Dean
Owens
Spirit
Ridge
(Continental
Song City, 2025)
File Under:
From Texas to Romagna
Nel 2008 proprio su queste pagine
parlai del primo disco lanciato a livello internazionale di Dean Owens (Whiskey
Heart), descrivendo uno scozzese fieramente innamorato dell’America,
presentato sulle note di copertina dal connazionale Irvine Welsh come una sorta
di esploratore di un immaginario che noi qui ovviamente ben conosciamo. Uno dei
suoi primi dischi autoprodotti si intitolava Gas, Food & Lodging, e
credo che questo basti per accendere qualche lampadina nei nostri riferimenti
culturali.
Nonostante l’impegno del produttore
e chitarrista Will Kimbrough, il disco non impressionò troppo (ai tempi davamo
i voti numerici, e si meritò un 6 di incoraggiamento),
però il buon Owens ha continuato a studiare disco dopo disco, tonando nei nostri
radar quando, decisosi per un trasferimento artistico in terra statunitense, ha
cominciato a collaborare con gente come i Calexico per il già notevole Sinner's
Shrine del 2022 e successiva saga di EP dedicati al confine messicano
condensati nell’album El Tiradito (The Curse of Sinner's Shrine), a cui
va aggiunto anche un side-project a tre mani sempre con Will Kimbrough e
Neilson Hubbard (Pictures).
Insomma, Spirit Ridge
è il classico disco in cui lo si aspetta un po’ al varco, perché ormai di
esperienza ne ha tanta, e i buoni maestri non gli sono mancati, e infatti qui possiamo
davvero a confermare che alla fine il “ragazzo” ce l’ha fatta a diventare un credibile
cantore di frontiere yankee. E lo fa paradossalmente accasandosi nelle nostrane
terre emiliane, sfruttando l’ormai consolidata esperienza di Don Antonio (alias
Antonio Gramentieri) nel descrivere un certo immaginario musicale, contattato
su consiglio proprio di John Convertino, che ha poi partecipato a queste
sessions.
Potremmo quasi dire che
Gramentieri ormai un disco del genere lo suona e produce ad occhi chiusi, e il suo
tocco (e quello di alcuni suoi collaboratori, come ad esempio il chitarrista
Luca Giovacchini) si sente al primo colpo nei riverberi dell’iniziale Eden
Is Here o nel breve intermezzo mariachi di Spirito. A questo punto,
se il risultato è garantito dal team, resta però da capire quanto Owens ci abbia
messo di suo, e rispetto ad esempio al disco di 17 anni fa, in un brano
tesissimo (e francamente bellissimo) come My Beloved Hills, è proprio la
sua prova vocale che mostra una nuova maturità, che ribadisce come anche senza
grandi e potenti mezzi vocali si possa comunque incidere su un brano.
Owens scrive tutti i brani con
toni lenti e profondi, anche se c’è spazio anche per qualche episodio più
veemente (l’epico dialogo tra chitarre e sezione d’archi di Light This World),
e dopo un momento un po’ sperimentale (The Buzzard and the Crow), arriva
l'uno-due da K.O. di Burn It All e Face The Storm, anima centrale
del disco.
Dodici brani per 49 minuti, ma era
difficile voler tagliare qualcosa, volendo lasciare spazio ai fiati di Michele
Vignali e Francesco Bucci (arrangiati da Vanni Crociani) nella cavalcata di Wall
Of Death, o per chiudere con i tre brani liricamente più intensi (A
Divine Tragedy, Spirit Of Us e Tame The Lion). Un bel salto di qualità che
porta quel 6 di un tempo ad un 8 pieno.
Nicola Gervasini
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