lunedì 27 luglio 2015

BROWN BIRD

BROWN BIRD
AXIS MUNDI
Supply & Demand
***
Nel cantautorato di marca folk/roots due sono le vie oggigiorno: o seguire la linea di songwriting classica del rock americano da Dylan in giù, oppure assumere un atteggiamento più dimesso, “indie” si dice ormai da almeno vent’anni, decisamente più “british” nel suo essere solo apparentemente fuori dagli schemi. Perché poi ad uno schema risponde anche l’arte dei Brown Bird, duo indie-folk formato da David Lamb (barba d’ordinanza, voce alla Sam Beam, aria timido-depressa come da manuale) e la bassista/violoncellista/violinista MorganEve Swain (bellezza dimessa, non volgare, nascosta…sempre come da manuale). Duo attivo fin dal 2007 con una disordinata discografia tra ep e album interi (anche questo aspetto risponde ad un preciso canovaccio alla Will Oldham e compari), pubblicano con questo Axis Mundi la loro opera finale, visto che Lamb si è spento alla fine dello scorso anno per una leucemia, lasciando alla Swain la difficile decisione su come continuare la carriera. Un po’ come è stato The Wind di Warren Zevon, Axis Mundi è dunque un disco registrato da un artista conscio di eseguire il proprio canto del cigno, e questo lo rende già emotivamente pregnante e significativo. Ma la fretta di chiuderlo (o forse, visto quanto molti di questi brani suonino abbozzati, non è in verità stato finito) ha forse portato a pubblicare un’opera interessante quanto contraddittoria. I riferimenti più evidenti, oltre a quelli citati dei mostri dell’indie-folk dell’ultimo ventennio, potrebbe comprendere anche Syd Barrett (quanti Pink Floyd si sentono in Forest and Fevers?), vuoi anche per quell’amore dell’arrangiamento scarno e zoppicante che molti brani mantengono. I due di fatto hanno fatto tutto da soli in casa, senza altri session-man, ed è un peccato forse, perché qua e là in una scaletta di ben quindici titoli si ravvisano non pochi embrioni di ottime canzoni (Focus, Adolescence, Ephrain). Ma in mezzo troviamo anche troppe idee già note e sentite meglio sviluppate da altri (Iron & Wine su tutti qui direi), e quell’aria di disco casalingo che forse è ora di lasciarsi un po’ alle spalle, dopo che tanto ha contribuito a salvare la musica folk nei tempi di crisi dei primi anni duemila. Non c’era tempo probabilmente, o Lamb invece davvero cercava il proprio Pink Moon prima di lasciarci, in ogni caso questo testamento lascia una eredità monca, e la morte del protagonista ha impedito che la sigla Brown Bird potesse maturare in qualcosa di veramente importante per i prossimi anni. Peccato, in ogni caso.

Nicola Gervasini

mercoledì 22 luglio 2015

SAM LEWIS

SAM LEWIS
WAITING ON YOU
Brash Music
***1/2
Il suo nome è un po’ ordinario e sarà difficile tenerlo a mente o distinguerlo (banalmente, anche ricercare informazioni nel web appare impresa alquanto difficoltosa visti i tanti casi di omonimia in cui si incappa), ma Sam Lewis, musicista attivo da anni a Nashville al secondo album solista in carriera dopo il debutto omonimo del 2012, è uno da cominciare a tenere d’occhio. Nulla di nuovo: il suo è un mix di voce da cantautore roots classico (molto simile a quella di Amos Lee direi), un approccio alla roots-music pieno di ritmi (il gospel caraibico dell’iniziale ¾ Time ricorda il miglior Brett Dennen) e molto soul nella musica (Love Me Again potrebbe essere una ballata di Van Morrison). Registrato a Nashville con qualche nome noto in session (Darrell Scott, Will Kimborough, la Wood Family ai cori), Waiting On You è il classico album senza sbavature, che scorre senza intoppi da capo a fine, con una serie di brani in stile tradizionale ben scritti e ancora più finemente arrangiati. Lewis è un amante delle ballate romantiche e intense, siano esse di marca black/soul (la title-track) o anche country (She’s a Friend, materia che un Willie Nelson in versione malinconica troverebbe irresistibile). Ma il menu offre anche momenti di svago, come la lunga cavalcata dylaniana di Things Will Never Be The Same, divertissement che introduce alla bellissima Talk To Me, sospesa a metà tra il Ray Lamontagne più ispirato e l’innegabile peso della lezione di Van Morrison. Reinventing The Blues è invece un episodio più ordinario, canzonetta in dodici battute che serve ad alleggerire i toni di un album emotivamente molto intenso, prima di arrivare al gospel-country di Never Again (inconfondibile qui il tocco di Darrell Scott), ad una Texas che ha antichi sapori da outlaw-country degli anni settanta, così come Little Time sembra un brano di Jesse Winchester. Finale importante con l’acustica Virginia Avenue, tripudio di dobro e slide per una malinconica ballata di pregevole fattura, ma apoteosi finale con la corale I’m Coming Home, davvero riuscito finale che potrebbe richiamare mille nomi (mi torna in mente il primissimo Kris Kristofferson o John Prine anche), ma che alla fine evidenzia come, seppur nel suo stile per nulla originale, Sam Lewis è uno che ci sa fare. Non aspettatevi rivoluzioni, quanto piacevoli e sempre ben accolte conferme.

lunedì 6 luglio 2015

SUGARCANE JANE

SUGARCANE JANE
DIRT ROAD’S END
ArenA recordings
***
Non muore mai l’abitudine del duo di coniugi folk nella tradizione americana, e così non è certo nuova la formula dei Sugarcane Jane, coppia di musicisti che si presenta romanticamente mano nella mano fin dalla copertina di questo Dirt Road’s End. Lui è Anthony Crawford, session man che i fans di Neil Young ricorderanno come membro degli Shocking Pinks (con cui Young ha registrato Everybody’s Rockin’) e negli International Harvesters (la band che lo spalleggiò nel tour per Old Ways, apprezzabili nel bel live A Treasure uscito nel 2011), oltre che collaboratore di Dwight Yoakam (grazie al quale ha pubblicato nel 1993 un suo album solista prodotto da Pete Anderson), Steve Winwood e Nicolette Larson. Lei invece è Savana Lee, giovane buskers senza grandi esperienze finché un tour a spalla di Loretta Lynn e tanta vita da musicista di strada non le hanno aperto le porte degli studi di Nashville come autrice e musicista nei dischi, tra gli altri, di Lucinda Williams e Emmylou Harris. Due figure fortemente legate a Nashville e alla country music, che sotto il nickname di Sugarcane Jane offrono però un country-folk da strada che ricorda molto i momenti più rurali dei Bodeans (sarà per la somiglianza della voce di Crawford con quella di Sam Llanas). Dirt Road’s End (che è già il loro quarto titolo) è un disco che, nonostante l’assenza di batteria (ma ci sono mille percussioni di ogni altro tipo), è un album molto ritmato, gioioso e quasi da ballare. Sia l’indiavolato rock acustico di Heartbreak Road o la cavalcata da bisonte della strada di Not Another Truck Song, le canzoni del duo sono perfettamente coerenti con l’immaginario da strada che ha fatto da cornice alla loro carriera, capaci di lanciarsi in country corali alla Gram Parsons come Sugar o in baldanzose gighe folk da festa paesana come Ballad Of Sugar Jane. Ci sanno fare anche con la penna (Home Nights, San Andreas), anche se a livello produttivo il clima decisamente da instant-record fa perdere un po’ i dettagli, e il muro di acustiche, mandolini e mille altri strumenti acustici a volte pare un po’ confuso  e non sempre ben amalgamato, ma pare evidente l’intenzione di ricreare in studio il clima e il suono di una esibizione di piazza. Disco fresco sebbene legato senza troppi voli di fantasia ad una tradizione consolidata. Solo per veri viaggiatori.

Nicola Gervasini

mercoledì 1 luglio 2015

MANDOLIN ORANGE

MANDOLIN ORANGE
SUCH JUBILEE
Yep Roc.
*** 1/2

Storie di raccolti, montagne rocciose, miniere abbandonate, amori impossibili da maturare nella vita desolata della provincia americana. Esiste ancora questo immaginario semplicemente perché l’America non ha mai smesso di avere angoli in cui il tempo si è fermato da almeno un secolo, fuori dalle coordinate del grande correre degli Stati Uniti di Obama per non perdere il ruolo egemone che la storia gli aveva assegnato nel ventesimo secolo. E se esiste ancora quell’America, normale che esistano e nascano ancora  band come i Mandolin Orange, nome quanto mai esplicativo sulla direzione della loro musica. Duo formato da Emily Frantz e Andrew Marlin, vengono dal North Carolina e hanno all’attivo già quattro album prima di questo Such Jubilee, secondo disco decisamente americana-oriented edito per la Yep Roc.. Musicalmente non è niente che già non si era sentito dalle band dell’alternative country anni 90, o, se vogliamo, potremmo presentarli come una versione meno lugubre e più melodica della Handsome Family, capaci di portare in cascina brani di struttura tradizionale come Old Ties and Companions, ma anche ottime prove d’autore come l’acustica Rounder. Unico membro aggiunto in session è Josh Olivier (che aggiunge voci, chitarre e wurlitzer qua e là), per il resto il disco è completamente autoprodotto dal duo, ormai capace di dimostrare piena maturità anche nell’amalgamare le tante chitarre acustiche con il violino della Frantz (bellissima, in questo senso, From Now On). L’album comunque ha un tono decisamente dimesso e crepuscolare, permeato da una grande malinconia che traspare anche dai testi, intrisi di tutti quei fantasmi che una provincia in crisi (umana, ancora prima che economica) si portano ancora appresso. La vita è altrove sembra dire un brano come Jump Mountain Blues, vero inno all’impossibilità di trovare la felicità tra le rocce desolate del North Carolina (“adesso ogni pensiero di te è solo un piccolo ricordo di tutti i miei rimpianti, se solo tu avessi conosciuto la vera felicità, probabilmente ci sarebbe un fantasma in meno che si aggira come un bambino perduto in queste colline di Rockbridge County”), o un titolo già di per sé esemplificativo di ciò che rimane come Blue Ruins. All’economia del disco manca forse il momento di respiro in mezzo a tanta mestizia, ma è palese che non era nelle intenzioni del duo dare un attimo di tregua: gli Stati Uniti inseguono la Cina, la Russia, il mondo Arabo, e intanto si stanno dimenticando dei luoghi che hanno fatto la loro storia. E resta solo questa musica a ricordarli.
Nicola Gervasini

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...