martedì 20 novembre 2018

JONATHAN JEREMIAH

Jonathan Jeremiah 
Good Day
[
Pias/ Self 2018]
facebook.com/jjeremiahmusic
 File Under: il nostro disco che suona…

di Nicola Gervasini 
(10/10/2018)
In un'epoca in cui le grandi etichette ormai non riescono più a determinare il mercato, Jonathan Jeremiahaveva rappresentato per la storica Island Records un positivo tentativo di dire qualcosa anche in questi anni dieci. Lo storico patron Chris Blackwell ha ormai da tempo venduto tutto alla Universal, ma nel tentativo di mantenere un marchio che un tempo voleva dire coraggio e qualità nel cercare nuovi mondi musicali, si scoprì questo bello e strambo cantautore londinese, che con la Island ha pubblicato due dischi (A Solitary Man del 2011 e Gold Dust del 2012) infarciti di sapori da cantautorato classico americano e un pizzico di attitudine da indie-folker. Scaricato dalla Universal, il nostro tiene però duro, e il suo quarto album Good Day esce per una label indipendente, con buona pace dei tempi in cui firmare per una major era un sogno da realizzare e un punto di arrivo.

Good Day accentua ancor più quel suo gusto vintage di ricerca di sonorità antiche, che pescano stavolta nel soul-pop degli anni sessanta. Nulla di nuovo in questo recupero, il sound di Good Day non è infatti lontanissimo da quanto proposto (allora sì con un pizzico di originalità nella scelta) dalla sfortunata Amy Winehouse ai tempi del suo unico album Back To Black. Soltanto che nel 2018 le esperienze musicali da cui attingere sono ormai svariate, per cui accade che un pezzo come Deadweight riesca in un colpo solo a richiamare il giro di basso di Sour Times dei Portishead per trasportarlo in sette minuti di tripudio orchestrale degno di una colonna sonora di un James Bond degli anni 60. E' questo sicuramente il pezzo forte e più rappresentativo di un album che probabilmente gioca più con la forma che con la sostanza, quasi che i panni di semplice songwriter dei sui esordi gli stiano ormai stretti. Il gioco vale la candela perché la (ri)produzione dei suoni è davvero notevole, ma alla fine si fa ripetitivo, e fine a sè stesso.

Piacciono comunque la leggerezza della title-track, l'intensità di Hurt No More (ma quegli archi dietro non ricordano un po' troppo quelli di Ain't No Sunshine di Bill Whiters?), e il momento puramente Burt Bacharach di U-Bahn (It's Not Too Late For Us). Per il resto i brani non solo si assomigliano un po' tutti, ma assomigliano a tanti brani del new-soul degli ultimi quindici anni, e ancor più ricordano sempre tanti originali di 40-50 anni fa. Ripartire dalle origini sembra essere il gioco della modernità, per cui accettiamo Good Day come l'ennesimo esercizio di stile condotto con professionalità. In fondo fa anche piacere che le giovani leve apprezzino ancora una ballatona romantica come Shimmerlove, un pezzo che sarebbe potuto piacere ai nostri nonni come alternativa a Fred Bongusto, e che risponde alla domanda che fu di Joe Jackson su dove diavolo siano finiti i lenti.

Il bello di questi dischi è che in fondo dimostrano come la fine dell'età dell'oro del rock abbia abbattuto anche le lotte generazionali, e se Bob Dylan può finire la carriera cantando Frank Sinatra risultando credibile, nulla di strano se oggi i figli suonano la musica che i loro nonni ascoltavano sulle rotonde sul mare come se fosse rivoluzionaria.

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