judas!

Quella che segue potrebbe essere la recensione più inutile che abbiate mai letto, per cui vediamo se riesco a fare in modo che la leggiate fino alla fine impegnando i 3 minuti che necessita. Cosa abbiamo qui? Bob Dylan. E non c’è altro da dire. Abbiamo le canzoni di Bob Dylan fino al 1966, classici, capolavori, chiamatele come volete, ma restano una delle esperienze letterarie e musicali più grande del secolo scorso, Nobel o non Nobel.  C’è poi un disco di cover di Bob Dylan, l’ennesimo, e certo non l’ultimo, non sto a contare quanti artisti l’hanno fatto perché sicuramente sbaglierei per difetto. C’è poi il fatto che una cover di un brano di Bob Dylan credo sia un obbligo, sicuramente morale, che un qualsiasi autore di canzoni statunitense e non solo deve prima o poi affrontare, ma non mi meraviglierei di trovarlo anche come diktat nella Costituzione Americana. C’è poi Cat Power, che ha deciso di regalarsi questo concerto (e tra l’altro è anche il suo primo live-record ufficiale) per i suoi 50 anni e congiuntamente 30 anni di carriera (la sua prima esibizione da artista fu a Brooklyn nel 1993 come spalla ai Man or Astro-man?), una artista per cui, anche qui, non devo prodigarmi troppo in presentazioni, visto che è ospite fissa sulle nostre pagine da sempre. C’è anche il fatto che sulle cover Cat Power ci ha ormai fondato una carriera parallela, che tiene a bada i tempi lunghi, l’insicurezza, e i mille dubbi con cui porta avanti in maniera sempre sofferta la sua da autrice, e che sia brava a calarsi nei testi altrui non è più una novità. C’è il suo amore per Dylan, anche questa tutt’altro che una novità, visto che in Jukebox del 2008 oltre ad una cover di I Believe In You (da Slow Train Coming), ci aveva piazzato come unico suo brano autografo una splendida Song To Bobby che potrebbe anche da sola sostituire questa recensione. C’è un concerto, quello mitico di Bob Dylan con la Band (ai tempi ancora Hawks) del 1966 alla Royal Albert Hall (ufficialmente, perché poi pare che, per un errore dei bootleggers, venne messa la location errata alla serata clou, che si tenne invece alla Manchester Free Trade Hall), il numero 4 delle sue Bootleg Series se ancora non lo avete recuperato, la sera di chitarre elettriche esibite a sorpresa, del “Judas!”, “I’Don’t Believe you, You’re a Liar”, che è probabilmente l’unica parte che qui non viene ripresa con ingegneristica precisione. Insomma,  la sera che ha cambiato il rock and roll tutto. E che Cat Power ripercorre con perfetta aderenza, calandosi nei panni della folk-singer ante litteram voce-chitarra-armonica nella prima parte, e passando alla parte elettrica nella seconda. Stavolta senza troppi scandali, anche perché la sua band ricrea perfettamente il suono del tempo, segue gli arrangiamenti originali senza smuovere una virgola, non cambia tempi e modi. Ovvio quindi che il risultato sia bellissimo.  Ma quindi come la chiudo senza aver solo enumerato una serie di ovvietà? Chiedendomi se tutto ciò ha senso? No, non più, non nel 2023 in piena era di autocelebrazione del classic-rock. Se sarebbe stato meglio avere riletture diverse e coraggiose? Forse, ma è evidente che la serata era più un regalo a sé stessa che ai fans, per cui perché rovinarle la sorpresa? Sperando che le giovani generazioni raggiungano Dylan attraverso questo disco?. Io non ci spero più dal 2010 ormai, e non ci spera neanche la stessa Cat Power secondo me, che è mia perfetta coetanea, e ai suoi coetanei si rivolge ormai da tempo. Per cui va benissimo così, viviamo di grandi ricordi, questo vuole dirci Cat, riviviamoli assieme ancora una volta, e altro non c’è da dire.

Nicola Gervasini

ALLAH-LAS

 

Allah-Las -  Zuma 85

2023, Calico Discos/Innovative Leisure.

Non si sa con esattezza chi abbia coniato il termine “retromania”, tra l’altro usato anche tra gli anglofoni, tanto da essere diventato anche il titolo di un trattato teorico scritto nel 2011 dal famoso critico musicale Simon Reynolds (colui che ha ufficialmente la paternità dell’oggi abusatissimo termine “post-rock”), ma sicuramente non è ormai recentissimo (la Treccani attesta il primo utilizzo nei quotidiani italiani nel 1999 sull’Unità). Per Reynolds più che di una corrente culturale e artistica, si tratta proprio di una mera ossessione che impedisce di slegarsi da schemi mentali il cui unico merito, secondo lui, resta quello di essere stati efficaci e di successo nella loro epoca. Oggi però viviamo una fase difficilissima per il rock, o “classic rock”, termine che già lo relega ad oggetto di retromania per definizione, perché se  è vero che internazionalmente dobbiamo affidarci ai Måneskin o ai Greta Van Fleet per trovare adepti anagraficamente definibili come “giovani” e di successo, (ma volendo potremmo anche arrenderci ed aspettare solo il nuovo album dei Rolling Stones, e chiudiamo così la discussione), anche il mondo del rock indipendente non sembra riuscire a slegarsi dal passato. E’ così anche, e soprattutto, per gli Allah-Las, con gli Algiers tra le band più spesso citate da chi cerca di far valere l’idea che no, il rock non è affatto morto, ma anzi vive e progredisce. Il loro nuovo album Zuma 85 sembra infatti quasi una risposta degli stessi, quasi a dire “no, guardate che anche noi, anche se siamo più giovani, sempre là siamo rimasti”. Con un titolo che non può far pensare a Neil Young, una data che ci riporta indietro di quasi quarant’anni, ma soprattutto con quel riff di Sweet Jane rielaborato non solo palesemente nell’iniziale The Stuff, ma pure in versione più lenta dalla successiva Jelly. Poi però scopri che il testo di The Stuff ironizza parecchio sulla retromania, pare quasi uno di quei brani di Frank Zappa quando si divertiva a ricreare perfettamente (e con grande rispetto) un genere musicale, ma nello stesso tempo lo sbeffeggiava nel testo. E qui si apre la discussione, perché Zuma 85 è decisamente il disco più retrò di una band che retrò ci era già nata, ma con uno sguardo moderno che evitava l’effetto cover-band. Effetto scongiurato anche qui, state tranquilli, perché poi il disco è più che divertente, i brani scritti dai quattro ragazzi di Los Angeles reggono bene il confronto con i modelli a cui si rifanno (bello il finale con la title-track e The Fall), e gli Allah-Las dopo 15 anni di carriera hanno ormai percorso abbastanza chilometri da conoscere tutti i trucchi del mestiere per far sentire l’ingrediente della casa anche in una ricetta banalissima. Ma qui siamo ormai ad una sorta di struttura ricorsiva in cui una band che ripropone il passato fa un disco che ripropone il passato ragionando sulla musica che ripropone il passato con l’idea che tutto ciò ci parlerà del presente. D’altronde anche il cinema si è fermato lì, tra remake, reboot, e quella prassi consolidata di mostrare il passato per parlare dell’oggi (pensate anche solo al successo del film di Paola Cortellesi). Trucco che agli Allah-Las riesce in parte secondo me, perché il gioco non è nuovissimo e alla lunga stanca, e pare essere davvero l‘unica stuzzicante riflessione  che in questo momento questo sound riesce a proporre. Lassù Lou Reed, primo omaggiato da queste canzoni, mi sa che apprezza, ma un po’ se la ride anche, perché lui ci aveva avvertito in tempi non sospetti che non c’era poi molto da dire su una musica basata su massimo due accordi (che già tre è jazz…) e un paio di chitarre.

Nicola Gervasini

VOTO: 6,5

BLACK PUMAS

 

The Black Pumas

Chronicles of a Diamond

( ATO Records, 2023)

File Under: Black Pop

Non è facile dire quale sia stato l’anno, o il disco, o l’artista, che ha chiuso il ciclo evolutivo di quella che per mera comodità continuiamo a chiamare “Black Music”, confidando sul fatto che con questa definizione non si corre il rischio di sospetti di razzismo e poca inclusività. Ma la - al momento - breve  epopea dei  Black Pumas, duo di Austin formato da Eric Burton e Adrian Quesada (un afroamericano e un ispanico che suonano nella capitale della roots music americana, cosa fare di più per confondere le vecchie idee?), sta in qualche modo dimostrando che il genere è arrivato ad un punto di sintesi ormai completo. Loro già lo fecero capire nel 2019 con il loro acclamatissimo esordio omonimo, e cioè che ormai non ha più troppo senso fare divisioni tra il vecchio Soul ravvivato in questi anni 2000 dal foltissimo movimento New Soul, la tradizione delle band funky degli anni 70, e il totale cambio di paradigma portato negli anni 80 da Thriller di Jackson e ovviamente Prince, l’hip hop e l’ R&B degli anni 90, e i grandi nomi dei 2000 che già avevano operato un ulteriore passo in avanti nell’unire il tutto (penso a D’Angelo, Cody Chesnutt o tanti altri). I Black Pumas arrivano ultimi, eppure suonano freschi, e, buona notizia, continuano ad esserlo anche in questo secondo album, Chronicles of a Diamond, che si è fatto attendere più di quattro anni, in cui i due hanno ammesso di essersi sentiti parecchio sotto pressione. La scelta, secondo me saggia (vedremo poi se vincente o no), è stata quella di aver deciso di non avere nulla da dimostrare a nessuno, e così questo disco sposta il focus sulle canzoni e sulle melodie (alquanto cantabili e “radiofoniche”, per usare un vecchio termine che non saprei sinceramente attualizzare in epoca di streaming), mentre non cerca di strabiliare unendo stili diversi senza criterio. La giornalista Emma Harrison su Clash lo ha definito “una paradisiaca tavolozza interculturale di soul stellato, rock psichedelico, jazz funk, e pop sinfonico" e francamente potremmo fermarci qui, soprattutto perché l’ultima delle definizioni è quella su cui più mi soffermerei. Perché brani come More Than a Love Song o Mrs Postman dimostrano quanto lavoro ha fatto Burton nel costruire melodie sopra le ritmiche di Quesada riuscendo a unire le lezioni “black” di Smokey Robinson e quella “white” di Harry Nilsson in un unico risultato. E’ forse meno ballabile del suo predecessore, in cui l’amore per il funky di Quesada aveva più spazio, ma forse ancora più pregno di influenze, dal gospel di Angel alla quasi filastrocca pop di Ice Cream (Pay Phone). Nel finale arriva poi Rock and Roll a trovare un accordo tra generi che valga per tutti i gusti sotto un titolo così loureediano. Eppure, nonostante la bontà di molti brani brani, non sta piacendo a tutti questo Chronicles of a Diamond, forse perchè ci mette meno istinto e sudore e più ragione e cultura musicale, o forse perché il tentativo dei Black Pumas di farci anche solo riflettere su cosa ancora si può fare di più in questa musica necessita ancora di tempo. Risentiamolo fra qualche anno magari, potremmo scoprire che avevano capito qualcosa in anticipo, oppure davvero sì, lo ricorderemo solo come una svolta più leggera (un tempo dicevamo “easy” pure sui giornali italiani, ricordate?) del primo album.

Nicola Gervasini

BEIRUT

 

Beirut – Hadsel

2023 – Pompeii Records

Il trentasettenne Zachary Francis Condon rappresenta in qualche modo l’ormai deragliato sogno della globalizzazione, intendendo il termine come un tempo, con una accezione del tutto positiva di incontro tra culture diverse, conseguente arricchimento reciproco, e nascita di un uomo nuovo che travalichi i confini e le divisioni. Messicano nato a Santa Fe, si è innamorato dei suoni del mondo in una viaggio in Europa dove ha incontrato la musica etnica (quella che chiamavamo World Music, ma pure questa è storia vecchia), il fado portoghese, e ovviamente la musica balcanica. Pure il nickname che si è scelto, Beirut (inizialmente a rappresentanza solo di sé stesso, ma ormai a tutti gli effetti considerato il nome di una band), è stato scelto proprio perché la capitale libanese, prima che lui nascesse, rappresentava questo ideale di perfetto incontro tra culture antitetiche (ricordate quando la chiamavano “La Parigi del Medio Oriente”? A dirlo oggi viene quasi da pensare che ce lo siamo davvero tutti sognato).

Il primo album Gulag Orkestar del 2006 era un unico grande omaggio all’Europa dell’Est, una sorta di versione indie-mex di un disco di Goran Bregovic secondo alcuni. E il viaggio multiculturale non è mai finito da allora, portandolo con il precedente Gallipoli a registrate anche in Puglia e cibarsi anche dei sapori del nostro sud (ricordiamo che l’etichetta discografica da lui fondata si chiama Pompeii). Stavolta però, per il loro sesto album, ci dobbiamo spostare ad Hadsel, paese della Norvegia dove Zachary si era rifugiato in tempi di lockdown anche per curare una forte laringite contratta proprio a casa nostra, e dove in quella solitudine che solo i paesi nordici sanno orchestrare in maniera così perfetta, lui ha scritto queste canzoni usando l’organo della chiesa del paese (da qui la copertina). Capite subito che quindi non sarà facilissimo entrare nel mood di brani che si intitolano Arctic Forest o Island Life vivendo magari a Milano, dove il silenzio nessuno sa cosa sia da secoli, ma se siamo riusciti ad entrare in sintonia con gli album dei Sigur Rós o apprezzare l’aura bucolica dei dischi dei Big Thief anche in mezzo al traffico cittadino, allora il risultato di tanto isolamento, che quasi potete anche facilmente immaginare, ci suonerà famigliare.

Il disco è stato scritto suonato da solo, persino quando è stato perfezionato in Messico utilizzando elementi tipici del loro sound come la tromba, che chiude benissimo il disco in Regulatory, o l’ukulele, ma l’assenza della band ha aumentato il peso di sintetizzatori e drum machines,  che allontanano l’album dal concetto di folk a cui spesso vengono associati. Il risultato è un disco monolitico nella sua ispirazione, ma decisamente vario negli spunti che propone, e ogni brano meriterebbe un discorso a parte, dall’ottimismo di The Tern alla malinconia della title-track. Probabilmente Hadsel sarà un titolo che volentieri metteremo in una  ipotetica lista dei migliori dischi nati nel più totale isolamento umano e artistico, dall’esordio di Bon Iver di For Emma, Forever Ago fino al Van Morrison quando inseguiva in solitudine i sentieri battuti dalla poesia di Yeats. Fatelo vostro come il disco ideale per questo lungo inverno che ci attende

Nicola Gervasini

VOTO: 8

 

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...