lunedì 24 settembre 2012

Intervista ai Mojo Filter


Intervista ai Mojo Filter


L’album album d’esordio dei Mojo Filter (Mrs Love Revolution) è una delle sorprese più recenti del rock nostrano, un disco che omaggia Fogerty e i Cream con la stessa energia dell’hard blues moderno dei Black Keys. Come è successo che un quartetto nato in Lombardia decida di farsi portabandiera di una rifondazione rock ce lo spiegano i due chitarristi Alessandro Battistini e Carlo Lancini.

Iniziamo con un piccolo gioco: siete sul palco di un Festival Rock e dovete convincere in cinque minuti un pubblico che non vi ha mai sentito nominare a non abbandonare il prato per farsi una birra durante la vostra esibizione. Quale arma userebbero i Mojo Filter?

Alessandro: Credo che inizieremmo con un pezzo come Lick Me Up, visto che è una di quelle canzoni che fa battere il piede ed ha un’aria molto solare. Anche se, alla luce di quello che stiamo sperimentando ora, non escludo che potremmo partire con qualcosa di più provocatorio come Closer To The Line, brano già pronto per il prossimo disco. Closer To The Line, forse perché meno diretta di altre, potrebbe essere una canzone dal forte impatto.
Carlo: Si, Closer To The Line è sicuramente meno derivativa e potrebbe essere la canzone giusta per far scegliere al pubblico se restare o per fare la coda alla cassa…Capiremmo entrambi, noi e il pubblico, se siamo fatti l’uno per l’altro…

Voi stessi avete appena definito senza vergogna la vostra musica come “derivativa” Non è un caso che la parola che ricorre più spesso quando si parla dei Mojo Filter è “classico”. E’ classico il vostro rock, classica la copertina in stile anni 60, classica anche la formazione a due chitarre e sezione ritmica alla Creedence Clearwater Revival. Vi riconoscete in questa “classicità” o trovate riduttiva la definizione nel vostro caso?

Alessandro: La cosa strana è che se avessimo 20 anni e facessimo del rock classico saremmo forse un “fenomeno”, vedi i primi Kings Of Leon, giusto per far nomi. A 35 anni forse emerge più un aspetto riduttivo e restringente dell’essere classici. Ma la derivazione del nostro rock è data dal nostro background, dal quale non possiamo certo ripulirci, e da una ricerca sonora a ritroso, priva espedienti elettronici o digitali, ma piuttosto orientata ad una strumentazione di un certo tipo e assolutamente “analogica”…noi siamo questo.
Carlo: L’essere classici è riduttivo se sei italiano e vivi la tua condizione di musicista in Italia, anche se poi nelle radio commerciali, soprattutto in questo periodo, senti passare le canzoni dell’ultimo album dei Black Keys, band assolutamente derivativa e classica tanto quanto i Mojo Filter.
Quindi, che spazio pensate ci possa essere per la musica dei Mojo Filter nel mercato discografico italiano, da sempre molto diffidente verso le nostre produzioni anglofone?


Carlo: In questo periodo un certo tipo di indie rock in italiano è tornato prepotentemente alla ribalta e quindi lo spazio per noi si è fatto ancor più limitato, alla luce anche del fatto che un vero mercato discografico non esiste. Come tanti, se avessimo dovuto pensare al mercato discografico, anche a quello di nicchia, non ci saremmo certo messi a fare dei dischi. Stiamo vivendo in un periodo assolutamente negativo, ma non per questo desistiamo: nei nostri programmi ci sono altri dischi e altri concerti.
Alessandro: L’ultimo anno è stato assolutamente stimolante grazie al sostegno di un artista straniero e di una casa discografica. Questo ci ha permesso di crescere e di voler anche sperimentare, per fare in modo che il nostro sia un percorso. Siamo arrivati fin qui per restarci…

Mrs Love Revolution è stato registrato in tre giorni, un tempo breve, quasi a confermare il vostro status di live-band con poca voglia di passare troppo tempo in uno studio di registrazione. Come è stato il processo di registrazione dei brani?

Alessandro: Mrs Love Revolution, con la sua sessione di registrazione, ha fatto emergere una sorta di condizione di urgenza, con una band impegnata dal vivo ma con una manciata di canzoni pronte. Aggiungo anche che il nostro approccio alla struttura dei brani è anche l’approccio di una band di quattro elementi che vuole che le canzoni abbiano la stessa resa sia dal vivo che su disco.
Carlo: Quelle canzoni sono nate dalle intuizioni e dal songwriting diretto di Alessandro, sviluppate in sala prove e durante i soundcheck, con una struttura piuttosto naturale non votata alle sovraincisioni. Le registrazioni sono state un’esperienza unica grazie al clima informale e disteso, e alla voglia che avevamo di rendere quelle canzoni “ufficiali”.



Il disco vede il contributo di Jono Manson per il missaggio definitivo dei brani. Sembrerebbe quasi una mozione di sfiducia verso la capacità dei tecnici italiani di produrre un vero rock-sound di altri tempi. E dunque vero, come diceva il compianto Carlo Carlini, che “quel tocco lì ce l’hanno solo gli americani”?

Carlo: Carlo Carlini la sapeva lunga…
Alessandro: Noi e Jono ci siamo cercati: per il suo metodo di lavoro e il suo approccio, noi sapevamo che lui poteva essere l’uomo giusto, come Jono sapeva che il nostro rock and roll necessitava di una mano come la sua. La mozione di sfiducia verso i tecnici italiani è parziale: molti hanno metodi di lavoro standard, spesso invasivi. Sono pochi quelli che “entrano” con la band nel disco, tentando di capirlo e di capire dove una band si colloca e dove vuole arrivare. Il sound engineer Mauro Galbiati è un grande professionista che ha saputo collocarsi fra i Mojo Filter e Jono Manson, e che ha lasciato che fossero gli amplificatori a parlare.


Oggi comunque la registrazione professionale di un cd come Mrs Love Revolution è molto più alla portata di tutti rispetto ad un tempo, e il mercato è infatti inflazionato di titoli indipendenti. Cosa pensate che possa ancora fare la differenza quando una band registra un album senza l’apporto e i soldi di una casa discografica?

Alessandro: Credo che la differenza la facciano la fame, l’integrità, la coerenza e, come sempre, le canzoni. Soprattutto se una band vuole che il proprio sia un percorso che non si riduca ad un singolo disco.
Carlo: Noi vogliamo scrivere la nostra piccola storia personale, senza velleità. Ma abbiamo tanta fame di chilometri da percorrere, e per poterlo fare dobbiamo avere qualcosa da dire. E di cose da dire ne abbiamo molte.


I brani di Mrs Love Revolution sono tutti firmati da te Alessandro, con l’eccezione di un brano firmato da Carlo. Pensate che in futuro il processo creativo possa essere più corale e coinvolgere tutti i membri della band ora che siete una band più rodata?

Alessandro: Questa è una domanda che ci siamo fatti spesso, ma non arriviamo mai ad una risposta certa...
Carlo: Beh Nicola, te lo dico io…il motivo è presto detto: Alessandro è l’autore principale e quando ci sottopone un pezzo lo fa con le idee chiare ed alcune parti ben definite. La cosa sicuramente più strana ed entusiasmante è che le parti e le canzoni hanno già un mood e un approccio perfetti. Lo stile e le parti di Daniele al basso danno il groove giusto…così, alla fine, ci riduciamo a rivedere piccole sfumature. Alessandro dalla sua ha anche la grande prolificità.
Alessandro: in effetti abbiamo già materiale pronto per almeno un paio di dischi, tant’è che nelle varie scalette del tour di promozione di Mrs Love Revolution abbiamo inserito diversi pezzi inediti.

 (Nicola Gervasini)




sabato 22 settembre 2012

STEVIE JACKSON - (I CAN’T GET NO) STEVIE JACKSON


STEVIE JACKSON

(I CAN’T GET NO) STEVIE JACKSON

Banchory

***1/2

Che ci sia anche da ridere lo si capisce dal titolo rollingstoniano dell’album, (I Can’t Get No) Stevie Jackson, quasi una supplica a non prendere troppo sul serio questo esordio del chitarrista dei Belle & Sebastian. Personaggio schivo e da sempre poco al centro di quell’attenzione che la band riuscì ad attirare a cavallo degli anni 2000, Stevie Jackson è uno dei pochi chitarristi del mondo indie ad avere lasciato un’impronta stilistica ben definita, ad essersi creato un suono riconoscibile e a lui riconducibile, caratterizzato dall’uso di svariati effetti. Mister Riverbero lo chiamavano ai tempi, e forse oggi questa sua prima fatica arriva anche per scrollarsi di dosso il nomignolo. Il disco è infatti una piccola galleria di scherzi ed esercizi di stile, pop-songs per tutti i gusti che il nostro ama presentare con un piccolo scritto di presentazione che ne racconta la genesi. Quanto basta per apprezzare l’umorismo decisamente british nel giustificare gli evidenti omaggi sparsi qua e là, dall’Elton John prima maniera echeggiato nell’iniziale Pure Of Heart agli strampalati riferimenti cinematografici sciorinati in Just, Just, So To The Point (brillantissima pop-song anni 70 dedicata a John Houston e famiglia) o Kurosawa (dedicata al maestro Ozu in verità, tanto per confondere le idee). Beatles presenti ovunque, ma anche tesori pop alla Kinks (Where Do All The Good Girls Go?), sgangherati schizzi acustici alla Jonathan Richman (Press Send, sketch sulla comunicazione via e-mail e social networks fra due innamorati) oppure orchestrazioni ardite alla Electric Light Orchestra (Telephone Song). Jackson se la cava benissimo sia con le parole che con i diversi registri adottati, con risultati particolarmente godibili nel garage-pop di Try Me (sembra quasi uno degli scherzi del Ben Vaughn anni ottanta), in una Dead Man’s Fall che canzona i cantautori indie con coretti alla Beach Boys o quando in Bird’s Eye View cerca l’ acoustic-ballad allucinata alla Robyn Hitchcock, finendo per trovare una perfetta imitazione di Julian Cope. Non poteva mancare Bowie nel gioco dei rimandi, perfettamente riconoscibile nelle trame della complessa Man of God, un brano che Jackson dice essere nato per cercare di sedurre una donna che finirà invece annoiata da una serie di discussioni sulle b-sides dei Beatles. Vita da nerd e malato di musicofilia quella descritta dai solchi di Stevie Jackson, che ad un certo punto nelle note d Try Me si rende conto che certi testi da love-song adolescenziale mal si prestano alla sua condizione di ultratrentenne, ma che non riesce davvero a farne a meno. La stessa sindrome da Peter Pan che rende questo disco un piccolo gioiellino da non perdere.
Nicola Gervasini

giovedì 20 settembre 2012

GASLIGHT ANTHEM - Handwritten


GASLIGHT ANTHEM

HANDWRITTEN

Mercury

***


Ascoltando Handwritten pare evidente come Brian Fallon, approdando ad una major,  debba aver avuto paura di perdere l’innocenza dell’esordio, di snaturare quelle che erano le intenzioni di partenza in quel lontano 2006, quando a New Brunswick nel New Jersey fondò i Gaslight Anthem. Che all’attivo hanno un disco d’esordio fatto di pura rabbia (Sink And Swim, 2007), un seguito che ha fatto il botto sia come vendite che gradimento (The ‘59 Sound, ancora oggi uno dei più freschi e riusciti rock-record del decennio scorso) e un difficoltoso e irrisolto terzo album (American Slang). Fallon ha poi fatto degli esperimenti da autore maturo, capace di scavalcare lo steccato della three-minute-punk-rock-song con il progetto degli Horrible Crowes, ma Handrwitten va nuovamente controcorrente e invece che fare tesoro dei normali cambi di direzione di un artista in maturazione, innesta una profonda retromarcia. A parte qualche raro caso (Mae, che rispolvera l’andamento lento a cui ci stava abituando), si torna alla base dunque, alle origini, al rock a cento allora che li ha lanciati. Si torna all’urlato e si abbandona il sussurrato, relegato in quella National Anthem che chiude il disco con una riflessione in acustico dopo tanta veemenza elettrica. Si abbandona, tra l’altro, lo storico produttore Ted Hutt in favore di Brendan O’Brien, e si continua così a seguire il mito di Bruce Springsteen anche nelle scelte produttive. E Brendan li accontenta, impasta suoni come solo lui - nel bene e nel male - sa fare, fa si che nulla dei singoli musicisti possa risaltare ed esalta il collettivo, relega la chitarra di Alex Rosamilia a semplice comparsa ed sottolinea il wall of sound da concerto della band. Handwritten ha sicuramente le idee più chiare del suo predecessore, avverte tutti che i Gaslight Anthem non hanno certo intenzione di intrattenere ricordi ma nuovi sogni, non sono una band per vecchi nostalgici del New Jesrey sound ma il nuovo motore per le speranze delle nuove generazioni. Fallon urla, s’impegna, spara cartucce importanti come il singolo 45 o hard-riff e colpi da big-drum con Biloxi Parish. Poi però scade troppo nel coro da stadio con brani come Howl (ricorda Urlando contro il Cielo di Ligabue tanto per dare l’idea) e Desire, e commette gli stessi errori grossolani sentiti anche dagli Hold Steady più recenti. Troppo sangue sulla pagina forse (come recita la convincente Too Much Blood), Handwritten è un disco che mostra i muscoli anche quando non ce ne sarebbe bisogno, perdendo di vista le canzoni,  come accade con Keepsake, brano che con meno metallo addosso avrebbe potuto dire molto di più. Fallon resta una buona penna (Here Comes My Man, Mullholland Drive), anche se nessuno dei dodici brani conferma la micidiale immediatezza delle sue opere passate. Lui è fiero e definisce il disco come “canzoni di Tom Petty suonate dai Pearl Jam”, non riuscendo però ad eguagliare nessuno dei due. Probabilmente gli serviva ripartire da zero, ricaricare le pile, ricordarsi da dove era partito, come il Dylan di metà anni 90 quando ha sentito il bisogno di rifare folk tradizionale prima di rimettersi in pista. Apprezziamo le intenzioni, ma restiamo in attesa di sapere se possiamo contare sui Gaslight Anthem per poter parlare di rock and roll ancora la futuro e non solo al passato.
Nicola Gervasini

mercoledì 19 settembre 2012

RYAT - Totem


RYAT

TOTEM

Brainfeeder

***


Più che Totem, poteva anche intitolarsi semplicemente Debut questa terza opera di Ryat, una fascinosa ragazza di Los Angeles (Christina è il suo nome di battesimo) che evidentemente non ha ancora tolto dal proprio lettore l’opera omnia di Bjork. Un debutto su un etichetta di settore (la Brainfeeder) che dovrebbe garantirle distribuzione migliore negli ambienti più adatti alla sua musica (soprattutto quelli inglesi), ma soprattutto un opera matura e decisamente di avanguardia che unisce elettronica, poesia e persino spunti classici, per un risultato affascinante e al tempo stesso stordente che dovrebbe piacere soprattutto a chi negli ultimi anni ha apprezzato l’opera di Joanna Newsom. Il primo elemento che va notato in questi brani dalla struttura decisamente minimale è l’utilizzo della voce, vista non come elemento narrante ma come strumento fondamentale nella creazione del sound, mezzo per trasportare le poche e stringate parole dei brani che parlano di mitologia dei nativi americani, unione di anima e natura, ritorno alle radici. Si rasenta la new age in alcuni momenti, ma non si scende mai sotto il pericoloso confine della maniera, e alla fine, seppure non sia musica per tutti i palati (astenersi esclusivisti del suono roots e cultori delle chitarre senza se e senza ma), il disco trova una sua perfetta collocazione nei momenti più riflessivi della nostra esistenza. In ogni caso Ryat si prodiga in ben studiati campionamenti ottenuti con una tastiera FX, e se quando abbozza qualche ritmica sincopata in stile hip hop (ma non ci arriva, tranquilli…) il risultato pare poco originale, quando come in Hummingbird ricama intricate trame di archi sintetizzati riesce a captare l’attenzione. Totem è dunque opera affascinante e da ascoltare in modo unitario, ma al tempo stesso urticante se non siete sintonizzati sulla sua lunghezza d’onda. E fa anche un po’ il punto su dove sia arrivata la musica indipendente a livello di sperimentazione, e il merito principale di Ryat, al di là dei debiti già dichiarati, è quello comunque di riuscire ad esprimere una singolare personalità anche nei brani più ostici e azzardati come Seahorse o Footless o nei passaggi dove si sente che c’è voglia di strabiliare. Se decidete di dare una chance a questo disco mettetevi in testa però che non basta un fugace ascolto da uno streaming nel web, ma serve uno stereo come si deve, in una stanza d’ascolto come si deve e una predisposizione d’animo adatta. Per tutto il resto resta sempre il rock.
Nicola Gervasini

lunedì 17 settembre 2012

dB's - Falling Off The Sky


The dB's
Falling Off the Sky
[Blue Rose
2012]
www.thedbsonline.net

File Under: power pop, cult-bands

di Nicola Gervasini (16/07/2012)
Essere una band di culto comporta delle responsabilità, prima tra tutte quella di ponderare bene le reunion per non infangare il mito. Lo sanno bene i Feelies, forti di una recente rimpatriata che, senza aver fatto faville discografiche, ha almeno ribadito la loro importanza e influenza sulle giovani generazioni, e ora ci ritentano anche i dB's, mitico combo titolare di quattro album dispersi negli anni 80. Non è la prima volta che ci riprovano: nel 1994 il solo Holsapple, forte di notorietà acquisita come quinto REM onorario, diede alle stampe l'ignorato e dimenticato Paris Avenue, mentre nel 2006, con line-up originale, la sigla venne spesa per Christmas Time Again, sorta di party-album natalizio con amici vecchi e nuovi (Alex Chilton e Ryan Adams i più altisonanti).

Giusto dunque che Falling Off The Sky venga presentato come il vero ritorno della band, nuovamente gravitante intorno al genio pop di Peter Holsapple e del compare Chris Stamey, uno che nel frattempo ha condotto una discreta carriera solista e una ben più brillante attività di produttore (la scoperta dei Whiskeytown di Faithless Street resta il suo colpo maggiore, ma la sua attività di talent-scount sta continuando con buoni nomi come Otis Gibbs o American Acquarium). Completano la formazione Will Rigby e Gene Holder, la stessa pulsante sezione ritmica che nel 1981 diede alle stampe Stands For Decibel, disco seminale del power-pop anni 80, più o meno lo stesso risultato che avreste ottenuto mettendo Elvis Costello a capo dei REM (con cui condividano il qui presente produttore Scott Litt e l'etichetta, la mitica IRS). Tutto come allora dunque, come se non fossero passati venticinque anni dall'arrivederci del 1987, grazie anche al convincente uno-due iniziale di That Time Is Gone con le sue chitarre taglienti e Before We Were Born con il suo irresistibile ritornello, brani perfetti nati per ribadire chi può a ben diritto dirsi padrone di un suono oggi ancora abusato.

Peccato che poi gli anni, e forse anche la scafata scaltrezza da professionisti dei due titolari, alla fine prevalga nel proseguo dell'album, con una serie di brani finemente costruiti a cui manca però quel nervosismo e quella elettricità che rendeva le "canzonette" di album come l'irrinunciabile Repercussion delle vere iniezioni di adrenalina. C'è grande know-how dunque negli arrangiamenti d'archi di Far Away and Long Ago (anche se spero che abbiano inviato le royalties a Paul McCartney), non c'è nulla da eccepire nella costruzione di World To Cry o quando provano a rivivere i garage-days di fine anni settanta con le psycho-trame di The Adventures of Albatross and Doggerel, probabilmente l'avventura stilistica più interessante del disco. Ma alla fine il tutto non gira con la stessa scioltezza di un tempo, e episodi come Write Back o la Beach Boys-like I Didn't Mean To Say That semplicemente si perdono nello stereo anche dopo ripetuti ascolti. Resta la classe e il sound, e non è poco, ma non abbastanza perchè il culto per le loro opere si espanda anche fino a questo atteso come-back. 

giovedì 13 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...BRUCE SPRINGSTEEN



Bruce Springsteen 

Darkness On the Edge of Town

[Columbia 1978]

 574 pt.
1. Badlands // 2. Adam Raised A Cain // 3. Something In The Night // 
4. Candy's Room // 5. Racing In The Street // 6. The Promised Land // 
7. Factory // 8. Streets Of Fire // 9. Prove It All Night // 
10. Darkness On The Edge Of Town
Non esiste recensione o scritto su Darkness On The Edge Of Town che
non parta dalla sofferta genesi del disco e dalla tragedia di un artista nel
pieno dello zenith creativo costretto a tenere nel cassetto tonnellate di
materiale di primissima qualità per meri motivi contrattuali. E proprio
dalla scelta dolorosa di dover arrivare a dieci brani su almeno una
cinquantina papabili nasce anche l'eterna discussione se era
questo poi il disco migliore che lo Springsteen del 78 poteva far uscire o no.
Di certo, al di là della riconosciuta grandezza del materiale (che ne fa il disco più
amato dai suoi hard-fans), lo straordinario risultato della raccolta fu proprio
quello di apparire come un opera unitaria, quasi un concept-album
dedicato alla grande depressione del sogno americano post-Nixon e post-Vietnam,
un diario perfetto di quel viaggio immaginario che dalle Badlandsdel mondo
post-industriale del New Jersey e delle sue oscure periferie, portava ad una
terra promessa ormai lontana. Tracks e The Promise hanno dato conferma
che ci sarebbe potuto stare anche dell'altro, ma alla fine è meglio che sia
andata così, perché anche la sostituzione di alcuni brani considerati "minori"
come Factory oStreets Of Fire avrebbe tolto mattonelle portanti ad una
costruzione pressoché perfetta. Il risultato è il suo disco più dark, l'altra
faccia del tronfio e battagliero Born To Run, quella della foto di copertina
dove sembra che abbia appena smesso di piangere e stia cercando
una qualche motivazione per ripartire.

(Nicola Gervasini)

mercoledì 12 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...BOB DYLAN



Bob Dylan

Blonde on Blonde

[Columbia 1966]

 340 pt.
1. Rainy Day Women #12 & 35 // 2. Pledging My Time // 
3. Visions Of Johanna // 4. One Of Us Must Know (Sooner Or Later) // 
5. I Want You // 6. Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again // 
7. Leopard-Skin Pill-Box Hat // 8. Just Like A Woman // 
9. Most Likely You Go Your Way (And I'll Go Mine) // 
10. Temporary Like Achilles // 11. Absolutely Sweet Marie // 
12. Fourth Time Around // 13. Obviously Five Believers // 
14. Sad-Eyed Lady Of The Lowlands
Mentre il mondo gli chiedeva di tenere fede al suo ruolo di nuova guida
spirituale delle nuove masse di giovani americani, nel 1966 Dylan
si dimette definitivamente da nuovo santone rock con il suo disco
oggi più riconosciuto e celebrato. Cosciente fin dal brano d'apertura
della lapidazione a cui andava incontro (everybody must get stoned…),
questo Dylan resta ancora oggi il più credibile esempio dell'artista che,
sordo alle necessità del proprio ruolo di star, propone con fierezza
la propria personale visione della vita. Questo spiega come mai,
a parte Just Like A Woman che è canzone nota anche a chi non mastica
il verbo Zimmerman, e tolte forse I Want You e Rainy Day Woman
(che non mancano mai nei The Best e nei tributi all'autore),
il resto di questo doppio album è composto principalmente da
ostici e verbosi brani adorati dai fans, ma ben poco masticati dal
grande pubblico. Il simbolo del disco è dunque Visions Of Johanna,
per molti - ma anche a detta del suo stesso autore - uno dei testi
più alti della sua opera, brano difficile che rappresenta però al meglio
dove Dylan stava andando a parare in quel 1966. Disco governato dalle
figure femminili, dalla Joan Baez che stava lasciando alla Sara
con cui si era sposato tre mesi prima della pubblicazione, il Dylan di 
Blonde On Blonde guardava infatti ormai solo al privato, in un
momento in cui tutti gli chiedevano di continuare a combattere per il pubblico.
Ma la sua risposta stavolta non soffiava nel vento,
ma era tutta in quell'espressione tesa e infastidita della foto della copertina.
Sbiadita, come lo era la sua voglia di essere una rockstar.

(Nicola Gervasini)

martedì 11 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...THE BAND



The Band

Music from Big Pink

[Capitol 1968]

 135 pt.
1. Tears Of Rage // 2. To Kingdom Come // 3. In A Station // 
4. Caledonia Mission // 5. The Weight // 6. We Can Talk // 
7. Long Black Veil // 8. Chest Fever // 9. Lonesome Suzie // 
10. This Wheel's On Fire // 11. I Shall Be Released
Nel 1967 una improbabile casa rosa persa nelle campagne di
Woodstock diventò la forgia di una stagione di capolavori.
Quando Rick Danko l'affittò, non aveva idea che sarebbe
stata la culla del primo album della sua band. Che aveva un
nome (gli Hawks) che nessuno voleva più avere, nato per
fare assonanza con il nome di Ronnie Hawkins quando nei
primi anni 60 gli facevano da backing-band. Ma loro ora
erano "La Band" di Dylan, e la Big Pink doveva essere proprio
il luogo dove sarebbe nato l'atteso album in studio con il Gran Capo,
dopo che Robertson e soci avevano dovuto sopportare lo
sgarbo delle registrazioni di Blonde On Blonde (Dylan iniziò
a registrare il disco con loro, ma, insoddisfatto del risultato,
rifece tutto a Nashville con session-man locali). Il disco con
Dylan venne registrato ma non uscì mai, se non come
The Basement Tapes nel 1975. Invece nacque subito 
Music From Big Pink, in cui la collaborazione con Bob
(r)esisteva nei 3 brani co-firmati (Tears Of RageThis Wheel's On Fire
I Shall Be Realeased), tutti nati già classici ancora prima di
venire pubblicati. Ma il resto era farina del loro sacco, da  
The Weight che resta il loro brano più celebre e riletto, al famoso
incipit al limite del prog di Chest Fever. Per anni i fans hanno
discusso se il capolavoro fosse questo o il più strutturato e
definito "brown-album" che seguì. Entrambi sono forse il miglior
esempio di come anche un gruppo composto da sei talenti forti
e ingombranti poteva raggiungere risultati grandiosi e unitari.
E ancora oggi miriadi di gruppi tentano di costruirsi una propria
Big Pink per cercare la stessa magica ispirazione di quella cantina.

(Nicola Gervasini)

lunedì 10 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...BOB SEGER



Bob Seger

Night Moves 

[Capitol 1976]

 134 pt.
1. Rock And Roll Never Forgets // 2. Night Moves // 3. The Fire Down Below // 
4. Sunburst // 5. Sunspot Baby // 6. Mainstreet // 
7. Come To Poppa // 8. Ship Of Fools // 9. Mary Lou
Il livello da principiante che regna perlomeno nelle prime 5 opere di  
Bob Seger era stato superato da una nuova veemenza rock che aveva
avuto il suo apice nel Live Bullet del 1975. Ma il primo album in studio
veramente degno della parola capolavoro arrivò solo nel 1976, dopo
più di dieci anni di onorata carriera in attesa del momento propizio.
Che arrivò quando improvvisamente, forse senza neanche troppo
volerlo, diventò il paladino di una generazione di beautiful losers
americani che avevano perso i grandi sogni degli anni 60 e si erano
ritrovati con in mano solo occupazioni in squallide fabbriche di periferia.
Lui parlò della Motor City mentre dall'altra parte dell'America gli faceva
eco lo Springsteen delle spiagge del New Jersey, e rappresentò la
perdita dell'innocenza di tutta una generazione con una canzone
che parlava con nostalgia di vecchie pomiciate in macchina e
movimenti notturni nei drive-in fatti per perdere quel "teenage blues"
che invece regnava in quell'anno tra le nuove generazioni. Nove brani
dove Seger rappresentò tutto il meglio della sua arte, dagli energici
anthem da arena alle ballate crepuscolari, fino ad elaborate costruzioni
di nuova epica americana come Sunburnst. Una stagione irripetibile
che scemerà via via verso l'inevitabile appiattimento nel mainstream
radiofonico, pur conservando sempre una dignità che l'ha reso
comunque un eroe della working-class anche quando ha cominciato
a vivere in una delle ville più lussuose di Detroit.

(Nicola Gervasini)

venerdì 7 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...JACKSON BROWNE



Jackson Browne 

Late for the Sky

[Asylum 1974]

 133 pt.
1. Late For The Sky // 2. Fountain Of Sorrow // 3. Farther On // 
4. The Late Show // 5. The Road And The Sky // 6. For A Dancer // 
7. Walking Slow // 8. Before The Deluge
"Tutte le parole erano state pronunciate, ma in qualche modo la sensazione 
non era ancora quella giusta. E ancora abbiamo continuato per tutta la notte 
a tracciare i nostri passi dall'inizio fino a quando non sono spariti nell'aria, 
cercando di capire come le nostre vite ci avevano portato fin lì".
E' tutta nei primi versi della title-track la vera rivoluzione di Late For The Sky
di Jackson Browne, il disco che ha definitivamente spostato l'attenzione
del songwriting americano dalla visione pubblica, comunitaria e sociale del
fare musica che era degli anni Sessanta, ad un ridimensionamento
di orizzonti dove solo la sfera personale con i suoi guai pratici ed esistenziali
poteva contare. D'altronde già tre anni prima il suo primo singolo Doctor My Eyes
implorava di non dover più vedere (e dunque commentare) le
brutture del mondo e della guerra, ma qui la chiusura in quella sfera
personale e casalinga simboleggiata dalla copertina che omaggiava
Magritte raggiungeva il suo estremo. Il suono della West Coast
venne rallentato e dilatato a dismisura, ottenendo un sound indolente,
triste ed ipnotico che resterà il suo marchio di fabbrica.
Uno stile volutamente monotono che poteva reggere solo se
supportato da grandi canzoni, e che risulterà poi all'indomani di
Running On Empty del 1977 anche la sua prigione,
decretando una seconda parte di carriera decisamente al di sotto di
queste premesse. Ma qui classici e pagine di pura letteratura rock
convivevano alla perfezione, risultando ancora oggi un titolo di obbligato
confronto per qualsiasi buon autore del globo.

(Nicola Gervasini)

giovedì 6 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...LOU REED



Lou Reed

New York 

[Reprise 1989]

 123 pt.
1. Romeo Had Juliette // 2. Halloween Parade // 3. Dirty Blvd. // 
4. Endless Cycle // 5. There Is No Time // 6. Last Great American Whale // 
7. Beginning Of A Great Adventure // 8. Busload Of Faith // 9. Sick Of You // 
10. Hold On // 11. Good Evening Mr. Waldheim // 12. Xmas In February // 
13. Strawman // 14. Dime Store Mystery
Era così logico che ci aveva messo più di quindici anni per capirlo. Il punto di
(ri)partenza di una carriera non poteva che essere New York, la sua New York.
Non quella degli intellettuali che filosofeggiano battute in Central Park disegnata
da Woody Allen, ma neppure quella degli artisti che si rinchiudono nella perdizione
della Factory di Warhol a coltivare il proprio ego nelle droghe e nel sesso.
Quella del Lou Reed di fine anni ottanta è la New York delle strade, della gente
comune. Già le liriche del bistrattato album precedente (Mistrial), ultimo maldestro
tentativo di cercare una modernità che non gli apparteneva, erano improntate
non più sulla sua rinnovata sfera privata, quanto su quella dei suoi vicini di casa.
Reduci del Vietnam, drogati senza speranza, malati di AIDS, politici corrotti,
venditori di speranze e uomini di paglia, New York è la più completa galleria
di personaggi della Grande Mela, descritta con un piglio letterario ben poco da
 rock-writer. Nasce il suono del Lou Reed moderno, e finiscono anche
i suoi tentativi di cantare normalmente come un pop-singer in favore
di un nuovo stile parlato e declamatorio. Nei tour successivi, quando
questa metamorfosi verrà portata all'estreme conseguenze con
Songs For Drella e Magic And Loss, si presenterà in pubblico con
occhialini e leggio, zittendo le urla e invitando tutti ad ascoltare suoni e
parole come se fosse un reading di poesia. Eppure il sound di New York
è quanto di più selvaggiamente e puramente rock sia mai emerso
dalla sua discografia. E in questa contraddizione sta la ragione
dell'amore incondizionato che si prova per questo disco.

(Nicola Gervasini)

mercoledì 5 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...NEIL YOUNG



Neil Young & Crazy Horse

Rust Never Sleeps

[Reprise 1979]

 121 pt.
1. My My, Hey Hey (Out Of The Blue) // 2. Thrasher // 3. Ride My Llama // 
4. Pocahontas // 5. Sail Away // 6. Powderfinger // 7. Welfare Mothers // 
8. Sedan Delivery // 9. Hey Hey, My My
Il grande momento artistico di Neil Young era finito nel 1975 con Zuma,
ma nel cassetto del canadese era rimasta una tale mole di materiale di
scarto e album lasciati a metà che la sua discografia non finirà mai di
vivere di rendita. Rust Never Sleeps uscì quando lui già aveva la testa
immersa nei problemi di famiglia, e di
fatto non si prese neanche la briga di registrarlo, visto che per l'occasione
ripulì alcune registrazioni live. E sebbene fosse composto da avanzi provenienti
da almeno altri tre progetti abortiti, Rust Never Sleeps è probabilmente l'unico
album della sua discografia che lo rappresenta a 360 gradi, dove sono presenti
tutte le sue anime, espresse in cavalcate southern-rock pensate per gli amici/nemici
Lynyrd Skynyrd, inni rock che presteranno aforismi buoni per tutte le presenti e
future stagioni rock (da Johnny Rotten a Kurt Cobain), indimenticabili ballate rurali,
nuovi omaggi alle idealizzate civiltà perdute del Sud America e persino qualche
ammiccamento alla nuova veemenza punk. Alle spalle c'erano i fidi Crazy Horse,
che proprio nella tournee che seguì (immortalata nell'album Live Rust, ideale
compendio all'album) raggiungeranno lo status di backing-band perfetta, veri e
propri silenziosi ma insostituibili comprimari di una storia che dura ancora nei
giorni nostri. Dietro l'angolo c'erano gli anni 80 e un artista che avrebbe avuto
bisogno di una lunga pausa, e che invece si dannò insuccesso dopo insuccesso
alla ricerca di un nuovo Neil Young, quando con Rust Never Sleeps aveva
già trovato l'unico esistente.

(Nicola Gervasini)

martedì 4 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...DAVID BOWIE



David Bowie 

The Rise and Fall of Ziggy Stardust & 

the Spiders from Mars 
[RCA 1972]

 85 pt.
1. Five Years // 2. Soul Love // 3. Moonage Daydream // 4. Starman // 
5. It Ain't Easy // 6. Lady Stardust // 7. Star // 8. Hang On To Yourself // 
9. Ziggy Stardust // 10. Suffragette City // 11. Rock 'N' Roll Suicide
Invece di avere tante personalità, il londinese David Jones decise di averne
una ma su più livelli. Si inventò prima David Bowie, che a sua volta s'inventò 
Ziggy Stardust. Che era un alieno vestito come una groupie, trasformatosi
in artista per portare al nostro mondo un messaggio positivo di pace, finendo
però distrutto dagli abusi tipici del ruolo. Una parabola già tristemente nota in
quel 1972, proprio all'indomani della morte a catena del trio
Morrison/Hendrix/Joplin, tutti accomunati dalla sindrome del rock and roll suicide
che chiude anche la vicenda di Ziggy. Anticipando intelligentemente il declino
già previsto dal titolo dell'album, Jones ucciderà definitivamente il suo personaggio
per tornare ad essere Bowie e crearsi così nuove maschere come il
Thin White Duke di pochi anni dopo. Ma quello che (s)vestiva i panni della
prima icona dichiaratamente gay della storia del rock resta il Bowie più
universalmente amato e riconosciuto, quello che metteva d'accordo l'anima
rock portata in dote dal chitarrista Mick Ronson con la voglia di avanguardia
e sperimentazione che lo caratterizzerà in ogni fase della sua carriera.
Bowie in questa occasione fece sua tutta l'esagerata teatralità tipica del
glam-rock dell'epoca e pensò il disco come un musical di Broadway,
avendo però la freddezza di non cercare un filo logico obbligato, solitamente
causa di brani minori o di semplice raccordo di molte rock-opera (errore che
commetterà anni dopo con Outside), ma semplicemente di assemblare 11
brani a sé stanti che diverranno undici classici immortali.

(Nicola Gervasini)

lunedì 3 settembre 2012

DISCHI DA ISOLA DESERTA...REM



R.E.M.

Murmur

[IRS 1983]

 79 pt.
1. Radio Free Europe // 2. Pilgrimage // 3. Laughing // 4. Talk About The Passion // 
5. Moral Kiosk // 6. Perfect Circle // 7. Catapult // 8. Sitting Still // 9. 9-9 // 
10. Shaking Through // 11. We Walk // 12. West Of The Fields
Presentando il cofanetto Nuggets, raccolta di sconosciuti 45 giri di garage-rock e
psichedelia anni 60, il curatore Lenny Kaye aveva fatto notare come quel patrimonio
artistico avesse rischiato l'oblio a causa della mancanza di mezzi per il
 passaparola di quegli anni (no alternative: o passavi in radio o
 rimanevi appannaggio di pochi). Come a dire che sarebbe bastato
Facebook a rinsavire le carriere di tanti artisti che hanno poi attaccato
la chitarra al chiodo per mancanza di riscontri. Ecco, Murmur dei R.E.M.
è stato lo spartiacque tra le due epoche, il primo album nato in provincia,
 al di fuori dei canali della grande distribuzione discografica, ma
sopravvissuto al tempo fin da subito grazie al passaparola delle piccole
 radio universitarie e delle stanzette nel retro dei negozi musicali, dove il
commesso lungimirante ti portava dicendoti "lascia stare il nuovo degli Abba,
ti faccio ascoltare io un gruppo forte!". I R.E.M. sono stati quelli che ce l'hanno
fatta del rock alternativo, hanno ottenuto tutto senza mai concedere nulla
o molto poco. Non è un caso che siano gli unici che hanno saputo dire "basta"
quando nessuno glielo chiedeva, perché tra alti e bassi hanno condotto la loro
storia sempre con grande dignità, senza mai rilasciare particolari "payola" artistiche.
La stessa vera fierezza che aveva il loro esordio, forse non il loro capolavoro,
ma un album sincero, nato quando nessuno suonava questa musica e rimasto
nel cuore dei fans anche quando dai club si è passati alle arene.

(Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...