giovedì 30 novembre 2017

WILLIAM THE CONQUEROR

William the Conqueror
Proud Disturber Of The Peace


[Loose Music / Goodfellas 2017]
williamtheconqueror.net


 File Under: The many faces of Americana

di Nicola Gervasini (26/10/2017)
Per la storia William The Conqueror era Guglielmo il Bastardo, ufficialmente poi Re Guglielmo I re D'Inghilterra nel 1066, primo capostipite di una dinastia, quella dei Normanni, che impera ancora oggi nel Regno Unito. Nome impegnativo quindi da dare ad una band, ma Ruarri Joseph, hipster di Edinburgo, non teme confusioni storiche dal momento che, dopo quattro album da solisti, ha deciso di fondare un trio. Quando esordì nel 2007 (l'album era Tales of Grime and Grit) a sorreggerlo c'era una major come l'Atlantic, dove evidentemente qualche buon marketing manager aveva deciso che i folksinger solitari e barbuti qualcosa ancora riuscivano a vendere tra le ceneri di un mercato discografico sempre più ingovernabile, ma già dal secondo capitolo Both Sides of The Coin per Joseph iniziò la vita delle etichette indipendenti e dell'auto-promozione.

Per capire da quale tradizione venga il suo stile, basta solo dire che nel terzo album (Shoulder to the Wheel del 2010) compariva una cover di Sixto Rodriguez. Proud Disturber of The Peace (bel titolo…) potrebbe essere considerato quindi il suo quinto album, visto che i due partner nell'avventura (Harry Harding e Naomi Holmes), si limitano dare corpo alle sue bizzarre canzoni. Il risultato sa comunque molto più da band che i suoi dischi precedenti, con uno stile che abbraccia tutto quanto di americano si possa rastrellare nella tradizione folk, con quel tocco di follia cantautorale british alla Robyn Hitchcock che non stona. Dopo la sventagliata di acustiche di In My Dreams, è il bel singolo Tend To The Thorns che trova una nuova via di riconciliazione tra l'indie-folk anni 2000 e certo cantautorato post-grunge alla Jeff Buckley e Elliott Smith. Did You Wrong è un numero più classicamente roots-rock, con chitarre elettriche in evidenza (sempre in tema anni 90 torna quasi in mente il purtroppo dimenticato Pete Droge), mentre nell'ottima Pedestals salta fuori il John Mellecamp più folk che è in lui.

Il livello compositivo è alto, anche nei testi, che hanno quel tono introspettivo classico del genere ma con una buona dose d'ironia ad evitare deragliamenti nell'epicità eccessiva di certo immaginario americano. Sunny Is The Style è la ballatona che Ray LaMontagne non riesce a (o non ha più voglia di…) scrivere, e chiude una ipotetica facciata A (la scaletta del cd divide lato a e lato B come un vecchio vinile) per riaprire le danze con la magnifica The Many Faces of A Gold Truth, sorta di funky metropolitano con chitarre e fiati in evidenza che ricorda certi momenti dediti al soul di Jesse Winchester, come anche il folk corale della title-track. Cold Ontario fa sfoggio di un bell'incrocio di cori e piano da barrelhouse, mentre Mind Keep Changing è addirittura un blues vecchia maniera con un gran tiro e crescendo finale. Si chiude con l'acustica e "neilyounghiana" Manawatu un disco davvero sorprendente, non certo per originalità, quanto per freschezza. Scopritelo.

lunedì 6 novembre 2017

NEIL YOUNG

Neil Young 
Hitchhiker
[Reprise records 2017]

neilyoung.com

 File Under: It was a dark and stormy night…

di Nicola Gervasini (21/09/2017)

Se dovessimo dare ascolto alle reazioni degli appassionati ad ogni pubblicazione di archivi perduti, i nostri beniamini rock parrebbero una schiera di folli e sadici autolesionisti, che ha fatto apposta per anni a sbagliare le scalette dei dischi ufficiali per lasciare nei cassetti i veri capolavori. Va bene, il Dylan che elimina Blind Willie McTell poco prima di mandare in stampa Infidels o lo Springsteen che lascia fuori da The River ogni ben di dio sono ancora oggi oggetto di stupore, ma in questo caso la questione è diversa. Per capire il valore storico di Hitchhiker senza lasciarsi andare ad esclamazioni inutili come "ma come ha fatto Neil Young a non pubblicare un simile capolavoro!" bisogna ricordarsi cosa stava succedendo nel 1976, anno in cui un Young tormentato e strafatto di birra e cocaina si chiude di notte in uno studio di registrazione di Malibu per registrare un intero album per chitarra e voce.

Disco che la Reprise scartò immediatamente, considerandolo niente di più che una serie di demo, ma che Neil stesso non spinse più di tanto perché già lanciato in nuovi progetti. Entrambi a ragione, dico provocatoriamente, perché se nel 2017 questo album ci pare un mezzo capolavoro, nel 1976 saremmo stati i primi a considerarlo deludente. Saremmo stati sordi? No, semplicemente in quegli anni ci si aspettava qualcosa di diverso dal rock, e soprattutto il concetto che una canzone possa vivere miglior vita in una versione da demo è qualcosa che anche come pubblico abbiamo maturato più tardi, e precisamente nel 1982 grazie a Nebraska di Springsteen. Tuttavia nel 1982 la situazione era diversa: Nebraska reagiva all'eccessiva muscolarizzazione del suono richiesto dalle radio, per cui quello era il miglior modo di fare un disco "contro" negli anni 80, ma nel 1976 il sound generale era quello giusto anche per Young, e non si sentiva affatto la necessità di tornare all'essenziale.

Insomma, Hitchhiker è un must-have, ed è bellissimo come qualsiasi cosa prodotta da Neil Young prima del 1979, ma meno male che esce oggi, perché allora avrebbe potuto anche affossare la sua carriera molto di più di quanto già rischiò di farlo Time Fades Away, perché probabilmente Neil stavolta non avrebbe avuto neanche i fans più stretti a difenderlo. Di fatto al posto di Hitchhiker pubblicherà tre dischi con buona fortuna commerciale e risultati artistici che raggiungono il suo personale apice con Rust Never Sleeps del 1979. Album che infatti nasce proprio dalle ceneri di questo progetto, con una Pocahontas recuperata in questa versione con qualche opportuna sovra-incisione, una Ride My Llama registrata ex novo e decisamente migliorata rispetto alla versione scarna qui presente, e una Powderfinger che ha poi assunto la fisionomia di quella cavalcata elettrica che Young aveva immaginato nelle mani dei Lynyrd Skynyrd, e che si fa comunque apprezzare anche in questa sofferta versione unplugged.

8/10 di questo materiale era comunque già noto, con la sola Captain Kennedy pubblicata esattamente in questa veste su Hawks And Doves, con una The Old Country Waltz fatta al piano che diventerà uno standard country su American Stars 'n Bars, e una Human Highway che nella versione ufficiale di Comes A Time perderà la giusta tensione di questa versione a favore di un country-sound da programmazione radiofonica di Nashville. Hitchhiker stessa poi è un bel brano che Neil ha saccheggiato e riproposto in varie forme (Like An Inca su Trans, Stringman su Unplugged e infine di nuovo come Hitchhiker su Le Noise), mentre Campaigner la conoscevamo già grazie a Decade (anche se tagliata di una strofa). Piuttosto spiace che si sia persa nei cassetti dell'epoca la bella Give Me Strenght, ma un po' meno si piange per Hawaii, che comunque avrei visto bene in stramba versione elettrica da destinare a Re-Ac-Tor.

In quegli anni Young era al top della creatività e lo dimostrano anche i progetti abortiti, che speriamo di poter continuare a recuperare, ma per una volta dimostriamo un po' di fiducia nella sua capacità di prendere decisioni: se ha tenuto questo album nascosto fino ad oggi, c'è un perché.

BILL RYDER-JONES

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