giovedì 25 ottobre 2012

PETER BRODERICK


PETER BRODERICK

THESE WALLS OF MINE

Erased Tapes/Self

***


Se siete dei cultori della musica indie europea (“intenditore” è troppo vista la mole di materiale che circola nel genere) non vi saranno sfuggiti a suo tempo i dischi degli Efterklang, band danese molto apprezzata anche negli Stati Uniti. Tra i musicisti che si sono uniti alla loro epopea sia in studio che live c’è anche Peter Broderick, violinista dell’Oregon trapiantato a Berlino (ha suonato anche con M Ward) che da qualche anno ha intrapreso anche una nutritissima carriera solista sotto l’egida della Bella Union, etichetta specializzata nel dare voce agli artisti più originali e sperimentali dei nostri anni. Ma che nel caso di These Walls Of Mine deve essersi tirata indietro, se è vero che questa “Esplorazione dal gospel al soul attraverso il parlato, il rap e il beatboxing” (che, per la cronaca, è l’imitazione delle percussioni fatta con la voce tipica dei rapper da strada) esce per le vie ancor più indipendenti della Erased Tapes. Un esperimento folle in effetti questo album, tanto da apparire persino affascinante e curiosamente ascoltabile. Come recitano le note di copertina: “non ho ancora deciso de These Walls Of Mine è genio o solo sregolatezza. Mi sconvolge alquanto, ma è anche maledettamente piacevole” . Registrato praticamente in solitaria nel corso di tre anni di tournee tra Copenahghen e Berlino, i dieci brani che lo compongono hanno la particolarità di avere testi di varia provenienza della vita di tutti i giorni, come ad esempio quelli di Freyr! o I Do This, dove Broderick si limita a recitare/cantare le parole di alcune email su basi folk. La vita quotidiana entra nella musica, come un unico social network, o per dirla con le parole di una delle mail recitate, “Ascoltare una canzone è come caricare una foto su Flickr, scegliersi una maglietta per uscire, parlare con qualcuno, guardarlo”. L’arte diventa il nostro quotidiano, roba da fare orrore a chiunque si sia detto “artista” con la A maiuscola nel novecento, ma che oggi appare quantomai attuale in un era in cui davvero ascoltare musica non è più considerato un fatto straordinario. E forse questo album, pieno di provocazioni ma anche di buone canzoni (la title track ad esempio), potrebbe essere ricordato come un precursore di una nuova via di fare musica dalla propria camera, con il proprio pc. E, fortunatamente, ancora con i propri strumenti musicali.
Nicola Gervasini

martedì 23 ottobre 2012

MARRY WATERSON E OLIVER KNIGHT


MARRY WATERSON E OLIVER KNIGHT

HIDDEN

One Little ndian/Self

***1/2


A chi si è distratto e pensa che il brit-folk abbia esaurito le sue cartucce prima del 1975, ci sarebbe da far notare come gli anni duemila hanno visto regnare i suoi schemi base, sia a livello indipendente che spesso di grande produzione. E che oltretutto i confini del genere sono stati decisamente larghi, con gruppi statunitensi come Vetiver, Midlake o gli Espers intenti a diffondere il verbo. Certo: oggi è riveduto, corretto, rinnovato, ma anche sul terreno più “classic” le Unthanks ad esempio hanno riscontrato successi e consensi insperati. Alla rinascita dell’ala più oltranzista del genere partecipano sicuramente anche Marry Waterson e Oliver Knight, fratelli (a dispetto del cognome diverso) e figli d’arte (i Watersons sono una famiglia mito del brit-folk, soprattutto la vocalist Lil Waterson). Già notati da molti con il disco d’esordio del 2011 The Days That Shaped Me, il duo confeziona con Hidden un album che ha davvero tute le carte in regola per piacere anche al di fuori dagli ambienti più reazionari del folk. Registrato con l’aiuto di musicisti di settore (ma non solo, vista la presenza del batterista Pete Flood dei Bellowhead e il polistrumentista Reuben Taylor degli Athletes), Hidden ha un bel suono fresco e brillante nonostante le atmosfere autunnali dei brani. Basta ascoltare l’iniziale I’m in a Mood , splendida folk-pop-song alla Aimee Mann, l’indolenza freak di Going, Going, Gone (non è quella di Dylan per la cronaca), il lavoro alla Richard Thompson dell’elettrica di Oliver in Gormandizer. Inizio scoppiettante che ben dispone anche per una parte centrale dove, calato l’effetto sorpresa, si rientra nei ranghi della normalità con brani come I Won’t hear e Scarlet Starlet, prima di arrivare alle complicate e raffinate trame piano-voci di Professional Confessionals. Atmosfere fosche (Russian Dolls) , spesso anche cupe (Sustained Notes), ma anche una buona capacità di trovare la melodia ariosa fanno di Hiddden una raccolta perfettamente equilibrata anche se timida (nascosta appunta) nel suo non voler mai alzare i toni o provare il colpo spettacolare. Lo sarebbe la finale Starveling, pezzo davvero straordinario, ma come tutti i gran finali è riservato solo chi possiede pazienza, sensibilità e una stanza di ascolto silenziosa per poter apprezzare appieno questo album.
Nicola Gervasini



giovedì 18 ottobre 2012

MATT WALDON - Oktober


 Matt Waldon Oktober[Arkham  2012] 

www.mattwaldon.com


 File Under: singer-songwriter


di Nicola Gervasini (24/09/2012)

Seguiamo già da qualche tempo le gesta del giovane storyteller rodigino Matt Waldon, nome ormai non più nuovo della folta scena degli AmericanMusic-lovers italiani. Scoperto prima con i Miningtown, sorta di remake in salsa veneta dei Whiskeytown, e poi da solo con l'ep Amnesia, Matt Waldon (che altro non è che la versione "rootsata" del suo vero nome) prova il gran salto conOktober, album annunciato in rete con certosina costanza già da qualche mese (qualcuno gli dia una laurea ad honorem in Web and Social Network Marketing). Album breve ed essenziale nonostante i tanti ospiti, Oktober continua a prediligere le tinte oscure fin dalla copertina e l'immagine sempre un po' accigliata del padrone di casa.

Dopo l'interlocutorio strumentale Like A Secret ,si parte forte con Dirty Roads, incisiva car-song impreziosita dal controcanto di Reto Burrell che fa da apripista al giro di piano di I Know, bella ballad impreziosita dall'ugola dolce della parigina Paloma Gil. Lo spettro di Ryan Adams, padre spirituale di Matt fin dagli esordi, affiora prepotente in Born To Be Alone, e non solo perché tra le frequenze si aggira la voce di quella Caitlin Cary che può ben dire "Io c'ero" in quel 1997 quando i Whiskeytown incisero il loro capolavoro Strangers Almanac. Forse conscio di non avere grandi mezzi vocali per alzare troppo toni e volumi, Matt si spinge al massimo fino al bel mid-tempo rock della title-track (qui l'ospite, oltre alla Cary che rispolvera il suo mitico violino, è l'amico Cesare Carugi, uno che come lui nel 1997 Strangers Almanac se lo divorava quotidianamente), oppure cerca di alzare il ritmo con la latineggiante Promises (siamo dalle parti di The Sadness del Ryan Adams di 29). C'è giusto il tempo di tirare il fiato con il coinvolgente bozzetto acustico di Nasty Mind prima di arrivare a Sad Song, brano che vanta la presenza della chitarra di Kevin Salem, e qui il "vanta" è valido proprio solo per chi, come noi e lui, tanti anni fa ha amato i pochi dischi di questo sfortunato chitarrista con l'orgoglio di chi sa che il mondo si sta perdendo qualcosa di grande.

Il brano rockeggia quanto basta senza scadere troppo nel mainstream e prepara il campo al finale di Can You Feel The Silence e della tenue Will, brano scelto come singolo per commentare un malinconico video girato da Federico Temporin. Probabilmente neppure negli States si fanno più dischi così (a parte qualche reduce che non manchiamo mai di scovare), follemente innamorati di una way of music appartenente perlomeno a due decenni fa, ma che proprio l'Italia faccia da capofila di una rinascita (o se preferite una semplice conservazione) della filosofia del root-songwriter è in fondo motivo di orgoglio.




martedì 16 ottobre 2012

PATTERSON HOOD - Heat Lightning Rumbles in the Distance


 Patterson Hood Heat Lightning Rumbles in the Distance
[
ATO 
2012]
www.pattersonhood.com


 File Under: book-rock 

di Nicola Gervasini (12/10/2012)

La dipartita di Jason Isbell dai Drive-By Truckers non è stata affatto indolore. Se Brighter From Creation's Dark nel 2009 aveva dato questa illusione, il seguito ha evidenziato come l'assenza di uno degli elementi portanti del gruppo (oltretutto già titolare di una carriera solista decisamente al di sopra dell'ultima fase del gruppo) stia pesando sul lungo periodo. Corretta dunque la mossa di Patterson Hood di rinverdire una mai troppo sviluppata storia solista (due album di abbozzati esperimenti casalinghi) per riordinare le idee in assenza di compagni che si erano forse fatti troppo ingombranti. Perché potrebbe essere proprio l'eccessiva democrazia che vige nella band il suo nuovo tallone d'Achille, visto che una volta libero di esprimere il proprio songwriting in solitaria, Hood ha riacquistato freschezza e voglia di lavorare con più attenzione agli arrangiamenti.

Heat Lightning Rumbles in the Distance nasce concettualmente da un abortito progetto letterario dello stesso Hood, non certo nuovo a verbose carrellate di letteratura americana con accompagnamento di rock sudista. Il pretesto è raccontare i suoi turbolenti anni 90, quando essere una "rockstar" era lontano dai suoi progetti e la realtà era fatta di amici poi persi per strada, donne abbandonate per troppo bisogno di solitudine e ambiti famigliari tutt'altro che accomodanti. Passare attraverso questi dodici brani senza un libretto dei testi alla mano vuol dire perdersi il senso di tutto, ma stavolta fortunatamente Patterson non si è perso nei meandri dei suoi dolorosi ricordi e ha lavorato bene anche in studio di registrazione, nonostante la scelta di una presuntuosa auto-produzione (ma il lungo elenco di tecnici e aiutanti da l'idea che abbia chiesto aiuto alle persone giuste "visti" gli ottimi suoni dell'album). Alla fine quella in studio non è altro che un'edizione rimaneggiata dei Drive-By Truckers, con le tastiere di Jay Gonzalez a farla da padrone assieme al violino di Scott Danbom dei Centro-Matic e l'immancabile pedal-steel di John Neff.

I brani sono generalmente lenti, dove alla ricerca della melodia di Leaving Time o Disappear fanno da contraltare i suoi classici brani/racconto come Depression Era o After The Damage. Anche l'unico brano che esula dal racconto (Come Back Little Star, scritta e cantata con Kelly Hogan) alla fine si amalgama perfettamente nel plot, visto che l'omaggio a Vic Chesnutt del testo rende bene l'idea di come gli anni 90 abbiano riscoperto quella vena malinconica e intimista (che costituisce la caratteristica principale di questo album) proprio grazie a personaggi come lo sfortunato cantautore di Athens. Ma Betty Ford, straordinario affresco dedicato alla first lady che traghettò l'America fuori dalle paludi del Vietnam (scomparsa lo scorso anno), è esattamente uno di quei piccoli gioielli di new-indie-southern-rock che continuiamo imperterriti a cercare nei dischi dei Truckers. E sapere che ne sa scrivere ancora consola moltissimo.

giovedì 11 ottobre 2012

Robert Plant & The Band Of Joy...o dell'invecchiare con dignità



 
 
 
Robert Plant & The Band Of Joy

Live From The Artists Den   
[Universal DVD & Bue Ray, 2012]

File Under: Roots music for retired people

di Nicola Gervasini (04/09/2012)

Non so l'uomo, ma posso tranquillamente asserire che Robert Plant è un artista intelligente. Piaccia o non piaccia, è uno dei pochi (troppo pochi) nomi del classic rock che ha saputo affrontare la propria età avanzata con la dignità che si richiede ad un uomo di sessantaquattro anni. Vero, sfoggia ancora la sua bionda (bianca?) chioma lungo-riccioluta, e continua a muoversi sul palco come un'odalisca, tanto che a vederlo sembra sempre che stia cantando Kashmir anche quando non sta cantando Kashmir. Ma lui perlomeno la lezione l'ha imparata nel 1997, quando con Jimmy Page ha dato alle stampe Walking into Clarksdale, concettualmente il più brutto e inutile disco della loro carriera, proprio perché pensato per quel pubblico che ancora oggi chiede loro di essere i Led Zeppelin, quando di fare il Led Zeppelin il buon Robert non aveva già più voce e energia da almeno dieci anni. E se l'amico Jimmy da allora non ha saputo più che farsene della sua arte, lui si è reinventato una carriera nel mondo dell'american music. I suoi anni duemila non hanno scritto nessuna storia che possa valere un solo urlo dell'era Zeppelin, ma se non altro ci ha portato nei lettori una serie di titoli cantati e suonati con innegabile gusto (Dreamland e Band of Joy finiscono per essere i titoli migliori della sua solo-career dopo il sottovalutato Fate Of Nations del 1994).

E così quando ci si appresta a visionare il DVD di Live From The Artists Den la prima reazione è una grassa risata quando ci si immagina il povero ignaro metallaro rimasto fermo ai tempi del patetico Manic Nirvana, che deve fare fatica a capire che quel brano zoppicante e sussurrato che apre la serata è nientemeno che Black Dog. Dove sono i riff, gli urli, i muri che cadono dopo due note? Relegati giustamente al mito. Oggi Plant è un signorotto che può permettersi una band a dir poco stellare, dove una primadonna come Patty Griffin si presta a fargli da corista in pelle nera e minigonna e due chitarristi che qualsiasi cantautore di Nashville sognerebbe di poter avere al proprio fianco come Buddy Miller e Darrell Scott si tengono in composta disparte. E non che la sezione ritmica formata da Byron House (basso) e Marco Giovino (uno che suona la batteria con le catene) sia da meno. In questa veste i brani dei Led rivivono di nuova luce, e se magari Tangerine era già nata tarata su questa lunghezza d'onda, Ramble On e Gallows Pole ritrovano invece tutta la loro essenza folk, mentre Houses Of The Holy se ne costruisce una nuova. Forse solo Rock and Roll fa rimpiangere i duelli tra la sua ugola che fu e il drumming del Bonham che non c'è più, per il resto brani vecchi e nuovi convivono alla perfezione, come se Angel Dance dei Los Lobos provenisse davvero dallo stesso disco di una Down To The Sea.

Doveroso lo spazio concesso alle tre co-star, con un Buddy Miller che riesuma una micidiale Somewhere Trouble Don't Go dal suo Cruel Moon del 1999, un Darrell Scott che da lezioni di stile con il traditional A Satisfied Mind e una Patty Griffin che diverte con la balzellante Move Up (era sull'ottimo Downtown Church). Video statico ed elegante come il padrone di casa, uno che ha capito in tempo quando avrebbe cominciato a far davvero ridere i polli a continuare ad essere QUEL Robert Plant. Uno che molti altri suoi coetanei dovrebbero imitare.

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=yiokMaodFkw
     

mercoledì 10 ottobre 2012

LEVELLERS - Static On The Airways


  
Levellers
Static On The Airways
(India/Rough Trade  2012)

politically incorrect brit-folk

I Levellers di Brighton sono una piccola istituzione della musica britannica. On the road fin dal 1988, la band capitanata da Mark Chadwick non ha mai abbandonato la strada, restando uno dei live-act più richiesti del nord Europa. Il tutto tra l'altro senza aver mai mutato line-up in 24 anni, sintomo di un gruppo di musicisti in grado di condividere filosofia di vita e ideali politici in modo inossidabile. I loro dischi però non hanno mai fatto sfracelli nelle charts, e tantomeno è facile trovare un loro titolo in qualche classifica dei "migliori dischi del…". Non per demerito, ma per precisa scelta artistica, quella che predilige la causa e la passione alla razionalità che si richiede ad una rockstar quando si chiude in uno studio. Static On The Airways cerca invece un leggero cambio di rispetto al loro folk-rock da barricata, abbassando toni e ritmi e introducendo (con mossa da scafati calcolatori della produzione) tastiere e batterie elettroniche, in pura coerenza con l'attualmente imperante revival anni 80. Il risultato però alla fine non cambia troppo, se è vero che l'interesse è come al solito focalizzato più sui testi (con una visione critica a largo raggio che va ben oltre le questioni politiche inglesi) e su quanto questi brani possano diventare degli highlight nei prossimi concerti della band. Necessario solo se siete già sintonizzati sulle loro frequenze.
(Nicola Gervasini)

www.levellers.co.uk

lunedì 8 ottobre 2012

TWO GALLANTS...o della fine di un amore.



Two Gallants
The Bloom and the Blight
(ATO 2012)

freak folk

C'è stato un momento in cui i Two Gallants di Adam Stephens ci erano sembrati davvero una delle realtà del nuovo mondo indie con il futuro più roseo. E ancora oggi a riascoltare The Throes (2004) e soprattutto What The Toll Tells (2006) ne saremmo convinti, se non fosse per ciò che è venuto dopo. Un ottimo EP del 2007 (The Scenery of Farewell) sembrava far intravedere una strada verso una matura normalizzazione del loro stile che faceva ben sperare, ma già l'album Two Gallants dello stesso anno aveva suscitato qualche perplessità. Cinque anni dopo arriva The Bloom and the Blight, e la delusione è grande. Stephens, che nel suo disco solista (We Live on Cliffs) aveva dimostrato di saper scrivere canzoni "convenzionali" e quindi di essere un autore veramente capace, qui cerca l'effetto sorpresa senza trovarlo, finendo a confezionare un pugno di brani davvero senza grande interesse (le eccezioni ci sono ovviamente, ma si perdono in un insieme fastidioso). Ad affossare il tutto è il suono scelto per le chitarre, uno stridulo e distorto sound da pop-punk band di serie B che mal si sposa con le loro trame folk, che restano per fortuna l'ossatura della loro proposta. Episodio bocciato e Two Gallants relegati alla voce "occasioni perse". Sempre che non facciano in tempo a tornare sui loro passi.
(Nicola Gervasini)

www.twogallants.com

venerdì 5 ottobre 2012

ZZTOP - La Futura


ZZ Top La Futura
[
American/ Universal  
2012]
www.zztop.com


 File Under: blues veterans 

di Nicola Gervasini (25/09/2012)

C'era un tempo in cui la critica rock poteva permettersi di alzare la voce, indicare direzioni, tracciare percorsi. Erano i tempi in cui si viveva la concezione che il rock fosse un arte (unica, altro che le stramaledette "nicchie" di oggi) in continuo rinnovamento, e che qualunque opera non in grado di contribuire a questo "evoluzionismo rock" fosse da bocciare. Ma erano anche gli stessi anni in cui si pensava che l'economia occidentale seguisse una linea di sviluppo continuamente volta verso l'alto, e oggi sappiamo bene come sta andando a finire. Per questo un disco come La Futura degli ZZ Top (prodotto da Rick Rubin, ma già lo sapete) rende bene il cambiamento di un'epoca (e il suo sostanziale stato di inerzia).

Proviamo per esempio ad immaginare come avremmo accolto questo album nella prima riga di una immaginaria recensione scritta in epoche diverse. Recensione 1971: Gibbons e soci rispondono all'invasione del prog inglese con grandi colpi di Hendrix e John Lee Hooker. Roba da far sanguinare anche il più spocchioso intellettualoide britannico… Recensione 1977: raggiunto il successo pieno con Fandango, gli ZZTop si accontentano dei soliti quattro giri blues e di cercare l'air-play delle radio Fm con riff banali e risaputi. Recensione 1986: dopo la marchetta di Afterburner, gli ZZTop affrontano coraggiosamente l'era dei synth con un gran disco di blues, dimostrando quale sia la vera musica ai fans dei Duran Duran. Recensione 1996: qui prendetene una qualsiasi già scritta per Rhythmeen, i due album sono praticamente identici. Recensione 2012: che volete che vi diciamo: I Gotsa Get Paid è I Just Got Paid, Chartreuse è la nuova Tush, Consumption ha lo stesso riff della precedente, Over You è Hot, Blue & Righteous riveduta e corretta,Heartache in Blue sarebbe anche un gran bel blues, ma è pur sempre uguale a qualsiasi altro blues, I Don't Wanna Lose You un tempo poteva anche essere una buona hit, oggi chissà, Flying High è un insolito becero riffone che potrebbe anche appartenere a Bryan Adams, It's Too Easy Manana l'hanno rubata dall'archivio dei Lynyrd Skynyrd, Big Shiny Nine è Beer Drinkers & Hell Raisers con un testo diverso, Have a Little Mercy è un finale alla Have you Heard?.

Chiedersi allora che senso abbia oggi pubblicare un disco come La Futura è discussione che poi possiamo copia-incollare per gli AC/DC, i Lynyrd Skynyrd, gli Aerosmith, forse i Rolling Stones. Praticamente per qualsiasi artista nato prima del 1990 che gira con il freno a mano tirato. La risposta ve la date voi: se ancora godete a (ri)ascoltare queste canzoni, questa chitarra, questo sound, allora ha senso continuare a comprare i dischi degli ZZ Top. Altrimenti Tres Hombres è sicuramente lì sul vostro scaffale, e attende solo di essere un po' rispolverato. Ma vicino, se guardate bene, c'è spazio per nuova musica. 

   

mercoledì 3 ottobre 2012

DAN STUART - The Deliverance of Marlowe Billings


Dan Stuart The Deliverance of Marlowe Billings
[
Cadiz/ Audioglobe  
2012]
www.marlowebillings.com


 File Under: Dan F**kin' Stuart is back in town

di Nicola Gervasini (14/09/2012)

Il caso Dan Stuart è discussione degli appassionati rock da molto tempo. Una delle penne più taglienti e voci più laceranti degli anni Ottanta si trovava da vent'anni circa relegato ad un anonimato non troppo voluto nel sud del Messico (dove si fa chiamare Marlowe Billings). In tutto questo tempo ha collezionato solo due collaborazioni piacevoli ma non memorabili con Al Perry e l'amico Steve Wynn, nostalgici tour con i Green On Red senza seguiti discografici (Chuck Prophet aveva di meglio da fare) e un album solista dimenticato (in quanto da dimenticare) nel lontano 1995. Cosa sia successo ce lo racconta lui in queste canzoni, dove con il solito piglio da scrittore mette sul tavolo le proprie storie di matrimoni deragliati, viaggi per l'America alla ricerca di una nuova identità, suicidi meditati e forse pure cure psichiatriche mal digerite.

Perché poi Stuart era pur sempre quello che si è giocato una carriera a furia di sputare veleno su qualunque collega in odore di ipocrisia e falsità, quello che - per intenderci - nel suo sito pubblica la propria mail scrivendo "Mandate un saluto a Poor Old Dan e magari potrebbe rispondervi persino Billings. Non sono graditi i creditori, mentre i giornalisti sì, sempre che ne esistano ancora". Per questo il giocare a carte scoperte, come fa alla perfezione in questo The Deliverance of Marlowe Billings, è proprio quello che si richiede alle sue opere. Aiutato ancora una volta da Antonio Gramentieri (che già aveva riesumato Stuart dall'oblio con il progetto degli Slummers nel 2010) e il nucleo centrale dei suoi Sacri Cuori, con l'aggiunta di qualche amico come Jd Foster o il vecchio bassista dei Green On Red Jack Waterson, Stuart si lancia in un album che appare subito come un doveroso e sentito diario della sua nuova vita errabonda.

Il pezzo centrale dell'album (Gonna Change) lo si conosceva già perché anticipato l'anno scorso da un ep di quattro brani venduto ai concerti, ma resta comunque una straordinaria immersione nella depressione di quest'uomo. Ma non è l'unico episodio che ci restituisce lo Stuart che avevamo disperato di sentire: Love Will Kill You poteva tranquillamente fungere da chiusura di uno Scapegoats, così come l'iniziale Can't Be Found è dotata della necessaria tensione. Dopo una prima parte decisamente strascicata, il disco prova variazioni sul tema in una Gringo Go Home in cui affiora il sound "à la Calexico" dei Sacri Cuori, oppure con il dirty-sound di What Are You Laughing About o il jingle-jangle di Gap Toothed Girl. L'impressione è che anche questo Stuart tirato a lucido possa fare ancora di meglio, perché se The Deliverance of Marlowe Billings ci restituisce in pieno il lato drammatico che più amavamo (provateci voi a uscire da What Can I Say? senza versare una lacrima), manca però di fotografare appieno l'irriverenza e la rabbia che l'uomo riesce ancora a tirar fuori nelle esibizioni dal vivo, quasi che senza un pubblico Dan viaggi con il freno a mano tirato o si senta in dovere di rigare dritto. In ogni caso, anche senza la graffiata decisiva, il tutto basta per il nostro sincero e sentito bentornato al povero vecchio Dan!

lunedì 1 ottobre 2012

ELENI MANDELL - I Can see the Future


Eleni Mandell I Can See the Future
[Yep Roc/ Audioglobe
2012]
www.elenimandell.com


 File Under: sophisticated pop/folk pop 

di Nicola Gervasini (26/07/2012)

Sono ormai quindici anni che Eleni Mandell figura nelle liste delle più talentuose songwriters di nuova generazione. Tanto che, ormai arrivati all'ottavo album la persistenza dell'aggettivo "nuovo" negli articoli a lei dedicati è solo più una testimonianza dell'immobilismo della musica degli anni zero. La Mandell di strada ne ha fatta tanta, e soprattutto ha probabilmente girato i locali del mondo (ma soprattutto europei), presentando il suo folk ammantato da atmosfere da club con un misto di eleganza e cialtronaggine ubriacona alla Tom Waits, che ha sempre acceso l'attenzione nei suoi confronti. Eppure a ben guardare alla sua discografia manca ancora il disco che convinca tutti, destino che l'accomuna a molte artiste femminili dell'ultimo decennio e su cui ci sarebbe da fare una riflessione ben più approfondita.

In ogni caso lei ha il suo seguito consolidato ormai, che siamo certi non mancherà di apprezzare anche questo I Can See The Future, nuova fatica pubblicata sempre dall'etichetta canadese Zedtone in patria (Yep records per il mercato europeo). Che fin dalle suadenti note di Magic Summertime e Now We're Strangers denota subito una brusca virata verso un pop elegante e styloso, coperto da tastiere, archi (realizzati sinteticamente da Nathaniel Walcott dei Bright Eyes) e persino fiati old-style (la deliziosa I'm Lucky). Un impasto magniloquente gestito con professionalità da Joe Chiccarelli (Shins e Whites Stripes tra i tanti prodotti) per una serie di brani che non nascondono la loro natura folk d'origine, evidenziata laddove la Mandell decide di lavorare per sottrazione come nella tenue Desert Song. La vena però inizialmente pare delle migliori, anche quando Eleni s'impigrisce sul ritmo suadente di Who You Gonna Dance With, beach-song impreziosita dalla slide di Greg Leisz e dai fiati di Steve Berlin dei Los Lobos, o quando gioca a fare la Nancy Sinatra in compagnia di Lee Hazlewood con il giovane songwriter Benji Hughes, coinvolto in un bel numero sixty-pop come Neve Have To Fall In Love Again.

Il disco ha però i suoi passaggi a vuoto (l'accoppiata Crooked Man e Bun In The Oven allenta troppo la tensione), e magari spesso si adatta su soluzioni di maniera in mancanza di ispirazione migliore (la jazzata So Easy, impreziosita comunque dalla batteria di Joey Waronker). Il problema di I Can See The Future è proprio questo, che spara nella prima parte una serie di convincenti cartucce, ma si siede proprio quando sarebbe il momento di affondare il colpo, accontentandosi di brani minori come Looking To Look For o il dark-country un po' affettato di Don't Say No. Un po' lo specchio della carriera di Eleni Mandell, regina del "vorrei ma non posso", che anche questa volta ci lascia a metà del guado con la sensazione che abbia perso l'ennesima occasione buona.

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...