GASLIGHT ANTHEM
HANDWRITTEN
Mercury
***
Ascoltando Handwritten
pare evidente come Brian Fallon,
approdando ad una major, debba aver avuto paura di perdere
l’innocenza dell’esordio, di snaturare quelle che erano le intenzioni di
partenza in quel lontano 2006, quando a New Brunswick nel New Jersey fondò i Gaslight Anthem. Che all’attivo hanno
un disco d’esordio fatto di pura rabbia (Sink
And Swim, 2007), un seguito che ha fatto il botto sia come vendite che
gradimento (The ‘59 Sound, ancora
oggi uno dei più freschi e riusciti rock-record del decennio scorso) e un
difficoltoso e irrisolto terzo album (American
Slang). Fallon ha poi fatto degli esperimenti da autore maturo, capace di
scavalcare lo steccato della three-minute-punk-rock-song
con il progetto degli Horrible Crowes, ma Handrwitten va nuovamente controcorrente
e invece che fare tesoro dei normali cambi di direzione di un artista in
maturazione, innesta una profonda retromarcia. A parte qualche raro caso (Mae, che rispolvera l’andamento lento a
cui ci stava abituando), si torna alla base dunque, alle origini, al rock a
cento allora che li ha lanciati. Si torna all’urlato e si abbandona il
sussurrato, relegato in quella National
Anthem che chiude il disco con una riflessione in acustico dopo tanta veemenza
elettrica. Si abbandona, tra l’altro, lo storico produttore Ted Hutt in favore
di Brendan O’Brien, e si continua così
a seguire il mito di Bruce Springsteen anche nelle scelte produttive. E Brendan
li accontenta, impasta suoni come solo lui - nel bene e nel male - sa fare, fa
si che nulla dei singoli musicisti possa risaltare ed esalta il collettivo,
relega la chitarra di Alex Rosamilia
a semplice comparsa ed sottolinea il wall
of sound da concerto della band. Handwritten ha sicuramente le idee
più chiare del suo predecessore, avverte tutti che i Gaslight Anthem non hanno
certo intenzione di intrattenere ricordi ma nuovi sogni, non sono una band per
vecchi nostalgici del New Jesrey sound ma il nuovo motore per le speranze delle
nuove generazioni. Fallon urla, s’impegna, spara cartucce importanti come il
singolo 45 o hard-riff e colpi da
big-drum con Biloxi Parish. Poi però
scade troppo nel coro da stadio con brani come Howl (ricorda Urlando contro
il Cielo di Ligabue tanto per dare l’idea) e Desire, e commette gli stessi errori grossolani sentiti anche dagli
Hold Steady più recenti. Troppo sangue sulla pagina forse (come recita la
convincente Too Much Blood), Handwritten
è un disco che mostra i muscoli anche quando non ce ne sarebbe bisogno, perdendo
di vista le canzoni, come accade con Keepsake, brano che con meno metallo
addosso avrebbe potuto dire molto di più. Fallon resta una buona penna (Here Comes My Man, Mullholland Drive),
anche se nessuno dei dodici brani conferma la micidiale immediatezza delle sue opere
passate. Lui è fiero e definisce il disco come “canzoni di Tom Petty suonate
dai Pearl Jam”, non riuscendo però ad eguagliare nessuno dei due. Probabilmente
gli serviva ripartire da zero, ricaricare le pile, ricordarsi da dove era
partito, come il Dylan di metà anni 90 quando ha sentito il bisogno di rifare
folk tradizionale prima di rimettersi in pista. Apprezziamo le intenzioni, ma
restiamo in attesa di sapere se possiamo contare sui Gaslight Anthem per poter
parlare di rock and roll ancora la futuro e non solo al passato.
Nicola Gervasini
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