domenica 29 maggio 2011

SUSAN JAMES - High-ways Ghosts Hearts & Home


"Ti prego Mr.Zimmerman, aiutami a scrivere questa canzone, la sbaglio sempre, tu trovi sempre il verso giusto, io esco sempre fuori tempo, ti prego!". Basterebbe la strofa conclusiva del brano Calling Mr Zimmerman per archiviare questo High-ways Ghosts Hearts & Home tra i mille dischi di autori minori in cerca dell'ispirazione dei grandi. Certo, quella invocazione la potrebbe scrivere qualunque cantautore degli ultimi 40 anni, anche quelli di primo livello, ma in questo contesto assume un significato di totale ridimensionamento del songrwritng di Susan James. Lei è una cantautrice che negli anni '90 è andata vicino all'assumere un ruolo importante nella rinascita del cantautorato al femminile, con uno stile che univa un'impostazione country a velleità d'avanguardia (per il secondo album Shocking Pink Banana Seat il Musician Magazine tirò in ballo i Joy Division), tanto che il suo terzo album Fantastic Voyage del 1998 è ancora oggi un coraggioso (era un doppio album) e consigliabile esempio di quel gusto per la sperimentazione e il cross-over di stili tipico di quel decennio.

Da allora la James ha passato il tempo in altre occupazioni, prima di ributtarsi on the road (come ben evidenzia la copertina) assemblando una nuova band formata da Paul Lacques, Paul Marshall e Shawn Nourse degli I See Hawks in LA, il violino di Gabe Witcher dei Punch Brothers e le tastiere di Danny McGough degli Shivaree, e registrando con loro il suo come-back album dopo ben 13 anni di silenzio. Perse per strada tutte le ambizioni sperimentali dei suoi primi album, la James ha voluto invocare la musa Dylan per scrivere 11 brani di struttura classicamente country-rock, forzandosi anche di usare la sua particolare voce in puro country-chick-style, annullando totalmente i particolari vocalizzi che caratterizzavano le sue opere giovanili.

Il risultato è un disco quadrato, fin troppo calligrafico, in cui anche gli episodi migliori (Falling Waltz 2 piacerebbe a Mary Gauthier, Out In The Woods invece cerca Lucinda Williams) hanno sempre l'aria di non avere comunque mai la statura del classico. Niente di male, il disco ha dei bellissimi suoni e la band gira che è una meraviglia, ma l'impressione è che quando si cala in country-ballad di stampo classico come Thank You Tomorrow o Cold Moon On The Highway, la James lo faccia sforzandosi di soffocare la voglia di andare oltre schemi rassicuranti e consolidati. High-ways Ghosts Hearts & Home sta già piacendo al mondo di Nahsville, e non c'è da meravigliarsi, ma l'impressione è che il Dylan a cui si è rivolta sia quello grigio e compassato di Self Portrait, il suo disco più nashvilliano, e che certamente quello che abbiamo in mente noi non avrebbe scritto versi come "un altro mal di cuore che taglia come un vecchio coltellino militare svizzero"..
(Nicola Gervasini)

www.susanjamesmusic.com
www.myspace.com/susanjamesmusic

mercoledì 25 maggio 2011

SLOAN - THE DOUBLE CROSS


Non raggiungono il culto dei Blue Rodeo o dei Tragically Hip, ma fin dal 1991 gli Sloan sono una specie di intoccabile istituzione in Canada. Come spesso succedeva in quegli anni fu proprio il sogno di sfondare negli Stati Uniti che spinse la band fondata da Chris Murphy e Andrew Scott a cercare e ottenere un remunerativo contratto con la Geffen che fruttò al loro album d’esordio (Smeared) un posto nella Billboard americana in piena grunge-invasion. Ma fu proprio la voglia di non confondersi con mondi lontani (non che Seattle sia poi così lontana dal Canada….) che spinse la band a imporre un secondo disco che la Geffen giudicò anti-commerciale e, per ripicca, pubblicò senza promozione. Spin ai tempi scherzò sul fatto nominando quel secondo album (Twice Removed) “Il miglior disco che non avete sentito del 1994”, ma da allora i quattro sono rimasti come tanti confinati nel rassicurante quanto limitato mondo canadese. The Double Cross è il decimo album di una storia all’insegna della coerenza e della stabilità (la formazione è oggi ancora quella degli inizi, fatto tutto sommato straordinario), nonostante le asprezze rumoriste degli esordi si siano ormai perse (qualcuno li descrisse come “i Sonic Youth che suonano i Beatles”), mentre si conferma la voglia di spaziare tra generi diversi a cavallo tra pop inglese (Follow The Leader, Beverly Terrace) e rock classico (la riffatissima Unkind), con punte persino nel sixty-sound (She’s Slowing Down Again e la spettacolare Traces) e nel garage-rock (It’s Plain To See). Una tavolozza variopinta che impedisce un po’ di dare una definizione precisa alla band e che forse i quattro pagano in termini di mancanza di personalità, visto che alla fine è difficile riconoscergli un marchio di fabbrica chiaro come quello ad esempio di band a loro molto simili come gli Spoon. In ogni caso tutti i brani riescono ad entrare bene nelle vesti cucite addosso con lavoro certosino, persino quando scelgono la via della folk-song acustica (Green Gardens, Cold Montreal, che piacerebbe molto a Bruce Cockburn), strani pastiche di Beach Boys e ritmi dance (Your Daddy Will Do) o purissimo power-pop (I’ve Gotta Know). In altre parole, un discreto bigino rock per tutti i gusti.

Nicola Gervasini

domenica 22 maggio 2011

L/O/N/G - American Primitive


Considerando che è in vista anche un’attesa reunion dei Walkabouts, la prolificità artistica di Chris Eckman è ormai senza limiti. Non si ha ancora avuto il tempo di metabolizzare le sue ultime produzioni e di capire davvero la portata innovativa del progetto afro-euro-roots dei Dirtmusic, che eccolo che ce lo ritroviamo di nuovo immerso nei studi Zuma di Lubjana a partorire una nuova creatura chiamata L/O/N/G. La sigla nasconde la sua collaborazione con il compositore austriaco Rupert Huber, personaggio a metà tra musica d’avanguardia, elettronica e classica, che ha ideato una sorta di concept album tutto basato sulla perdita dell’innocenza dell’uomo adulto. Il tutto è infatti concepito secondo l’appiglio filosofico del concetto di “nuova barbarie della riflessione” di Giambattista Vico, filosofo partenopeo che vedeva il progresso come qualcosa di pericoloso se slegato dallo studio della storia dell’uomo (l’unica vera scienza che vale la pena studiare a fondo secondo il suo libro La Scienza Nuova), tanto da identificare nella perdita di memoria storica la vera causa dell’imbarbarimento progressivo dell’uomo e della sua ragione. Un concetto attualissimo visti i tempi, e che Huber ha voluto ricreare nel fatto che anche per l’individuo, la perdita della memoria del nostro essere stati bambini è la vera causa dell’impoverimento umano e della depressione in età adulta. Concetti difficili e ben poco rock, che Eckman ha voluto comunque trasformare in un disco che unisce sia le atmosfere dark dei Dirtmusic (spogliate ovviamente dell’elemento etnico), sia le sperimentazioni mitteleuropee già sentite nel suo precedente The Last Side Of The Mountain. Registrato con una lunga lista di musicisti slavi, American Primitive è un disco non facile, che unisce strumentali d’atmosfera (Longitude Zero) a notevoli brani compiuti (la tilte-track, o la splendida Dust), con momenti vicini alla roots-music americana (Shoot Your Dog) ma anche sperimentazioni elettroniche (ben riuscita in tal senso la ritmata Land Of The Lost o una Shame This Darkness che deve molto a Steve Wynn), mezzi-blues elettronici ricodificati (Stockerau). American primitive è un disco a tratti molto bello anche se di non immediata presa, con qualche passaggio forse troppo cerebrale, ma è anche vero che chi segue Eckman ha ormai abbandonato il concetto di classic-rock da tempo.

Nicola Gervasini

mercoledì 18 maggio 2011

BART DAVENPORT - Searching For Bart Davenport




Bart Davenport
Searching For Bart Davenport
(Tapete Records 2011)




Cercando Bart Davenport potreste trovare un cantautore dolcemente indie e soft che dal 2002, a suo nome o con il progetto degli Honeycut, alimenta l'affollatissimo mondo del new-folk. Cercando bene potreste anche riscoprire i suoi vecchi dischi, giusto per capire il senso di questa sua quinta opera, che trattasi del più classico "tutte le canzoni che avrei voluto scrivere io"-album. Bart infatti spiega nelle note di copertina che questi 12 brani rappresentano i modelli che gli sono stati utili per poter costruire nel tempo il suo personale stile da songwriter. Ce n'è per tutti i gusti quindi, dal memorabile Caetano Veloso di Maria Bethania al Bert Jansch di Ramblin's Gonna Be The Death Of Me, classici degli anni 60 come Wonder People (I Wonder) dei Love o You Get Brighter della Incredible String Band (è Mike Heron il suo vero eroe ci confessa), fino a omaggi recenti come Cayman Islands dei Kings Of Convenience. Il pregio di questo disco, nella sua totale inutilità storica, è quello di unire generazioni ed ere musicali diverse (passiamo da Jackson C Frank a David Byrne fino a Broadcast e Gil Scott-Heron senza colpo ferire) riuscendo ad amalgamarle in un lavoro unitario e piacevole. Di più non si poteva chiedere al millesimo cover-record di questo millennio
(Nicola Gervasini)


www.bartdavenport.com

lunedì 16 maggio 2011

BRUCE COCKBURN - Small Source Of Comfort


Comincia a tirare aria di casa anche nei dischi del più indomito viaggiatore della musica folk, una voglia di cercare quella "piccola fonte di comfort" che la vita da reporter mondiale della sei corde forse non gli ha mai riservato. Small Source Of Comfort è di fatto il primo album di Bruce Cockburn che non dà più l'idea di movimento perpetuo, di continua ricerca musicale, di eterna odissea nelle piaghe del mondo. L'abitudine di documentare data e luogo di scrittura dei brani continua sempre, ma stavolta il clima generale è quello di un salotto di casa, di un uomo in pantofole, di un sospiro di sollievo serale dopo una giornata intensa. Mancava nella discografia di Cockburn un disco del genere, e forse già questo basta a renderlo necessario, visto che già qualche sperimentazione di You've Never Seen Everything del 2003 scricchiolava e Life Short Call Now del 2006 dava l'impressione che il navigante avesse perso un po' la bussola.

Fedele alla tradizione che vuole molte delle copertine dei dischi di Cockburn aberranti per grafica e stile, Small Source Of Comfort è una raccolta di brani molto brevi, non presenta ad esempio quei suoi tipici lunghi reportage parlati alla Postcards From Cambodia, ma cerca la via di melodie semplici e immediate come The Iris Of The Worldo Call Me Rose (satira politica che s'immagina un Richard Nixon divenuto donna per riabilitarsi), quasi delle pop-songs più in linea con la sua produzione anni 80 che con le sue opere più recenti. E soprattutto è forse il disco dove più che in altre occasioni regna la sua chitarra acustica, incontrastata, con rarissimi momenti in cui prende il sopravvento l'elettricità (accade nella bella e bluesata Five Fifty-One). E' anche l'album dove i testi finiscono spesso in secondo piano (Boundless però è notevole in tal senso), dove su 14 brani, ben 5 sono strumentali, e state pur certi che se si dovesse tagliare il repertorio non sarebbero certo quelli a cui rinuncereste, quanto magari a qualche inevitabile episodio minore (la faticosa Each One Lost ad esempio).

Il bellissimo arpeggio in fingerpicking di Bohemian 3-step, il divertente balletto con lo splendido violino di Jenny Scheinman di Lois On The Autobahn e ancor più della trascinante Comets Of Kandahar, o le atmosfere nordiche diParnassius And Fog e Ancestors, sono proprio in questi titoli senza testi il meglio di questo lotto, il segno forse che ormai uno dei nostri cantastorie preferiti parla meglio in silenzio e muovendo solo le dita. Non è un disco importante Small Source Of Confort, è semplicemente il miglior modo di raccontare la voglia di godersi la propria solitudine, un isolamento che, secondo quanto dichiarato nelle note dell'album, avrebbe dovuto dar luce ad un album elettrico e pieno di rumore alla Le Noise di Neil Young, e che invece si è trasformato in una specie di ritorno al soft-sound dei suoi primissimi album. E forse è andata meglio così.
(Nicola Gervasini)

sabato 14 maggio 2011

WADE LASHLEY - Come On Sundown


La copertina del precedente capitolo della storia di Wade Lashley (il deliziosoSomeone Take The Wheel) mostrava una strada che mirava al più classico degli orizzonti a perdere degli Stati Uniti, ma non era dato sapere con quale mezzo la si stesse percorrendo. Sulla destinazione però non c'erano dubbi: il viaggio volgeva al sud, così come dichiarato dal brano di apertura del disco (Turn Around South Bound), ma anche da uno stile che pagava il pegno al più classico roots-rock di marca texana. Come On Sundown, poco più di due anni dopo, ci svela finalmente che a viaggiare sulle highways americane è un vero bisonte della strada guidato da un vero cowboy moderno, ma che il viaggio nel frattempo ha seguito una decisa svolta verso Nashville, in Tennessee. Ne sta facendo davvero parecchia di strada il nostro Wade, autore originario dell'Indiana che ha deciso tardi di concedersi una carriera da songwriter indipendente, ma che ora sembra proprio stia recuperando il tempo perduto.

Nonostante il taglio decisamente più country-oriented del predecessore, Come On Sundown appare fin dai primi ascolti come un opera più personale, in cui il suo vocione baritonale comincia ad assumere lo status di inconfondibile marchio di fabbrica, e soprattutto si nota un'ulteriore maturazione in sede di scrittura. Lashley non è uomo da grandi sorprese, il suo pregio maggiore è quello di non voler mai strafare, di non uscire mai dalle righe, e questo suo essere stilisticamente rassicurante suona paradossalmente non come un difetto, ma come la ragione dell'irresistibile appeal di queste 10 semplici canzoni. Ben prodotto insieme a Jeff Lushby, registrato con i fidi Brad Bays (chitarre e mandolini), Keith Gomora (basso) e Ethan Rea (batteria), e impreziosito dagli interventi della fisarmonica di Mike Seitz e la pedal steel di John Reuter, l'album alterna bene momenti riflessivi (la partenza di Virginia Take Your Leave è decisamente malinconica, The Reasons Why un'altra ballatona assai ispirata) ad altri più elettrici (Hands Of Time potrebbe comparire anche su un disco di Shooter Jennings, Cross The Wire torna per un attimo a scavare nella roots-music di Austin).

E' con Mountain Moonlight Song che Lashley mischia bene arte del songwriting e tradizione country, ma è con Too Far Gone che tira fuori l'asso dalla manica con un brano melodicamente perfetto. A partire da qui si torna a sud, lo stile si fa leggermente più southern-rock, e non è difficile immaginarsi la voce di un membro della famiglia Van Zant cantare una Ricochet o una Determined Man, prima di chiudere con una title-track che sa di West-Coast anni 70 e una Wings To Fly che potrebbe venire dal repertorio di Johnny Cash. Come On Sundown non rivoluziona nulla, è semplicemente un bel road-record che può stazionare nella vostra macchina a lungo. Astenersi amanti della vita sedentaria e rockers malati della sperimentazione a tutti i costi.
(Nicola Gervasini)

www.wadelashley.com
www.myspace.com/wadelashley

martedì 10 maggio 2011

ELIZABETH COOK - Welder


Negli States Elizabeth Cook ha fatto molto parlare di sé nel 2010 con questo Welder (suo quinto album), noi invece spendiamo poche parole solo ora. E' solo che davanti ad un menu che prevede la produzione di Don Was (il recente disco di Lucinda Williams ha reso bene l'idea di quale valore aggiunto possa essere la sua presenza), una band di super-session-men di Nashville (spicca la sei corde di Tim Carroll), e le partecipazioni straordinarie di tre icone della country music che conta (e ci piace) come Rodney Crowell, Buddy Miller e Dwight Yoakam, c'era da aspettarsi perlomeno un disco importante. Invece dietro le belle e lunghe gambe sapientemente sfoggiate nelle foto del libretto, dietro una produzione impeccabile ma priva di qualsivoglia slancio creativo (o forse dobbiamo considerare tale il country-rap di El Camino?), dietro bar-songs come Yes To Booty che sembrano cantate da una country-chick che al massimo si ubriaca con la Coca-cola, dietro ben 14 brani che servono solo ad evidenziare le poche doti espressive della voce della Cook, Welder ha poco da offrire se non una minestrina country più che riscaldata. Ecco, l'abbiamo detto.(Nicola Gervasini)

www.elizabeth-cook.com

lunedì 9 maggio 2011

PAT ANDERSON - Magnolia Road


Pat Anderson
Magnolia Road
[Cross Country Record 2011]



Ogni tanto ci vuole un Pat Anderson "qualsiasi" che esordisce ancora in pieno 2010 con il più classico dei roots-record, uno dei mille cantautori a metà strada tra rock blue-collar e country di Nashville. Ci vuole perché, se è vero che sul campo le idee nuove sono finite da tempo e i clichès sono inossidabili e cementificati, è pur vero che avere qualche forza fresca fa sempre bene alla causa. Pat Anderson a Nashville ci è arrivato come tanti per cercare fortuna e audience, ma lui è un vero Okie (originario dell'Oklahoma) che ha girato l'America prima di trovare l'occasione giusta. Prendete dunque Magnolia Road per quello che è, il disco che farebbe Chris Knight se decidesse di ingentilire il suo sound, e neanche poi troppo, visto che qui a rockeggiare il sound ci pensa il prode guitar man Will Kimbrough, una garanzia di produzione professionale lui stesso, così come tutti i validi comprimari coinvolti nel disco (Nick Buda alla batteria, l'ex-Jayhawks e Last Train Home Jen Gunderman alle tastiere, Tim Marks al basso e Rob McNelley all'altra chitarra). Va sottolineata inoltre la produzione dell'esperto Chad Carlson, uno che sul caminetto ha un Grammy vinto per i servigi tecnici offerti a Taylor Swift, giusto per capire da dove viene questo suono così pieno, pulito e perfettino, forse penalizzante negli episodi più da bar come Six Spent Shells, che magari avrebbero avuto ben altro impatto con un minimo di sana improvvisazione in più.

Ma è innegabile che Magnolia Road sia uno di quei casi in cui l'artista risalta soprattutto grazie ad una produzione di primo livello, perché prese singolarmente le composizioni di Anderson hanno dalla loro la tipica potenza lirica delle opere prime, ma contro anche una mancanza di evidenziabili spunti personali. Lui stesso dichiara di aver voluto seguire la tradizione folk nei racconti da puro heartland rock di Bullit County Cage (con la sua storia in pure stile Nebraska) o della coinvolgente Martinsville. Per il resto i trucchi sono soliti, tra mid-tempo buoni per viaggi in macchina (Follow Me Down, The Hometown Blues) che sono quel genere di buone canzoni al limite dell'FM sound che ad un Jack Ingram non riescono più così da tanto bene.

Quando il ragazzo si butta sulla ballad il feeling è quello giusto, ma affiorano inesorabili i limiti in fase di composizione (She's The One, la stessa Magnolia Road), e non convince al 100% anche il singolare tentativo di trasformare l'hit springsteeniana Dancing In The Dark in un country-folk da crocicchio di strade, non tanto per colpa del brano (che ha comunque un testo oscuro quanto basta per diventare un mezzo-blues), quanto perché l'interpretazione finisce per tradire un eccessivo formalismo. In ogni caso, se siete costretti a laboriose cernite tra i mille losers solitari di Nashville, Pat Anderson potrebbe stare nella schiera di quelli da prendere in considerazione.
(Nicola Gervasini)

www.patandersonmusic.com

giovedì 5 maggio 2011

NEXT STOP IS VIETNAM....



Autori Vari
…Next Stop is Vietnam 1961-2008
[Bear Family - Box 13CD 2010]



Il Vietnam, la guerra nel Vietnam, intesa come un unico immaginario, costruito e diramatosi nel conflitto e allargatosi fino a stravolgere la natura stessa dello spirito americano, del "destino manifesto", piuttosto che dei miti della frontiera è il nucleo originario da snocciolare se si vuole capire tutta l'evoluzione di una cultura (americana, e non solo; dell'informazione, e non solo) da allora a oggi. E' qui che …Next Stop is Vietnam 1961-2008, poderoso cofanetto della Bear Family, centra il bersaglio: parte, sì, dalla musica (sentita, prodotta o riferita a quegli eventi storici) ma si allarga a ricostruire tutta l'iconografia della guerra del Vietnam. Lo spettro comprende anche i discorsi ufficiali (in brevi e significative sintesi, per fortuna), riviste (dell'esercito e contro), locandine cinematografiche, memorabilia d'autore e paccotiglia propagandistica. Tutto nella prima metà cartacea (elegantissima, accurata), mentre in quella digitale (13 dischi) c'è tutta la storia attraverso le canzoni, da Masters Of War di Bob Dylan a Galvenston Bay di Bruce Sprigsteen (giusto per citarne un paio).

In una delle numerose note, Samuel G. Fredman scrive che il Vietnam "è stata la prima guerra ad avere una colonna sonora rock'n'roll". Il punto di vista è persino riduttivo: la cronaca del conflitto associando televisione e rock'n'roll diventò un incubo lungo dieci anni, e mai dimenticato, come racconta con una certa eloquenza …Next Stop is Vietnam 1961-2008 perché tutto era destinato a diventare un simbolo, un linguaggio, un luogo comune. Dai nomi delle operazioni militari (Rolling Thunder, solo per ricordare la più esplicita) a Bob Hope sui palchi delle forze speciali, dagli Zippo (esiste un bellissimo libro, molto pop, dedicato alla vita degli accendini nelle zone di guerra) ai graffiti sugli elmetti, per non parlare poi della creatività, abbastanza nota, del movimento contro la guerra.

Tutto quello che c'è da sentire, qui dentro risponde all'appello (manca Ohio di Neil Young, ma i curatori si scusano per non essere riusciti a ottenere i diritti, e questa la dice lunga sulla loro dedizione). Da leggere c'è solo l'imbarazzo della scelta, anche se un'occhiata a Rolling Vietnam è sempre obbligatoria. Da vedere, per capire cos'è stato il Vietnam e cos'è la guerra, basta Apocalypse Now. Lo spirito con cui è stato assemblato …Next Stop is Vietnam 1961-2008 è quello. Un oggetto "culturale" di rilevanza indiscutibile e anche una pietra miliare nelle produzioni discografiche degli ultimi anni.
(Marco Denti)

Tutti i dettagli di …Next Stop is Vietnam 1961-2008:
www.bear-family.de



Saigon State Of Mind
(a cura di Nicola Gervasini)

Una milanese di origini vietnamite mi raccontava che l'impressione che si ha viaggiando per il Vietnam nei giorni nostri è che tutto ciò che riguarda la guerra con gli americani sia stato in qualche modo cancellato e rimosso. La popolazione è oggi anagraficamente molto giovane, e nessuno pare aver voglia di guardarsi alle spalle. Anche perché - secondo lei - la vera guerra che nessuno ha voglia di riesumare non è stata quella con gli yankee invasori, quanto quella fratricida tra nord e sud, che ha vissuto proprio nel momento della dipartita degli americani il momento più tragico e truce, quando venne il tempo delle vendette personali e dei conti da saldare. Nella cultura statunitense invece la parola Vietnam continua a risvegliare sempre nuovi fantasmi. La ferita è talmente aperta, che un cofanetto di canzoni dedicate ad un avvenimento storico ufficialmente concluso nel 1975 può permettersi di spingersi fino al 2008 nel trovare nuove testimonianze in musica. Ed è solo perché bisognava trovare un limite che si sono fermati, perché poi a ben guardare qualsiasi canzone sulla guerra scritta in America negli ultimi quarant'anni, pensa a quella guerra. Willie Nile ad esempio ha confessato che il brano Now That The War Is Over, contenuto nel suo House Of Thousand Guitars del 2009, è stato scritto con il pensiero agli anni 70 e a quel conflitto, ma all'ultimo momento ha sostituito la parola "Vietnam" con "Pakistan" per renderlo più attuale. Scrupolo inutile probabilmente, perché poi a ben guardare di canzoni che pensano al Vietnam continuano ad uscirne più che di ogni altro scenario bellico odierno, forse perché è ancora presto per misurare l'impatto che gli avvenimenti più recenti hanno avuto sulla nostra vita, come invece ha potuto fare il Tom Russell di East Of Woodstock, West Of Viet Nam (brano del recente album Blood and Candle Smoke), in cui il vecchio cantastorie ricorda gli anni della perdita del suo "cuore adolescente" legandoli proprio a quegli avvenimenti. Ma non sono solo i rocker anziani a ragionare sempre in termini di Vietnam: Elvis Perkins nella sua Emile's Vietnam In The Sky(era su Ash Wednesday del 2007) si spinge a citare una frase di sua madre ("sai dove si va quando si muore?") pronunciata dalla sfortunata pochi giorni prima di morire davvero su uno degli aerei dell'11 settembre 2001, ma la immerge storicamente nella cupa atmosfera del Vietnam del periodo coloniale e della guerra di Indocina. E proprio la tragedia delle Torri Gemelle ha evidenziato quanto la guerra del Vietnam sia stata la vera svolta cruciale nella storia americana, perché invece di sostituirsi come shock culturale preponderante, ne ha rianimato l'interesse e le citazioni, come se anche il lutto nazionale dell'11 settembre potesse essere elaborato solo ripercorrendo il sentiero di Ho Chi Minh ancora un volta. Per dirla come l'avrebbe detta Billy Joel dunque, il Vietnam è uno stato della mente, neanche più un fatto storico. Di libri e cofanetti che raccontano come il rock e il Vietnam vivano sempre in perfetta simbiosi potremo leggerne ed ascoltarne ancora a lungo, forse fino a quando un'altra potenza egemone, un'altra cultura dominante, o un altro tipo di arte pregna della fresca carica comunicativa che fu del rock di quarant'anni fa, non troveranno un loro Vietnam.


Nicola Gervasini - Rolling Vietnam. Radiografia di una guerra (Pacini editore)
Lo speciale su Rolling Vietnam:
www.rootshighway.it/rolling.htm


compralo dall'autore

scrivi a n.gervasini@tin.it e richiedi la copia autografata senza spese di spedizione aggiunte!

martedì 3 maggio 2011

SOCIAL DISTORTION - Hard Times and Nursery Rhymes

Social Distortion

Sono sulla breccia da più di trent’anni i Social Distortion, e mai come oggi la loro sigla così palesemente “punk” appare del tutto fuorviante visti i contenuti del loro ultimo album Hard Times and Nursery Rhymes (Epitaph). Secondo il vecchio detto che chi nasce incendiario muore pompiere, il loro sound selvaggio degli esordi si è via via trasformato in un quadrato rock and roll stradaiolo, che a qualcuno potrà sembrare persino stereotipato e mainstream. Nessuna distorsione sociale dunque in queste canzoni, ma anzi tanto reazionario amore per la tradizione americana, il parto scaturito da dosi massicce di Hank Williams e Johnny Cash, o del blue-collar rock alla Bruce Springsteen. Maestosi cori femminili, brani che superano i sei minuti, cambi di ritmo: dell’essenzialità del punk non è rimasto quasi nulla, se non fortunatamente le chitarre graffianti e l’urgenza di raccontare l’America contemporanea della nuova depressione. Se davvero – come dice Saviano - la vera rivoluzione di oggi consiste nel fare bene il proprio lavoro, è la qualità e non la rabbia che rende oggi Mike Ness e compagni una vera bomba contro questi “hard times”.

Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...